lunedì 30 luglio 2012

Paolo Bassani, L'elicriso


Da: Paolo Bassani, L'elicriso - Poesie. Litografia Europa, La Spezia, 1988



Si tratta di un volume che trovai nella chiesa di Caprigliola, un piccolo borgo presso Aulla, al confine tra Toscana e Liguria, allora ancora servito dalla ferrovia. Di tutte le poesie, ne riporto tre che mi sembrano significative, tra cui quella che dà il titolo alla raccolta.

L'elicriso

Di questa terra mia rupestre
che da millenni
al mare si protende
aspra
selvaggia
e luminosa
in perpetua contesa
coi venti e i flutti,
tu, biondo elicriso,
profumo intenso effondi
e ardente luce.
Un pugno di terra
tra le pietre:
altro non chiede
la tua vita;
come questa gente antica
che ancora non s'arrende
alla fatica
né il cuore cede
alle lusinghe
di facili promesse.
Elicriso,
mio fiore di Liguria,
figlio del sole
del vento
e del silenzio,
tu, che per la costa vai
tra rocce e lame,
lungo scogliere
e ripidi sentieri,
tu, che nessuna cura chiedi,
oggi,
come un prodigio,
generoso t'apri
dove pareva
impossibile
la vita.






Vento di pini

Lontano
t'annunci
vento di pini
che scendi
impetuoso
la costa.
A ondate
gli olivi
scompigli
e pieghi,
e foglie
e polvere
in turbini
innalzi
lungo
sentieri
deserti
Corri
t'arresti
riprendi ansimando.
Spazzi le strade
t'infili nei borghi
bussi alle porte...
Rapido passi
e lontano ti perdi
come la vita
senza
dare
risposta.



Viaggio a Monterosso

Quanta felicità
per questo viaggio
in treno!
Come soltanto un bimbo
sa provare.
Core il convoglio
e tu fremi nel vento.
L'azzurro del mare
e del cielo
si mostra d'un tratto
e scompare
nel buio delle gallerie.
Sussulta il tuo cuore
all'atteso timore.
Poi
di nuovo la luce:
scogli orlati di spuma,
un gabbiano che vola,
lontano una vela...
Su un muro di pietra
un rosso geranio
sorride con te.





PREMIO "MARIO TOBINO" STORIA E PREMIAZIONE





IL PREMIO LETTERARIO
“MARIO TOBINO”
Ricordi
di
Paolo Bassani




Un giorno del novembre 1999, mentre stavo andando alla Biblioteca Civica (di Vezzano Ligure) incontrai l’amico Sergio Cozzani. Ci conoscevamo da parecchio tempo, anche perché egli era sempre stato presente alle cerimonie culturali indette dal nostro Comune, comprese quelle dedicate alla mia poesia. “Perché non facciamo anche noi un Premio di poesia, come quello che fanno a Baccano?” mi disse. “Noi, chi?” risposi incuriosito “Io, te, la Pro Loco, i Gelatieri…” replicò con naturalezza. A questo punto pensai che forse Sergio non aveva idea di quel che comporta organizzare una manifestazione di quel genere: per l’impegno ma, anche per le indubbie risorse economiche necessarie per lanciarlo. Oggi, con Internet, si può facilmente divulgare il bando (anche se parecchi poeti “anziani” hanno poca dimestichezza con le nuove tecnologie e, quindi, preferiscono ricevere quello tradizionale). Allora, però, il bando era esclusivamente cartaceo. Chi avrebbe anticipato le spese di stampa e di spedizione? Nondimeno, era necessario poter contare su qualche personaggio importante nel campo della cultura. Per esempio, a chi sarebbe stata affidata la presidenza della commissione giudicatrice? Con tranquillità e con poche parole Sergio espose chiaramente il suo pensiero: “Per quanto riguarda le spese di stampa e di spedizione del bando, le anticipiamo noi Gelatieri”. La manifestazione, infatti, sarebbe stata sostenuta dal Comitato Provinciale Gelatieri di cui Sergio era presidente e, successivamente, dal Comune e dalla Pro Loco. Per quanto riguardava il presidente di giuria, Sergio aveva pensato al professor Giuseppe Benelli, un nome molto autorevole della cultura Lunigianese, che aveva conosciuto a Pontremoli: gli era stato presentato da una amico “gelatiere”. Qualche giorno dopo, Sergio mi telefonò che aveva preso appuntamento con Benelli e che avrebbe avuto piacere che anch’io fossi presente a quell’incontro. Capii allora che il progetto del Premio stava veramente andando avanti.
L’incontro ebbe esito positivo: il professor Benelli dimostrò generosa disponibilità a presiedere la commissione giudicatrice che fu composta da: Alberto Albonetti, Giuliano Angeletti, Paolo Bassani, Ines Betta Montanelli, Franco Cozzani. Così ebbe inizio il lavoro di preparazione. Ogni concorso che si rispetti deve invogliare il concorrente a partecipare.
Sergio, che aveva buona esperienza nella realizzazione di simili eventi (nel campo dei gelatieri), disse che anche la consistenza del premio aveva la sua importanza.
E così propose di mettere in palio tre riconoscimenti da consegnare ai primi tre classificati, quantificando anche la consistenza del premio, rispettivamente in euro 500, 250, 150. Effettivamente, al di là dell’onore che porta sempre una vittoria conquistata sul campo, è bello anche il poter essere presenti alla premiazione. Questo, ovviamente, comporta al premiato anche qualche spesa, soprattutto se viene da altre regioni, a volte molto lontane. E’ bene, quindi, che il premio assolva anche una sorta di “funzione rimborso”. Oltre ai primi tre premiati, fu stabilito di dare premi di rappresentanza (consistenti in quadri d’autore, opere grafiche d’autore, medaglie, coppe, targhe, oggetti di valore, pubblicazioni, diplomi originali personalizzati) anche ai sette finalisti. Ovviamente, poiché le spese di realizzazione del concorso erano abbastanza consistenti, fu stabilito di mettere una modesta quota di partecipazione (11 euro). Fu quindi realizzato un pieghevole a tre ante che, oltre al bando del concorso, riportava alcune suggestive immagini vezzanesi (la chiesa romanica di Santa Maria ed uno scorcio del rione Borgo con il suo storico pozzo). La stampa avvenne presso una nota tipografia e la spedizione del pieghevole, con tanto di busta intestata, riguardò quasi duemila poeti nazionali. Avevo chiesto il permesso di utilizzare l’indirizzario del Premio “Santa Margherita” di Baccano di Arcola, della cui giuria facevo parte dal suo inizio. Ovviamente, oltre al bando del Premio, che aveva come titolo “Mario Tobino” e come sottotitolo “Il grappolo d’oro”, fu fatta una buona pubblicità all’iniziativa, attraverso i giornali e le emittenti radiotelevisive locali, nonché facendo inserire il bando su alcune riviste letterarie nazionali. Con soddisfazione constatammo che, nonostante fosse la prima edizione, la partecipazione fu abbastanza numerosa. E’ noto che ogni concorso, al suo inizio, ha bisogno di un periodo di “rodaggio” per farsi conoscere ed apprezzare. In verità, abbiamo avuto la soddisfazione di constatare che, di anno in anno, il Premio “Mario Tobino” acquistava sempre più notorietà e partecipanti. Penso che la miglior pubblicità di una iniziativa sia fatta da chi ha avuto modo di conoscerla personalmente. Districarsi tra i duemila e più concorsi letterari a livello nazionale non è cosa semplice. Innanzi tutto si deve fare una distinzione tra premi seri e premi meno seri. Nel variegato panorama dei concorsi letterari, infatti, non tutti i premi danno una sufficiente garanzia di serietà, di trasparenza, di credibilità. Ci sono, purtroppo, premi pilotati, premi con spiccato risvolto speculativo, premi ove la poesia non è protagonista ma pretesto, per organizzare qualche manifestazione mondana, qualche passerella, che poco ha da spartire con la poesia. Ci sono premi in cui si preferisce premiare il nome famoso piuttosto dell’opera presentata. Fortunatamente ci sono anche i premi seri, che hanno una loro dignità, trasparenza, credibilità; il coraggio di premiare l’opera completamente anonima, indipendentemente dalla fama del personaggio. Partecipare a questi premi è sicuramente un momento di incontro e confronto. Essi possono essere di stimolo alla creatività e favorire veramente una crescita culturale. Mi sia consentito di dire che il “Premio Tobino” è entrato nel 2000 in questa rosa e ne continua a far parte. Mi piace ricordare gli apprezzamenti che, negli anni, sono giunti all’organizzazione. Sono testimonianze che sicuramente gratificano tutti coloro che si sono impegnati per la miglior riuscita della manifestazione. Ne voglio rammentare una per tutti: quello di Giancarlo Interlandi di Acitrezza, Catania. Il poeta, che si era classificato al secondo posto nell’edizione del 2008, si trovò nell’ impossibilità di essere presente alla cerimonia di premiazione e, quindi di ritirare il premio: i 250 euro previsti. Nella totalità dei concorsi, e quindi anche nel nostro, c’è una norma che prevede la consegna dei premi in denaro soltanto ai vincitori. In caso contrario, l’importo è incamerato dall’ organizzazione ed utilizzato per la successiva edizione. Ebbene, in questo caso Sergio decise di non applicare la regola, ma di inviare a domicilio del premiato l’importo in denaro, con assegno. Quando Interlandi ricevette a casa l’inatteso premio, rimase profondamente colpito e con una commossa lettera volle testimoniare la sua gratitudine al Comune, rimarcando che per lui (assiduo concorrente ed anche premiato in moltissimi concorsi) era la prima volta che riceveva a casa un premio in denaro, che non aveva potuto ritirare di persona. Il Premio Tobino è nato anche per “esportare” l’immagine di Vezzano. Crediamo che questa finalità spesso si sia attuata anche attraverso la cerimonia di premiazione.
Ci sono poeti, a volte di regioni lontane, che venendo a ritirare un premio hanno avuto l’opportunità di ammirare con meraviglia le immagini del nostro paesaggio, conoscere un po’ della sua storia e tradizioni. Per questo, in compagnia di parenti ed amici, sono tornati in occasione della Festa dell’uva o durante itinerari turistici dell’estate.
Le opere, e soprattutto le iniziative culturali, nascono e sono perpetuate per la volontà e disponibilità di chi crede nel loro valore educativo e sociale. Purtroppo, il tempo passa ed anche le persone; quindi il ricambio fisiologico diventa necessità. Non sempre, però, si trovano soggetti disponibili per passione e ben disposti a dare un po’ del loro tempo per far proseguire queste iniziative. Sì, gli uomini passano; soltanto le istituzioni sopravvivono. Cosciente di questa realtà, Sergio Cozzani, interpretando anche il desiderio degli altri amici legati al Premio Mario Tobino, ha chiesto al Comune di Vezzano Ligure di gestire completamente, attraverso l’Assessorato alla Cultura, il futuro del concorso. Penso che ogni persona che ha realizzato qualcosa abbia il segreto desiderio di vedere proseguire quanto realizzato. E’ questa la migliore gratificazione per l’impegno profuso nel tempo. Con lodevole sensibilità il Sindaco Fiorenzo Abruzzo ha accolto la richiesta, dando mandato all’ Assessore alla Cultura Paola Baldini di curare l’organizzazione, come riportato dalla stampa:
l’Assessore Paola Baldini ha deciso, d’accordo con i soggetti fondatori del premio, nato nel 2000 a Vezzano Ligure grazie a un gruppo di volontari del Comitato Provinciale Gelatieri, della Pro Loco e del Gruppo Folk, di assumerne l’organizzazione e la gestione volendo che il concorso fosse gratuito e avesse un logo identificativo che è stato gentilmente realizzato dall’artista toscana Fiorella Vignale Pelù…
Così, dall’edizione del 2010, il Premio “Mario Tobino” è diventato una componente significativa dell’attività culturale comunale. In questo ambito alla sezione poesia singola ne sono aggiunte altre: silloge inedita, libro edito. E’ stata aggiunta anche la narrativa: Sezione Narrativa a tema, Sezione Teatro a tema, nonché la Sezione Ragazzi per la poesia singola e narrativa. Il Premio letterario “Mario Tobino” è quindi diventato un’ampia realtà culturale che unisce il vasto panorama della letteratura alla scuola. 


