Il poeta legge nel tempo la misura della vita mentre
ambirebbe ad andare oltre per scoprire il gioco
dell’eternità
Recensione di Nazario Pardini alla silloge poetica
“Oltre il tempo” di Antonio Costantino
Il campo
Un campo enorme io vedo
se chiudo gli occhi
divino sotto il sole,
luce non chiusa tra
quattro pareti
la luce che prigione
non soffre
e il cupo non sopporta
calendario della sera
risposte attendo
che tu darmi non sai
quasi offesa
la tua anima fosse,
così terrò chiusi gli
occhi
per la vita
e penserò che altro non
esista
oltre la luce.
È
partendo da questa poesia incipitaria che si scopre da subito la fusione
dell’animo del poeta Antonio Costantino con la bellezza della
natura ma anche l’inquietudine splenetica che lo stesso si porta dietro nella
sua ricerca di epistemologica fattura. Forse è proprio la bellezza che ogni
giorno contempliamo dinanzi a noi a creare uno stato di perenne malinconia
dettato dal fatto che prima o poi dovremo lasciare il tutto per lidi
misteriosi. Infatti il motivo del tempus fugit, del correre impietoso del tempo,
crea nel poeta un sentimento di precarietà dell’esistere considerando il fatto
che la vita non è altro che un frangente prestato dalla morte. Ibi omnia sunt: la bellezza della
natura, il memoriale, la malinconica riflessione sulla brevità dell’esistere,
gli affetti, le radici, il cuore che pulsa per tutto ciò che lo commuove,
sentimento, passione, e soprattutto la reificazione di stati d’animo in verbalismi
di corposo oggettivismo. Oltre il tempo, il titolo della
silloge, un titolo significativo che sta a indicare la volontà dell’autore di
baipassare questo soggiorno per slanciarsi oltre, al di là dell’hic e del nunc, un po’ per scoprire il
mistero del vivere e un po’ per conservare intatta la visione di una natura che
spera viva e vivrà per sempre, oltre il tempo. E la poesia continua nel suo viaggio
altalenante di vita e di morte, di luce e di penombra:
La roccia
Ormai non ci sei più
rapita da orizzonti
lontani
di te non è rimasto che
il sorriso
sulla roccia scura che
scende
come una frana
nell’acqua.
Oggi cerco questo
sorriso antico
che di estati fu
compagno
liete
forse è rimasta la tua
voce
che io cerco
tra folate di vento
e che ripete fioca
una giovane berta
che sul palcoscenico
precipita
azzurro riporto di
inseparabili onde.
Quel “più” iniziale sta a significare il giorno dello strappo, dell’addio, dell’abbandono di una veduta insostituibile che ha accarezzato il sentire per tradursi in pericopi di ampio respiro. Altra caratteristica di questa narrazione sta nell’uso di un linguismo articolato e concreto sperso spesso in uno stato di esistenziale abbandono che illumina il poema di orizzonti lontani: il sorriso, roccia scura, frana, sorriso antico, compagno, voce, tra folate di vento, fioca, una giovane berta, precipita. Sono tanti elementi che contraddistinguono l’ossimorico gioco vitale del poeta, combattuto tra la bellezza della luce e il traumatico senso del buio. Ed è il sole a concretizzare il bisogno di luce e la necessità di inviarla oltre la data dell’addio; sole luce, luce vita, vita amore, amore radici.
Sole
Sul profilo verde
dorato
dove biancheggiano le
robinie
la tua gloria si
consuma
nessuno ti può
contendere
questo immane dominio
del mondo
davvero non vuoi
saperne del tramonto
e sfolgorante indugi
nel tuo impero
quasi a fugar le ombre
ancora nascoste.
Una continua gara tra
splendore e tramonto, tra giorno e oscurità, è ciò che domina in questa poesia
che si fa leit motiv di un animo che
corre empaticamente con una melodia trasferita nei verbi del poema. Sì, una
melodia quale è lo scheletro portante, la nervatura di un dire ampio e
articolato dove pathos e logos si integrano per dare sostanza al dettato poetico.
Candele
E quando le candele
accenderai
non saprai quanto
dureranno
se il tuo cuore potrà
resistere all’addio
sarà un giorno un mese
oppure un anno
e cercherai qual è il
tuo porto cui approdare
tra tanti discorsi
inconsueti
e duro sarà veder
partire gli invitati
e quante sedie
sembreranno ancora più vuote
quanti neppure ti
avranno detto addio.
Spesso riappare il temine addio, visualizzato nella pericope di una candela, il cui lume dura a stento fino a quando cesserà di far luce. Una poetica fortemente simbolica dove gli oggetti più umili si fanno parole, linguaggio, di cui si serve il pota per esprimere il suo conflitto interiore. Sembra proprio che Antonio Costantino voglia esternare i suoi palpiti con corpi visivi per rendere più concreto il suo dire.
