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domenica 23 ottobre 2011

Prefazione a Sono cicala: mi consumo e canto, di Rosanna Di Iorio


PREMIO IL PORTONE 2011
SEZ. SILLOGE

Primo Premio
a
Rosanna Di Iorio
per la silloge
Sono cicala: mi consumo e canto


PREFAZIONE

Oggi vorrei tornare ai vecchi giorni.
Al fresco verde della mia vallata.
Ai suoi giochi infiniti. A quei sentieri
che so a memoria ed oggi come un’eco
ripetono miei passi e i miei sospiri.

La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Rosanna Di Iorio è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori, nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il sapiente uso del significante metrico, combinato con le note del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità all’opera. E’ l’impiego di un endecasillabo, adattato da malizia tecnica al variare dei giochi sentimentali, a intrecciare di una costante armonia il dipanarsi dei canti. Endecasillabi che come vere cascate musicali, quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la loro fluidità, con il loro apporto lirico. Endecasillabi che nella loro varietà strutturale, nella loro complessità versificatoria, costituiscono un valore aggiunto alla cifra estetica della poesia; raffigurano, con note di spontanea creatività, immagini di una vita perduta filtrate da un soffuso sottofondo di malinconia: “Sì. Fui cicala anch’io mentre nel cielo / le rondini libravano precise.” (Cicala. Anch’io). Ed è anche l’impiego di versi ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che, per delinearsi nella sua immediatezza, ha bisogno di spazi poetici maggiori e di tecniche verbali che vadano oltre l’umano intrecciarsi del verbo. Eppure non si perde il fascino di quella musicalità insita nella parola, pur prolungando le misure : “E’ triste arrabattarsi tra le mezze verità di / quest’epoca, ostentando, sopra artefatte  / soglie di cristallo, un sorriso seriale: …” (Spes). Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a se stanti, ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire; a fasciare un’anima tutta volta a dire di sé, ad un “aveu” portato a dilatarsi, se questi stilemi non costituissero un argine assai robusto per frenarne l’esondazione. E la parola fa parte di questi giochi espansivi: si articola, si adatta, si trasforma, si dilata per carpire il senso della vita; per andare dietro a un’emozione che, fra memoriale e assorbimento del reale, sembra pretendere sempre di più dalla parola stessa. D’altronde, come il poeta sa, non esiste verbo sufficiente a coprire le scansioni del sentire. Ed è proprio il memoriale a compattare la silloge, a creare quel leit motiv che ne garantisce l’organicità. Quel memoriale che l’autrice ritesse in filigrana, fa suo, rinvigorisce e riporta in vita, traducendolo in alcova dove trovare riposo, o dove trovare lo sconforto di un’assenza; ma dove i grandi sentimenti come le più piccole cose si fanno nutrimento di alta poesia: “Ti ho vestito di morbidi ideali / colorando il grigiore di giornate / tutte uguali. Ho salito assieme a te / ripidissime scale per carpire / i segreti nascosti della vita / e per scoprirvi dentro dove è il giusto.” (Le favole e i giorni. Al figlio); “A volte il tuo ricordo mi tiene compagnia. / Ritorna piano, / senza far rumore. / E ripete le favole di allora”. (A volte il tuo ricordo mi tiene compagnia. Al fratello). Il raddoppiamento del settenario nel verso iniziale rende ancora più incisiva la funzione connitivo-emozionale degli endecasillabi successivi. I grandi sentimenti, sì, le piccole cose, anche, ma sono soprattutto la coscienza degli ambiti mortali, degli spazi ristretti di un “soggiorno”, la voglia di andare oltre, o il motivo del ritorno a completare la circolarità dell’opera: “La meraviglia delle meraviglie, / il sogno; la tua grande Primavera. / Io ti ascolto e un palpito echeggiante / dolci risvegli, cedo fiduciosa / a questo imprevedibile, furtivo / caro inimmaginabile germoglio / di sogno. Puro”. (Io posseggo di te solo il sorriso) “Perché poi chi decide è quella stella / immobile lassù, senza calore. / che si specchia nell’alveo colorato / di mille fatue povere illusioni”. (Tu che non sai sorridere da tempo). Il sentimento di caducità, il senso eracliteo della vita, la morte che incombe sulle persone care e non solo. Questa coscienza della fugacità del tempo danno un sapore universale a questi versi che da soggettivi si fanno liricamente oggettivi. Ed è forse proprio questo sentimento a generare il quesito più annoso dell’uomo: a chi i nostri affetti? A quale ancora affidare il patrimonio delle nostre memorie? Ed è il sogno a simboleggiare quel desiderio di libertà che ognuno di noi cova in seno, e che mai trova appagato. “E, mano nella mano, trepidanti / interpreti di un sogno senza fine, / sfioriamo con le nostre ali di sogno / alte, segrete pagine d’immenso”. (Una favola lunga cinquant’anni. Ai genitori) Il percorso di enjambements esteso quasi ossessivamente, delinea la necessità di ampliare il sintagma, la parola, il verso, di cercare un mezzo verbale sufficiente ad equilibrare un contenuto tanto prezioso quanto esplosivo.  E la cicala, le rondini, l’ultima estate, i balestrucci, il tiglio,  sono tanti momenti esistenziali, tanti ambiti sentimentali, sono tante configurazioni di uno spleen intento a dare corpo ai propri messaggi interiori. E la natura sembra avvolgere tutto, rappresentata, a pennellate, da una mano che fa del panismo, antropologicamente vissuto,  il fulcro del suo dire. Il sole impallidito, l’ombra pungente della sera, le sere al focolare, l’avido cielo, il cielo dal vento fatto chiaro, la luna che non dorme, l’odore di geranio, di lavanda, le rondini, il fresco verde di una vallata, rossi giacinti, primavera rimarcano il grande afflato che la poetessa prova per quelle configurazioni, che puntualmente la ripagano, diventando complici nel giuoco della sua poesia. E più ancora che di naturismo, si deve parlare, in questa silloge, di sprazzi naturali demandati ad una attenta e vissuta analisi psicologica, più che descrizione psicologica. E tutto contribuisce a rimarcare il dolore, le sensazioni, le commozioni, i rimpianti, le speranze, le delusioni nell’interazione tra l’autrice ed i personaggi. E sono questi a rafforzare non poco la concretizzazione di un pathos ora drammatico, ora silenzioso, ora quasi rasserenato, ma pur sempre attento ed in tensione nel rovesciarsi sul foglio: “Se sapessi aggrapparmi alla speranza, / se vedessi sbocciare dentro me / sempre rossi giacinti a primavera: / Allora, l’inesausto ed affamato / mio cuore pellegrino, tormentato, / tornerebbe a cantare una canzone” (Delusioni e speranze). “Ti abbraccio amore sempre più lontano. / Continuamente più vicino. Sogno / adornato di vesti profumate” (Amor de Lonh). E quanto dolore nel ricordo di un fatto, di un momento, di una scena di sangue e di terrore: “Tu nemmeno ricordi lo stupore / di quella sera. Il rito devastante / dell’orribile scena. E dello schermo / che senza sosta, infame, ripeteva / fotogrammi di sangue; il tuo perverso / sguardo incolore che frustava la rabbia / di bocche aperte a grido senza voce” (Turbe dei nostri tempi). O di un rapporto materno logorato e drammaticamente vissuto: “Lo so, non puoi ascoltarmi. Né vedere / la morsa che mi stringe nell’ignavia / dei miei limiti. Mentre tento. E spiego / l’ala del mio canto straripante e / silenzioso: ché non copra, figlia, il / tuo pallido respiro senza voce. / E riprendo a remare. Senza scopo” (Prima di partire). La punteggiatura stessa, con secche interruzioni, con segmentazioni ravvicinate, sta quasi a sottolineare un affannoso groviglio di sentimenti contrastanti che stentano ad uscire, tanta è la loro portata: una fiasca piena che rovesciata gorgoglia affannosamente. Ma tornano anche frangenti in cui un’anima delusa può ritrovare un’alcova, un amore oblativo in cui riposare lo spirito; anche il sogno lo può fare, perché no!, il sogno fa parte della vita, la vita è sogno, o può essere parte della vita : “I nostri gesti misurati si / distendono leggeri, immaginati / come fili di lana. Come in cielo / il librare di rondini precise. / E carezze e parole non più finte / tornano intense e scacciano paure.” (Io posseggo di te solo il sorriso).         
L’ordito endecasillabo, con l’uso d’interpunzione a centro verso, pur dando un sapore di classicità a questa poesia, ne riceve anche una certa contaminazione di rinnovamento, di rivisitazione personale, con l’uso sapiente e particolare di enjambements (spesso a fine verso troviamo preposizioni, articoli o congiunzioni ), e con la ricerca attenta e sofferta di una parola da incastonare in un tessuto ricco e articolato, tutto volto a delineare un’anima alla ricerca di se stessa.                    
            Le assonanze, le consonanze, le allitterazioni, l’uso di figure retoriche quali l’anafora la sinestesia, l’alternarsi di versi ora più brevi, ora più ampi concorrono a dare forza alla liricità del canto, e a quella attualizzazione che l’autrice opera con grande abilità versificatoria.
            Se Quasimodo ha scritto: "Ognuno sta solo / sul cuore della terra"; se Montale ha affermato: vivere è come "seguire una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"; e se Ungaretti ha definito se stesso "uomo di pena" , anche nella Nostra sembra vincere, alfine, un senso di stanchezza e accettazione fatale (Ora, nella mia attesa disperata; / ora ho bisogno solo di silenzio.). (E riprendo a remare. Senza scopo). Ma mi piace cogliere nella sua poesia un raggio di sole che incida le nubi: credere ancora nel canto e nella vita. E Rosanna Di Iorio  crede nel potere della poesia fino ad assegnarle il compito non solo di cantare l’amore, ma anche quello di amare il canto. (Fammi entrare nel tuo sogno infinito). Anche se:
Ed il silenzio in fondo al mio giardino
che custodisce trepide memorie
di ciò che non ho più. Ma grida forte
nelle mie vene.