Inedito di Luciano Nota


LA NOCE

Qui si sente calore.
Il buio non ha voce.
La noce voltola
giunge ai piedi
di un tavolo giallo
al cui centro s'incrociano alluci.
Qui si sente odore
di monili sottili.
Lo spazio di un ardore.
La noce rivoltola
svolta a destra
si consuma
fissa arguta la stanza.
Muore al centro di un armadio
al cui lato s'infiamma la danza.

domenica 29 luglio 2012

Rodolfo Vettorello, tre poesie


CLIZIA

Io lo so che mi perdo
anche dentro lo specchio ristretto
di una polla sorgiva,
dove l'acqua increspata riflette
nubi a correre in cielo.
E lo so che mi annego
anche dentro il tuo sguardo di donna,
al frusciar di una gonna,
all'idea che per capo mi frulla,
a una dolce illusione da nulla.
Io lo so che mi perdo per gioco
anche dentro la trama conclusa
d'uno stralcio di sogno,
di una dolce promessa delusa.
Libreria Mezzaterra, in vetrina
mi sorride
il Montale di Lettere a Clizia,
copertina
che ripaga di rosa l'attesa
di te che ti specchi
e riflessa
mi regali uno sguardo improvviso
e un sorriso.
A ogni agosto,
quando il sole arroventa i selciati,
io risalgo quell'erta
che porta
alla Piazza Maggiore su in alto,
che indovino
dai voli impazziti di rondini
e ricerco il tuo sguardo
raddoppiato nei vetri
e mi sembri tornata
mia Clizia,
vaghissimo sogno incosciente
che porti negli occhi il prodigio
di un lampo d'azzurro
e nel riso
un'ipotesi vaga d'amore,
una dolce promessa di niente.





L’IPOTESI CHE SIAMO

Si può, lo so, si può provare a fare
di questo spazio minimo nel mondo
il nostro paradiso,
come la stanza piccola in cui vivo,
dove raccolgo
cimeli vari, sfilacciati brani
di quel tappeto magico che impiego
per visitare i luoghi del mio sogno,
paradisi di ciottoli raccolti
in ogni luogo,
la traccia sottilissima che inseguo
sul mio sentiero.
Le foto in seppia, a volte un po’ sbiadite,
di visi sconosciuti ed il profumo
d’un passato perduto,
come il piccolo mazzo di violette
legate con un nastro di velluto.
Si può, lo so,
si può non interrompere il discorso
con quello che rimane del ricordo.
Si può parlare con continuità,
tenere aperto il dialogo col mondo
e con se stessi.
Offrirsi una parola di conforto
ogni mattina all’ora del risveglio
per amare di noi quello che adesso
è come allora:
                       il nostro paradiso,
l’ipotesi che siamo,
                               il cielo stesso.