Il viaggio continua alla scopetta di una verità difficilmente perseguibile, dato che a noi mortali non è dato sapere più di tanto, nemmeno affidandoci alla luna:
Luna
Dove sei, dove sorgi
questa sera
questo non è il tuo
posto
in altra parte del
cielo ti hanno acceso
una strada hai seguito
diversa
e rischi di cadere
anche se oggi è una
festa radiosa.
V’è un passaggio di
aerei
di luci alternanti che
si interrogano
e il rumore s’acqueta
come un commento fuori
luogo,
incapace di carpire
questa
illuminata caligine.
Fino alla similitudine del giardino, a chiusura della raccolta, di cui il poeta tutto conosce: i germogli, le betulle, l’alloro, quando la sera lontana non era, e mi sentivo della mia stessa vita. Il giardino, la conoscenza, la chiusura, il limite, l’aspirazione ad andare oltre, oltre il tempo, oltre l’esistere:
Il mio giardino
Più non vi sono rami
ch’io non conosca nel
mio giardino.
Potrei i germogli
contare
come i giorni del mio
destino.
Là dietro le betulle
si leva l’abete bianco
seminascosto
dall’alloro immenso
dove correvano i miei
figli
che seguivo con lo
sguardo stanco
fermo come una statua
di gesso
quando la sera lontana
non era
e come un ospite mi
sentivo
della mia stessa vita.
Il flauto
Quando potrò le nubi
con il mio flauto
quaggiù attirare
quasi vi fosse un parco
dove riposare,
immenso
dopo tanto cammino.
Questo flauto è spento
o più non sono
le note capaci
di giungere lassù.
Così vai immenso gregge
nel cielo veleggiando
che non
conosco e che non vedo.
Motivi che si ripetono nella poesia il flauto dove il poeta rivela il bisogno di riposo da un percorso lungo e faticoso fatto di scogli e trabucchi, di inciampi per un pensiero troppo umano; troppo vasto per un essere che deve navigare in un mare tempestoso il cui orizzonte non conosce e non vede. Una ricerca complessa articolata che rivela un animo plurale, polivalente, turbato da risultati inefficaci in base a ciò che un uomo si ripropone. Fino all’ultima composizione dal titolo L’altro dove l’autore rivela tutta la sua versatilità, ecletticità nel tratteggiare i vari momenti di una vita affidata ad un canto che fa da cassa di risonanza a tutta la silloge:
L’altro
Se cade una stella
detto non è che lui la veda
guardi e non vedi nulla
o cerchi nelle nubi sparse il suo ritratto
presto il rintocco suonerà della notte
e come Jung raccontava
uno troverai in te che non conosci.
Forse l’altro l’anima ti sfiorerà
e spererai che lui almeno sia eterno
e del tempo la fine non conosca.
Lunga è la notte e il giorno incerto
e l’altro del mistero ti parlerà
della vita.
Qui
fra il mistero della durata infinita della notte o l’incertezza del giorno si
prolunga la vita, quel tratto di tempo che si fa nullo se misurato col tutto
degli anni. D’altronde il poeta è prima di tutto un essere vivente e come tale
si pone tutti quegli interrogativi che un uomo si pone: esisto?, il tempo che
mi è dato quando scade, cosa resterà di questa vita, niente si può sapere dell’aldilà.
Il fatto sta che proprio questa vicenda fa parte del
nostro essere, e costituisce il dilemma del vivere e morire, di Eros e
Thanatos.
Nazario Pardini
Antonio Costantino, Oltre il tempo, pref. Michele Miano,
Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 102, isbn 978-88-31497-62-6, mianoposta@gmail.com.
La cifra del nostro Vate credo non sia da ricercare
RispondiEliminasoltanto nella qualità della sua critica letteraria (per la quale si è pur guadagnata i maggiori riconoscimenti accademici), ma anche in un suo talento raro e originale: quello di generare vita, a cominciare dalla sua propria, dalla più pura riflessione ermeneutica, ma anche di intensificare il pensare tanto da comprendere il vissuto dell'Autore. Ne è splendida dimostrazione questa pagina dedicata all'Opera di Antonio Costantino "Oltre il tempo". Si ritaglia per sé il ruolo dell’iniziatore, di colui che avvia a vivere una realtà, ad abitare l'insondabile: a dialogare con l’autore del testo, incontrando le emozioni, i sentimenti, la parola dell’altro. Poesie intense come il flusso dei giorni, soffuse di malinconia, dal velo che ci separa dall'oltre, dal mistero che è origine di vita e di poesia. E il Maestro recita: "Qui fra il mistero della durata infinita della notte o l’incertezza del giorno si prolunga la vita, quel tratto di tempo che si fa nullo se misurato col tutto degli anni. D’altronde il poeta è prima di tutto un essere vivente e come tale si pone tutti quegli interrogativi che un uomo si pone: esisto?" Una recensione pedagogica di una Silloge che è specchio di ogni esistenza e induce a riflettere sull'unica eternità che può indurci a tacere: "questo immane dominio del mondo/davvero non vuoi saperne del tramonto". Complimenti vivissimi all'Autore e al nostro straordinario Condottiero.