TERRA  DI  PIANTO
( alla mia terra e a tutte le terre di Emigranti)

E’ genuflessa terra, questa
che piega a nord, tra le montagne e il fiume.
E’ l’aria tersa a pennellare azzurro
sui candidi merletti delle cime;
è lana grezza,
filata dalle donne nei filò,
le lunghe sere;
è come sangue il rosso dei tramonti
dei minatori dai polmoni erosi.
(La silicosi è roccia che si addensa,
è pietra che condensa intorno al cuore.)
E’ prona terra, a volte,
di solitarie donne nei paesi,
di bimbi e nonni
o eretta come i picchi
che grattano le nubi passeggere.
Io scelgo sempre chi non ha una voce,
scelgo la fame dei bambini soli,
le piaghe da decubito dei vecchi
o le parole scarne dei poeti.
Ti scelgo terra che non hai cantori
e lo farò per darti
le sole tre parole che conosco,
unite insieme a simulare un canto.
Ti chiamerò col nome che ti danno
vedove bianche, unite nel lamento,
dolente, sfortunata, genuflessa,

terra di pianto.







BIOGRAFIA  MINIMA

Autore:  Rodolfo VETTORELLO
via Mosé Bianchi 79  cap. 20149  MILANO
tel 02 48016148  cell. 333 6972429
nato a Castelbaldo (PD) l’11-09-1937
Rodolfo VETTORELLO  vive a Milano dal 1960. Laureato in architettura al Politecnico di Milano con Gio Ponti ed Ernesto N. Rogers  ha operato nel settore pubblico e poi nella libera professione.
Membro di diverse Giurie di Premi Letterari tra cui:
Premio Nazionale di Poesia Lions Club Milano Duomo
Premio IPLAC “Insieme per la Cultura” di Mestre (Venezia)
Premio  Nazionale di Poesia “Micheloni”  Aulla (Massa)
Concorso Artistico  Lett. Naz.“Ho diritto a …” Aulla (Massa)
Premio di Poesia Arcadia di Pitigliano (Grosseto)
Premio Letterario “Montefiore” Rimini
Premio di Poesia Giovanile “Francesca Randi” Padova
Premio Letterario “Streghetta” Milano
Concorso Lett. Naz. “Naviglio Martesana” Cassina de Pecchi
Premio Letterario Intern. “Città di Cattolica” (RN)
Premio Letterario Intern. “Città di Martinsicuro” (TE)
Ha pubblicato un Romanzo: AL DI LA’ DEL MURO  Golden Press Edit. Genova nel 2007
Una Raccolta di Racconti: COSE DI DONNE   G.P.  Grasso Edit. Vaprio D’Adda 2009
Circa venti  Raccolte di Poesia. 
PIAGHE D’AMORE  con l’Editore Leonida di RC. e L’IPOTESI CHE SIAMO con l’Editore Ibiskos Ulivieri di Empoli, sono le ultime pubblicate nel 2011.
VOGLIO PARLARTI ADAGIO  Editore Leonida di RC e
DISCORSO SUL METODO Editore Helicon di Arezzo sono le ultime due Raccolte pubblicate nel 2012
E’ Socio Fondatore e Presidente del Cenacolo Letterario Internazionale  ALTREVOCI  www.cenacoloaltrevoci.weebly.com
Cenacolo che bandisce il Premio Letterario Internazionale  THESAURUS 



LINK "IL CANTO DEL CIGNO" POESIA E MUSICA


LINK DEL VIDEO "IL CANTO DEL CIGNO MUSICA E IMMAGINI"

http://www.youtube.com/watch?v=ELKVffm-Y0Y&feature=em-share_video_user

COMUNICATO LETTERARIO

COMUNICATO LETTERARIO
 
Segue il link del dell'articolo sull'iniziativa promossa dall'Associazione Editori Abruzzesi - Gelati letterari d’agosto e settembre - 1 agosto / 14 settembre - Gelateria La Vela d'Oro - Porto Turistico Marina di Pescara.
 
 
In questo ambito, mercoledì 1 agosto, alle ore 21.30, verrà presentato il saggio Francis Bacon La visione del futuro di Daniela Quieti, introduzione di Walter Mauro e prefazione di Aldo Onorati, Collana di saggistica La Ginestra diretta da Walter Mauro, Tracce 2012.
Relazionerà Igino Creati, poeta e critico letterario. Coordinerà Nicoletta Di Gregorio, Presidente delle Edizioni Tracce.



Premio "Via Francigena" Edito


SEZIONE POESIA EDITA


Primo premioFRANCESCO SASSETTO di Venezia per “Ad un casello impreciso”
Secondo PremioNAZARIO PARDINI di Arena Metato (PI) per “Alla volta di Leucade”
Terzo premio CARMELO CONSOLI di Firenze per “L’ape e il calabrone”
Premio Speciale della CriticaESTER CECERE di Taranto per “Come foglie in autunno”
CLAUDIO DAVEGGIA di Venezia per “Ombre della barena”
STEFANO MELANDRI di Ravenna per “Ventilate carezze”
ALBERTO RAIMONDI di Lodi per “Poesie in forme musicali”
STEFANO REGGIANI di Reggio Emilia per “Appeso per i piedi all’orlo del mondo”
Premio della GiuriaANTONIO AVENOSO di Melfi (PZ) per “Un poeta ricomincia daccapo”
GIUSEPPE BERTANI di Bologna per “Attimo chiaro”
MARIAGINA BONCIANI di Milano per “Poesie”
ANTONELLA CAROSINI di Livorno per “Gocce”
FABIO DE MAS di Belluno per “Ostinato sognatore”
GIGLIOLA FERRARI di Calci (PI) per “E poi… il sole”
GIULIO DARIO GHEZZO di Venezia per Gli occhi dell’alba”
EDDA GHILARDI VINCENTI di Bergamo per “Lungo le vie della poesia”
PIERA GUCCIARDO di Catania per “Respirare emozioni”
MARCO LOJACONO di Ivrea (TO) per “Il sentiero della luna”
GIOVANNI LORÈ di La Spezia per “Nebbie”
DAVIDE MANGANARO di Avola (SR) per “Con la bussola nel cuore”
ORIETTA PALMA NOTARI di Roma per “L’ottava nota”
LEDA PANZONE NATALE di Pescara per “Il mio corriere per i bambini”
FRANCESCA PARISI di Trieste per “La costola di Adamo”
RITA PARODI PIZZORNO di Genova per “Imago poetae - II”
ALESSIO PASQUALI di Pontremoli (MS) per “Nonostante tutto”
M. GIOVANNA PERRONI di Montepulciano (SI) per “Raggiungere l’Eden”
ANTONIO SEMPRINI di Forlì (FC) per “L’olocausto dei sogni”
GIUSEPPINA TUNDO di Maniago (PN) per “Infinitamente donna”


BRESCIA, 15/maggio/2012

Premio Letterario "Arti Letterarie Città di Torino"


<< MOTIVAZIONE AL LIBRO 
"L'AZZARDO DEI CONFINI" 
DI NAZARIO PARDINI 
1° CLASSIFICATO AL PREMIO LETTERARIO 
"ARTI LETTERARIE CITTA' DI TORINO" 

È un viaggio a folle velocità costante, nell’arte della costruzione poetica. Leggo appassionato una canzone trascinante, ricca di immagini e riferimenti vivi di storia di strada e di vita vissuta. Non si può terminare la lettura di nessuno di questi versi, se prima non ci si è calati in questa spelonca dei sogni (da l’isola di Crono).
 Non è difficile perdersi estasiati nella ragnatela d’emozioni che Nazario Pardini ci confeziona con amore. È come un film in “3D”; chi legge è vicino al protagonista, vive con i suoi occhi, diventa scenografia, ne fa parte. L’azzardo dei confini entra nei nostri cuori, non solo come il libro più votato dalla giuria tecnica, ma anche come compagno di giochi nel percorso, fino alla frontiera dell’azzardo personale.>>. (Andrea Bolfi, Commissione del Premio Nazionale di Arti Letterarie, per L’azzardo dei confini, Torino 2012)


Premio Letterario "Aeclanum"


MOTIVAZIONE AL LIBRO 
"L'AZZARDO DEI CONFINI" 
DI NAZARIO PARDINI
SECONDO CLASSIFICATO AL PREMIO LETTERARIO "AECLANUM" 


 <<La silloge di Nazario Pardini, composta da quattro sezioni: Ombre (40 poesie), Elegie Pisane (32), Dialoghi (3), Canti Larigiani (28), ha l’intricante titolo L’azzardo dei confini. Confini sono, in senso letterale e traslato, il limite tra il noto e l’ignoto, l’essere e il non essere. Superare tale limite è rischioso, come il folle volo di Ulisse.
      I componimenti qui raccolti costituiscono una sorta di consuntivo di un’attività poetica costante nel tempo. Essi si segnalano per la limpidezza e l’armonia del verso, per l’abilità di versificatore che si muove con agilità tra varie proposte  metriche e prosodiche e tra generi poetici diversi, per l’efficacia e l’originalità delle immagini, per la capacità meditativa di cui dà prova nei  Dialoghi.
      Degno di nota è l’impasto linguistico che mescida con sapiente equilibrio arditi neologismi (come i verbi autunnare e involucrare, i sostantivi buiore e balascio e l’aggettivo rubido), voci culte (acro) ed espressioni popolareggianti (come Non ti pensare che).
      Pregevoli sul piano formale e compositivo sono le liriche nate dall’intenso legame affettivo che lega il poeta a Pisa e alla sua campagna toscana. Emblematica in tal senso è la lirica Per respirare assieme alla mia terra, in cui il Pardini, nella scia di Ovidio e, soprattutto, D’Annunzio (Piove) vagheggia la metamorfosi degli organi del suo corpo (arti, ciglia, dita, capelli, occhi) nei vari elementi vegetali (rami, verdi, grappoli di funghi, distese di grani, bacche di ginepro) “per non perire, / ma verdeggiare di nuovo sugli alberi / per respirare assieme alla mia terra”.>>. (Antonio V. Nazzaro a L’azzardo dei confini, BookSprint Edizioni, 2011; Premio Aeclanum)   


(Il premio era già stato vinto dall'autore nell'edizione 2000 con l'opera Alla volta di Leucade") 

Premio Letterario " Aeclanum"


MOTIVAZIONE ALL'OPERA 
"L'AZZARDO DEI CONFINI" 
DI NAZARIO PARDINI 
SECONDA CLASSIFICATA 
AL PREMIO LETTERARIO "AECLANUM" 




  <<La dedica iniziale dell’autore al suo figliolo, in questo libro di poesie, indica la conclusione di un progetto di vita e di esistenza. Le liriche ne rivelano la valenza affettuosa, morale, senza dubbio poetica e culturale. L’autore trova ispirazione dal quotidiano, dal conflitto che ci porta decisamente, tra noi e il mondo, a giudicare, l’itinerario della nostra esistenza personale nel panorama infinito dell’universo, dal discorso della vita che si realizza nella comunità degli uomini, nella natura creata. Paesaggi della memoria, la visione del mondo nel tempo e nello spazio, la saggezza del quotidiano, la forza della memoria, gli affetti familiari, tra il passato e il presente si collegano nella lirica del ricordo “Abbi fiducia, figlio, nella vita” e in “Io venni per cantare”, dove “E’ l’ora che ti lasci, figlio, / e torni alla mia terra: dove il mare…”.>>. (Giuseppina Luongo Bartolini a L’azzardo dei confini, Book Sprint Ed., 2011; Premio Aeclanum)

Premio Letterario "Città di Pontremoli"


MOTIVAZIONE ALL'OPERA 
"L'AZZARDO DEI CONFINI" DI NAZARIO PARDINI
PRIMA CLASSIFICATA AL PREMIO LETTERARIO 
"CITTA' DI POTREMOLI"


<<La raccolta di Nazario Pardini, L’azzardo dei confini, riunisce in silloge organica le liriche che meglio rappresentano un percorso esistenziale ricco di emozioni poetiche. Il ripiegamento sul passato, sugli affetti perduti e sui luoghi dell’anima, si integra con le istanze del presente a dar vita ad una serie di composizioni di alto valore tecnico, alternando forme metriche tradizionali, trattate con estrema perizia, a versi sciolti, su cui opera con note armoniose. Se il sentimento fluisce impetuoso e libero, la tecnica controlla e frena per una liricità intensa ed equilibrata. (Commissione del Premio Letterario “Città di Pontremoli”, 01/04/2012)) 

Premio Letterario "Toscana in poesia"



MOTIVAZIONE ALL'OPERA 
"ALLA VOLTA DI LEUCADE" 
DI NAZARIO PARDINI 
2° CLASSIFICATA AL PREMIO LETTERARIO "TOSCANA IN POESIA"

<<Nella perentoria constatazione del “panta rei”, cioè della ineluttabile realtà, nella quale tutto passa, tutto scorre e si perde, per cui le cose hanno una valenza relativa e limitata, si avverte di contro in questi versi, la chiara sensazione del trascendente e dell’eterno. Contrasto e sintonia, visti nell’ottica sapiente di una mente assorta e meditativa, fanno di questo testo, un esempio accattivante di felice abbinamento. Le descrizioni dei luoghi e dei paesaggi, risentono fatalmente di questa coscienza, che traduce misteriosamente i messaggi ricevuti, facendo delle antinomie l’essenza pregnante della poesia. La composta frequenza dell’endecasillabo, di puro stile classico, bene si fonde con le chiare visioni d’immagini moderne. Frequenti le reminescenze derivanti dalla profonda conoscenza del mondo classico e della sua cultura.>>. (Commissione del Premio Letterario “Toscana in Poesia”, per il testo “Alla volta di Leucase” 20/05/2012) 

Premio Letterario "Val di Vara - Micheloni"


MOTIVAZIONE AL LIBRO "L'AZZARDO DEI CONFINI"
DI 
NAZARIO PARDINI

PRIMO CLASSIFICATO 
 AL PREMIO LETTERARIO "VAL DI VARA - MICHELONI



<<La silloge edita “L’azzardo dei confini” del poeta Nazario Pardini si è aggiudicata il 1° Premio al concorso di poesia e narrativa “Alessandra Marziale” ed. XIII. La poesia del poeta Nazario Pardini “smuove dentro” dà forti emozioni e a volte piacevolmente aggredisce.
Le atmosfere delle poesie sono naturali-realistiche, in primo piano ci sono gli oggetti e gli elementi del paesaggio o le situazioni della sua tanto amata campagna. Atmosfere – dunque – di grande impatto emotivo e di grande efficacia evocativa. Alcune espressioni entrano in chi legge per non uscirne più. “… un sospiro che lisciava l’azzurro” “… le barche logorate dai libecci…” tanto per citarne alcune.
Il Poeta Pardini – con le sue poesie – ci fa vivere in una grande-intensa dimensione poetica.
Grazie Nazario per le emozioni che hai saputo donarci.>>. (Anna Magnavacca, poetessa, critico letterario: Motivazione del Premio Letterario “Val di Vara – Alessandra Marziale”. Podenzana, Aulla 24/06/2012)

Premio Letterario "Mario Tobino", Verrazzano Ligure


PRIMO PREMIO
PER IL LIBRO
ALLA VOLTA DI LEUCADE
A
NAZARIO PARDINI


<<Il poeta propone una lirica di impegno particolare, ornata di descrizioni della NATURA e dei suoi fenomeni molto dettagliata, affascinante, ricca di delicate, velate trasparenze, atmosfere magiche, esaltate da straordinaria sensibilità cromatica, insistendo su gamme coloristiche ascendenti, discendenti, con perizia di scelta pittorica.
La  musicalità danza tra i versi, per lo più lieve, a volte potente, come nella quinta parte in cui si articola il libro, sezione che accoglie rara erudizione, con rimandi omerici, richiami mitologici molteplici, similitudini molto ben adeguate; il tutto con svolgimenti tematici sottolineati da una terminologia sempre molto attenta e pertnente.
I suoi versi sono illuminati e caratterizzati da speciale amor vitae, energia vitale che li potenzia fino a raggiungere universale valenza.
Ars poetandi dotata di raccolti momenti di introspezione profonda, di esame analitico dell’uomo e dell’umanità tutta. È opera che trasferisce emozioni, sottili, toccanti, invitando al godimento della lettura e dell’ascolto interiore.>>. (Recensione della Commissione del Premio Letterario “Mario Tobino”, Verrazzano Ligure, 28/07/2012, per il libro Alla volta di Leucade)














sabato 28 luglio 2012

"Malaria" Giovanni Verga da "Novelle rusticane" (anno 1883)


Malaria


E' vi par di toccarla colle mani - come dalla terra grassa che fumi, là, dappertutto, torno torno alle montagne che la chiudono, da Agnone al Mongibello incappucciato di neve - stagnante nella pianura, a guisa dell'afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l'estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell'autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandra, nel gran silenzio, volan via le cutrettole, silenziose, e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all'ombra dei giunchi secchi. È che la malaria v'entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all'ambio, colla testa bassa. Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle.
Laggiù, nella pianura, le case sono rare e di aspetto malinconico, lungo le strade mangiate dal sole, fra due mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie crollanti, dove aspettano coll'occhio spento, legati alla mangiatoia vuota, i cavalli di ricambio. - O sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell'osteria appesa all'uscio, le grandi stanzucce vuote, e l'oste che sonnecchia accoccolato sul limitare, colla testa stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna deserta, se arriva un passeggiero assetato. - Oppure come cassette di legno bianco, impennacchiate da quattro eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia che taglia in due la pianura come un colpo d'accetta, dove vola la macchina fischiando al pari di un vento d'autunno, e la notte corruscano scintille infuocate. - O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un pilastrino appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte sconquassate, dinanzi all'aia screpolata, all'ombra delle alte biche di paglia dove dormono le galline colla testa sotto l'ala, e l'asino lascia cascare il capo, colla bocca ancora piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e abbaia roco al sasso che si stacca dall'intonaco, alla lucertola che striscia, alla foglia che si muove nella campagna inerte.
La sera, appena cade il sole, si affacciano sull'uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellaccio di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e stirandosi le braccia; e donne seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e disfatti, che non si sa come si faranno grandi e neri, e come ruzzeranno sull'erba quando tornerà l'inverno, e l'aia diverrà verde un'altra volta, e il cielo azzurro e tutt'intorno la campagna riderà al sole. E non si sa neppure dove stia e perché ci stia tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole solitarie, circondate dalle siepi dei fichidindia, a dieci miglia in
giro, sin dove si ode squillare la campanella fessa nella pianura che non finisce mai. Però dov'è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c'entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il Signore ha detto: «Il pane che si mangia bisogna sudarlo». Come il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non c'è più bisogno di solfato né di decotto d'eucalipto, lo si carica sulla carretta del fieno, o attraverso il basto dell'asino, o su di una scala, come si può, con un sacco sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria, sotto i fichidindia spinosi di cui nessuno perciò mangia i frutti. Le donne piangono in crocchio, e gli uomini stanno a guardare, fumando. Così s'erano portato il camparo di Valsavoia, che si chiamava massaro Croce, ed erano trent'anni che inghiottiva solfato e decotto d'eucalipto. In primavera stava meglio, ma d'autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa, e non si faceva più vedere sull'uscio che ogni due giorni; tanto che si era ridotto pelle ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo chiamavano il Rospo anche pel suo fare rozzo e selvatico, e perché gli erano diventati gli occhi smorti e a fior di testa. Egli diceva sempre prima di morire: - Non temete, che pei miei figli il padrone ci penserà! - E con quegli occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno coloro che gli stavano attorno al letto, l'ultima sera, e gli mettevano la candela sotto il naso. Lo zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato duro come un sasso e pesante un rotolo e mezzo. Qualcuno aggiungeva pure: - Adesso se ne impipa! ché s'è ingrassato e fatto ricco a spese del padrone, e i suoi figli non hanno bisogno di nessuno! Credete che l'abbia preso soltanto pei begli occhi del padrone tutto quel solfato e tutta quella malaria per trent'anni? - Compare Carmine, l'oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt'e cinque, l'un dopo l'altro, tre maschi e due femmine. Pazienza le femmine! Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi, nell'età di guadagnarsi il pane. Oramai egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino e si metteva ad ammanire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare l'appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: - Tè! mangia! - Il resto lo pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in città. - Il lago vi dà e il lago vi piglia! - Gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine. - Che volete farci, fratel mio? - Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo che abbia fame e freddo. In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti. Ma a poco a poco andavano assottigliandosi così che la madre divenne curva come un gancio dai crepacuori, e il padre che era grosso e grasso, stava sempre sull'uscio, onde non vedere quelle stanzacce vuote, dove prima cantavano e lavoravano i suoi ragazzi. L'ultimo rimasto non voleva morire assolutamente, e piangeva e si disperava allorché lo coglieva la febbre, e persino andò a buttarsi nel lago dalla paura della morte. Ma il padre che sapeva nuotare lo ripescò, e lo sgridava che quel bagno freddo gli avrebbe fatto tornare la febbre peggio di prima. - Ah! - singhiozzava il giovanetto colle mani nei capelli, - per me non c'è più speranza! per me non c'è più speranza! - Tutto sua sorella Agata, che non voleva morire perché era sposa! - osservava compare Carmine di faccia a sua moglie, seduta accanto al letto; e lei, che non piangeva più da un pezzo, confermava col capo, curva al pari di un gancio.
Lei, ridotta a quel modo, e suo marito grasso e grosso avevano il cuoio duro, e rimasero soli a guardar la casa. La malaria non ce l'ha contro di tutti. Alle volte uno vi campa cent'anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né arte né parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti lo conoscevano a quaranta miglia intorno, siccome andava da una fattoria all'altra, aiutando a governare i buoi, a trasportare il concime, a scorticare le bestie morte, a fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un tozzo di pane; dormiva nei fossati, sul ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto le tettoie degli stallazzi; e viveva di carità, errando come un cane senza padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande tenuti insieme da una funicella sulle gambe magre e nere; e andava cantando a squarciagola sotto il sole che gli martellava sulla testa nuda, giallo come lo zafferano. Egli non prendeva più né solfato, né medicine, né pigliava le febbri. Cento volte l'avevano raccolto disteso, quasi fosse morto, attraverso la strada; infine la malaria l'aveva lasciato, perché non sapeva più che farsene di lui. Dopo che gli aveva mangiato il cervello e la polpa delle gambe, e gli era entrata tutta nella pancia gonfia come un otre, l'aveva lasciato contento come una pasqua, a cantare al sole meglio di un grillo. Di preferenza lo scimunito soleva stare dinanzi lo stallatico di Valsavoia, perché ci passava della gente, ed egli correva loro dietro per delle miglia, gridando, uuh! uuh! finché gli buttavano due centesimi. L'oste gli prendeva i centesimi e lo teneva a dormire sotto la tettoia, sullo strame dei cavalli, che quando si tiravano dei calci, Cirino correva a svegliare il padrone gridando uuh! e la mattina li strigliava e li governava. Più tardi era stato attratto dalla ferrovia che costrussero lì vicino. I vetturali e i viandanti erano diventati più rari sulla strada, e lo scimunito non sapeva che pensare, guardando in aria delle ore le rondini che volavano, e batteva le palpebre al sole per capacitarsene. La prima volta, al vedere tutta quella gente insaccata nei carrozzoni che passavano dalla stazione, parve che indovinasse. E d'allora in poi ogni giorno aspettava il treno, senza sbagliare di un minuto, quasi avesse l'orologio in testa; e mentre gli fuggiva dinanzi, gettandogli contro la faccia il fumo e lo strepito, egli si dava a corrergli dietro, colle braccia in aria, urlando in tuono di collera e di minaccia: uuh! uuh!... L'oste, anche lui, ogni volta che da lontano vedeva passare il treno sbuffante nella malaria, non diceva nulla, ma gli sputava contro il fatto suo scrollando il capo, davanti alla tettoia deserta e ai boccali vuoti. Prima gli affari andavano così bene che egli aveva preso quattro mogli, l'una dopo l'altra, tanto che lo chiamavano «Ammazzamogli» e dicevano che ci aveva fatto il callo, e tirava a pigliarsi la quinta, se la figlia di massaro Turi Oricchiazza non gli faceva rispondere: - Dio ne liberi! nemmeno se fosse d'oro, quel cristiano! Ei si mangia il prossimo suo come un coccodrillo! - Ma non era vero che ci avesse fatto il callo, perché quando gli era morta comare Santa, ed era la terza, egli sino all'ora di colazione non ci aveva messo un boccone di pane in bocca, né un sorso d'acqua, e piangeva per davvero dietro il banco dell'osteria. - Stavolta voglio pigliarmi una che è avvezza alla malaria - aveva detto dopo quel fatto. - Non voglio più soffrirne di questi dispiaceri -. Le mogli gliele ammazzava la malaria, ad una ad una, ma lui lo lasciava tal quale, vecchio e grinzoso, che non avreste immaginato come quell'uomo lì ci avesse anche lui il suo bravo omicidio sulle spalle, quantunque tirasse a prendere la quarta moglie. Pure la moglie ogni volta la cercava giovane e appetitosa, ché senza moglie l'osteria non può andare, e per questo gli avventori s'erano diradati. Ora non restava altri che compare Mommu, il cantoniere della ferrovia lì vicino, un uomo che non parlava mai, e veniva a bere il suo bicchiere fra un treno e l'altro, mettendosi a sedere sulla panchetta accanto all'uscio, colle scarpe in mano, per lasciare riposare i piedi. - Questi qui non li coglie la malaria! - pensava «Ammazzamogli» senza aprir bocca nemmeno lui, ché se la malaria li avesse fatti cadere come le mosche non ci sarebbe stato chi facesse andare quella ferrovia là. Il poveraccio,
dacché s'era levato dinanzi agli occhi il solo uomo che gli avvelenava l'esistenza, non ci aveva più che due nemici al mondo: la ferrovia che gli rubava gli avventori, e la malaria che gli portava via le mogli. Tutti gli altri nella pianura, sin dove arrivavano gli occhi, provavano un momento di contentezza, anche se nel lettuccio ci avevano qualcuno che se ne andava a poco a poco, o se la febbre li abbatteva sull'uscio, col fazzoletto in testa e il tabarro addosso. Si ricreavano guardando il seminato che veniva su prosperoso e verde come il velluto, o le biade che ondeggiavano al par di un mare, e ascoltavano la cantilena lunga dei mietitori, distesi come una fila di soldati, e in ogni viottolo si udiva la cornamusa, dietro la quale arrivavano dalla Calabria degli sciami di contadini per la messe, polverosi, curvi sotto la bisaccia pesante, gli uomini avanti e le donne in coda, zoppicanti e guardando la strada che si allungava con la faccia arsa e stanca. E sull'orlo di ogni fossato, dietro ogni macchia d'aloe, nell'ora in cui cala la sera come un velo grigio, fischiava lo zufolo del guardiano, in mezzo alle spighe mature che tacevano, immobili al cascare del vento, invase anch'esse dal silenzio della notte. - Ecco! - pensava «Ammazzamogli». - Tutta quella gente là se fa tanto di non lasciarci la pelle e di tornare a casa, ci torna con dei denari in tasca -.
Ma lui no! lui non aspettava né la raccolta né altro, e non aveva animo di cantare. La sera calava tanto triste, nello stallazzo vuoto e nell'osteria buia. A quell'ora il treno passava da lontano fischiando, e compare Mommu stava accanto al suo casotto colla bandieruola in mano; ma fin lassù, dopo che il treno era svanito nelle tenebre, si udiva Cirino lo scimunito che gli correva dietro urlando, uuh!... E «Ammazzamogli» sulla porta dell'osteria buia e deserta pensava che per quelli lì la malaria non ci era. Infine quando non poté pagar più l'affitto dell'osteria e dello stallazzo, il padrone lo mandò via dopo 57 anni che c'era stato, e «Ammazzamogli» si ridusse a cercar impiego nella ferrovia anche lui, e a tenere in mano la bandieruola quando passava il treno. Allora stanco di correre tutto il giorno su e giù lungo le rotaie, rifinito dagli anni e dai malanni, vedeva passare due volte al giorno la lunga fila dei carrozzoni stipati di gente; le allegre brigate di cacciatori che si sparpagliavano per la pianura; alle volte un contadinello che suonava l'organetto a capo chino, rincantucciato su di una panchetta di terza classe; le belle signore che affacciavano allo sportello il capo avvolto nel velo; l'argento e l'acciaio brunito dei sacchi e delle borse da viaggio che luccicavano sotto i lampioni smerigliati; le alte spalliere imbottite e coperte di trina. Ah, come si doveva viaggiar bene lì dentro, schiacciando un sonnellino! Sembrava che un pezzo di città sfilasse lì davanti, colla luminaria delle strade, e le botteghe sfavillanti. Poi il treno si perdeva nella vasta nebbia della sera, e il poveraccio, cavandosi un momento le scarpe, seduto sulla panchina, borbottava: - Ah! per questi qui non c'è proprio la malaria! -
Giovanni Verga da "Novelle rusticane " (anno /1883)

venerdì 27 luglio 2012

Intervista a Rina Gambini, di N. Pardini



A
RINA GAMBINI
A CURA DI
 NAZARIO PARDINI

                                                        
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?

R. G.: Il mio impegno letterario, come scrittore, si limita a una produzione saggistica e di critica letteraria, che si interessa principalmente di letteratura, di storia e filosofia. La mia preparazione, infatti, è puramente filosofica, ma con grande interesse per tutte le manifestazioni umane, in cui quelle artistiche (letteratura, arti figurative, cinema e teatro, ecc.) rientrano a pieno titolo. Per quanto riguarda la poesia, che non scrivo da molti anni, per una sorta di timoroso pudore, mi sono dedicata all’approfondimento della tecnica poetica da molto tempo, continuando a studiare autori e critici autorevoli.
La mia idea, in fatto di poesia, è che sia naturalmente una espressione diretta dell’anima, ma che necessiti degli strumenti idonei ad esprimerla. Mi spiego meglio: partendo dall’assunto che un poeta abbia molto da dire (cosa che non sempre accade), se non conosce il modo migliore per esprimere ciò che gli sta a cuore (linguaggio, ricchezza lessicale, misura del verso, indispensabile anche nella poesia moderna, e soprattutto ritmo e liricità) finisce per vanificare la sua scrittura. Come spesso ho avuto modo di dire, in poesia è assolutamente necessaria una equilibrata corrispondenza tra significante e significato.
Fermo restando che apprezzo gli sforzi di chi scrive poesie senza possedere la tecnica, perché dimostra almeno una sensibilità artistica e spirituale oggi rara, non mi sento di affermare che la poesia sia sempre “lirica” soltanto per essere stata tentata.


N. P.: Essendo uno degli interpreti più conosciuti della saggistica e della cultura contemporanea, le sue idee  critiche sono in gran parte note attraverso le recensioni, le prefazioni, e gli interventi che la riguardano. Ce le vuole illustrare lei direttamente? quale deve essere  la funzione di un prefatore o di un recensore nella letteratura odierna, secondo lei? c’è un personaggio nella storiografia-critica a cui si rifà e che ritiene attuale per il suo metodo? perché?

R. G.: Anche nella precedente risposta mi sono fatta trascinare dalla passione critica, ma con il preciso intento, che porto avanti da sempre, di far comprendere che la scrittura non deve essere confusa con lo sfogo personale, se mai deve essere la voglia di scrivere a indirizzare verso un processo di perfezionamento e di conoscenza della tecnica artistica. È come se qualcuno si proponesse di dipingere senza conoscere come si miscelano i colori, come si combinano sulla tela e senza aver mai visitato un museo. L’importante è che ogni cosa sia affrontata con la dovuta umiltà.
Detto questo, non sono mai un critico troppo severo, anzi, mi propongo di cercare nelle opere che devo analizzare il “buono” che contengono, facendo presente, per onestà intellettuale, ciò che dovrebbe essere migliorato. Questa, credo, sia la funzione del critico e prefatore in un momento di grande confusione in ogni campo, compreso quello artistico, qual è quello odierno. L’incoraggiamento è sempre necessario, mai stroncare le buone intenzioni, così rare ormai, ma indirizzarle è assolutamente il nostro compito.
Dato che provo un vivo interesse per i moti interiori che inducono lo scrittore a cimentarsi con l’opera letteraria, il critico che mi ha insegnato molto è Franco Contini, che con la sua “Critica delle varianti” andava a scandagliare non solo le edizioni precedenti di ogni singolo autore per individuare la sua evoluzione, ma anche le correzioni che aveva apportato ai testi, quelle che il suo “avversario” Benedetto Croce chiamava “gli scartafacci”. Conoscere un autore nel suo intimo processo di maturazione credo sia lo strumento più idoneo per elaborare una critica costruttiva.


N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?

R. G.: Le letture a cui dedico il mio tempo sono estremamente varie: a parte le opere che pervengono per i concorsi indetti dalla mia associazione, che mi assorbono quasi completamente, scelgo di volta in volta letture di saggistica, anche in conformità a temi che devo trattare durante convegni o incontri culturali, oppure per puro interesse personale. Mi piacciono particolarmente le trattazioni su letterati, magari con un taglio meno tradizionale (non tutti i personaggi sono perfetti!) o indagini filosofiche moderne, come per esempio un recente lavoro del mio grande amico, prof. Giuseppe Benelli, “Il linguaggio del teatro italiano contemporaneo – Esegesi ermeneutica”, che attualizza il linguaggio della comunicazione.
Ho una passione particolare per la narrativa, ma ormai la trovo per lo più scaduta a livello consumistico. Mi intrigano i romanzi storici di Valerio Massimo Manfredi, ben documentati, ma la Bibbia del XX secolo resta, a mio avviso, quel capolavoro di Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”. Una lettura impedibile, da leggere e rileggere, perché ogni volta si comprendono nuove sfumature.


N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?

R. G.: Ritengo che leggere altri autori sia un insegnamento necessario per acquisire uno stile proprio. Serve per arricchire il lessico, per universalizzare il pensiero, per approfondire le conoscenze. Nessuno può pensare di scrivere senza aver letto tanto, e continuare a leggere costantemente. Soltanto così chi scrive potrà migliorarsi e acquisire uno stile personale.
Lo scrittore che si lascia contaminare dalle letture, non ha, purtroppo, talento letterario, non ha idee proprie, perciò, se ciò è accettabile agli esordi, non lo è più col passare del tempo. È meglio lasci perdere!
Colgo l’occasione per rinnovare un invito ai poeti e ai narratori, che sono portati a non considerare le opere altrui: non si creda di poter fare a meno della lettura, perché ci si chiude in un mondo sterile e inutile, incapace di produrre comunicazione!


N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?

R. G.: Premetto che ritengo che senza sperimentazione saremmo ancora fossilizzati su schemi classicistici, che non sono più consoni alla sensibilità moderna. Detto questo, però, sono contraria alle innovazioni fine a se stesse, cioè a quegli esperimenti poetici che non sono fondati su approfondite conoscenze della poesia e non hanno una direzione precisa. Si leggono spesso liriche che fanno soltanto sorridere: oltre a non comunicare alcun messaggio, sono espresse con parole astruse e senza senso. Ben venga, quindi la sperimentazione ponderata, meglio se supportata da un gruppo che condivide intenti e scopi, ma cerchiamo di non banalizzare la poesia!
A chi mi fa questa domanda, in genere rispondo con l’invito ad andare a Barcellona a visitare il Museo Picasso, dove sono raccolte le opere giovanili del grande artista innovatore. Vedranno tele di un classico accademismo, ma ricche di una capacità comunicativa e di una padronanza tecnica che fanno comprendere il suo successivo cammino artistico.


N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di Case Editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?

R. G.: Domanda imbarazzante, a cui risponderò con la consueta sincerità che mi contraddistingue.
L’editoria italiana versa in una crisi, non solo economica, per intenderci, che è lo specchio di quella generale. Crisi di valori, soprattutto, che impedisce di incentivare i meritevoli a vantaggio di opere che hanno il solo pregio di portare in copertina nomi noti, ma non nel mondo letterario. Ormai scrivono tutti: attori, registi, calciatori, politici, perfino imprenditori, ma sono soltanto testimonianze insignificanti, nel migliore dei casi solo polemiche.
Altra cosa sono le antologie delle Case Editrici, che corrispondono per lo più a necessità economiche. Il loro valore ai fini critici non è fondamentale, ma ritengo che siano comunque valide come testimonianza della produzione letteraria del momento, e poiché, come diceva Quasimodo, il poeta è un uomo del suo tempo, e quindi porta nelle sue opere la sensibilità di esso, ben vengano. L’importante è che gli autori non pensino di aver raggiunto la fama per esservi inseriti.
Per i premi letterari, non vorrei sembrare partigiana, ma mi pare che si stia esagerando. Ormai siamo arrivati al punto che quasi tutti i Comuni hanno il loro Premio, perfino le Parrocchie ne indicono, e quando si arriverà al condominio… sarà la fine! In questo marasma, bisognerà che gli autori imparino a distinguere premio da premio. Come? In base alla giuria (consultare internet!), in base all’impostazione, in base alla conoscenza degli organizzatori. Non bisogna farsi incantare da novità assurde, ma perseguire un riconoscimento che sia fondato sulla serietà e sull’equità.


N. P.: Certamente sarà legata ad una sua opera in particolare, a un suo saggio, o all’analisi di uno scrittore. Ne parli, riferendosi al metodo, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e della funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?

R. G.: Ho notevole difficoltà a parlare di me, o di ciò che faccio, mentre, come è evidente da questa intervista, ho facilità a colloquiare, anche in via indiretta.
Nel corso della mia lunga carriera di insegnante prima, di critico e saggista poi, ho scritto tanto, ma si è sempre trattato per me di fissare sulla carta approfondimenti di cose che mi interessavano. Poi scoprivo che interessavano anche ad altri, e ne nascevano convegni culturali che hanno avuto grande successo in molte parti d’Italia, e anche all’estero. In seguito è nata la rivista Il Porticciolo, e alcuni saggi sono apparsi in quelle pagine. In genere interessano e divertono, perché la mia scelta letteraria, e credo anche di vita, è quella di informare senza annoiare, di donare agli altri un motivo di interesse, magari anche attraverso qualche curiosità. Se posso, parlo soprattutto dell’aspetto umano di ciò che tratto, per cui i lettori si sentono facilmente coinvolti. Il mio discorso è sempre conciso, lineare e comprensibile, anche quando si tratta di argomenti difficili, perciò vi si possono avvicinare in molti.
Per quanto attiene alla funzione memoriale della poesia, è convinzione indubbia e ampiamente acquisita. Senza la poesia non c’è passato, ma neppure futuro.


N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a che punto l’interesse per la poesia può incidere su questo disorientamento morale (ammesso che lei veda questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben altro di fronte ad una carente cultura politica per questi problemi?

R. G.: Letteratura mercificata, quella contemporanea, e, ciò che ritengo più grave, è che lo scrittore diventi tale col preciso scopo di “vendere”. Non sarà sempre così, ma i fatti dimostrano che lo è nella maggior parte dei casi. Ciò si ripercuote sui maggiori premi letterari, che, coinvolgendo grossi interessi economici (contributi statali, regionali, provinciali, sponsor e case editrici) non possono essere testimonianza di autentici valori letterari, ma solo di mercato.
Non vorrei sembrare una romantica, o forse la sono davvero, ma per me scrivere deve essere un bisogno intellettuale, non per forza spirituale, e deve essere estraneo a qualsiasi interesse materiale. Se il successo viene, bene, ma se non viene, resta importante avere qualche lettore che sappia comprendere la portata di ciò che gli è proposto. Ed ancor più, resta importante che il pensiero non vada disperso, perché, se della nostra società resterà ben poco, come dicono i pessimisti, resterà di certo la poesia e la scrittura in genere. Come è avvenuto per l’antichità.
Il contributo che la poesia può dare alla società è notevole: sono solita dire che non salverà il mondo, ma un piccolo contributo lo potrà dare. L’importante è riproporre quei valori di umanità, solidarietà, tolleranza reciproca, e amore, che sono il patrimonio inalienabile della nostra vecchia educazione, che, andata svanendo per l’intrusione di altre società materialistiche, deve essere tenacemente preservata e riproposta per poterci salvare.


N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia, dell’arte o della cultura in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?

R. G.: Sconfiniamo nel campo dell’illusione, ma è bello a volte sognare! Mi piacerebbe che la gente leggesse di più invece di passare le serate a farsi condizionare dalla TV o a incrociare gli occhi sul PC. Mi piacerebbe che i media si occupassero di recitazione di poesie, anche di quelle classiche (che bello quando le imparavamo a memoria!), che facessero conoscere le nuove voci della lirica, che i teatri proponessero serate culturali, possibilmente a prezzi economici per far affluire pubblico, insomma, che la poesia divenisse un’abitudine quotidiana, non un fenomeno elitario. Ma soprattutto vorrei che i bambini, fin dalle scuole primarie, avvicinassero la poesia e la lettura e, crescendo, avessero la consapevolezza che quella non è perdita di tempo.
Dato che ho perduto molta della iniziale fiducia nell’interesse delle istituzioni per la cultura, penso che solo l’impegno dei singoli possa portare verso questa strada. La cosa più importante è crederci e perseguire tenacemente lo scopo.


Lei è conosciuta anche come organizzatrice di Premi Letterari. E ne è un’abile conduttrice. Ci vuole parlare delle difficoltà che si incontrano nell’organizzarli. Delle abilità che necessitano. Dei criteri di scelta di una giuria. E di un Premio Letterario che più le sta a cuore.

R.G.: Ringrazio per la stima che mi dimostra, e per il complimento, che accolgo con piacere, proprio perché so che lei stesso conosce le difficoltà di questo ambiente. Organizzare un premio letterario richiede esperienza e dedizione. Per molti anni ho collaborato con altri organizzatori, imparando ciò che essi stessi sapevano fare bene, valutando quello che secondo me poteva essere migliorato. Quando ho affrontato da sola, con mille timori, il mio primo premio personale, il Concorso Internazionale Città di Salò, avevo ben chiaro ciò che volevo da esso: assoluta equità, nessuna intromissione nelle valutazioni da parte di estranei alla giuria, l’entusiasmo da parte di tutti per ciò che stavamo facendo, entusiasmo che si comunica a tutti coloro che partecipano. Credo di essere riuscita nell’intento, perché anche i concorrenti riconoscono questi aspetti del mio operato.
Ci si scontra con molte “zeppe”, ma tutto è superabile col buon senso e con la capacità di conciliare le posizioni diverse dalle nostre. Poi c’è la gioia della cerimonia finale, alla quale partecipo sempre finendo col commuovermi, perché lo stare insieme a tante persone che hanno avuto fiducia in me è gioia e arricchimento.
Alle mie giurie chiedo soltanto di votare secondo coscienza, ognuno col suo metro, perché ritengo non si debba imporre nulla, tanto meno quando si tratta di gusti artistici. Trattandosi di personaggi di alto rilievo culturale, e preparatissimi, per la parte tecnica non ci sono mai problemi. Se qualcosa si deve discutere, ed è raro, viene fatto con la massima amicizia e tolleranza delle idee altrui, e la soluzione è sempre facilmente raggiunta. Nei miei premi c’è un clima di simpatia, tranquillità e responsabilità che rende a noi piacevole la fatica della lettura e del giudizio.
Tra i miei numerosi premi letterari, non saprei quale scegliere, perché tutti hanno avuto una storia importante, ma privilegio attualmente il Via Francigena, anche per la portata culturale e spirituale che riveste e il messaggio che lancia, che idealmente riassume ciò che ho detto in tutta questa intervista: le fatiche di un faticoso, lungo cammino sono premiate dal raggiungimento dello scopo, e più difficile è il cammino, più pura è l’anima nel raggiungere la meta.
Spero di non aver annoiato nessuno. Un saluto affettuoso a tutti coloro che leggeranno.




La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog Alla volta di Leucade blog.

La ringrazio per la sua disponibilità.


Nazario Pardini