                                                                                                          Nazario Pardini
Arena Metato, 11/07/2011

giovedì 13 ottobre 2011

Poesia in transito. Inserisci la tua poesia vincitrice, classificata, segnalata ad un Premio Letterario, o nuova: avrai un commento


Poesia in transito. Inserisci la tua poesia vincitrice, classificata, segnalata ad un premio letterario, o nuova: avrai un commento

Verso corse saporite di cielo


All'aria dolce di pineta e mare,
al refolo che inviano le Apuane
su questa piana scaldata da un sole
che invia raggi fecondi
sulla superba Toscana, odi battere     
zoccoli allegri di sauri puledri
sulle dune renose. È proprio qui,
su questa terra baciata da Dio,
che corrono scattanti,
collo eretto, criniere svolazzanti,
i cavalli selvaggi. Quando giungi,
o forestiero, fra questi dolci suoni
di scalpitii fugaci, azzarda il cuore
sulle groppe irrequiete
verso corse saporite di cielo.
Nazario Pardini

19/10/2007

Q
uesta poesia, tratta dal libro L'azzardo dei confini edito in aprile 2011, è stata composta dopo una visita ai meravigliosi scenari paesaggistici della scuderia "Mori".
pinete e spazi verdi a Viareggio, in Versilia
Macchia di Migliarino
Alla battigia

E mi rivolge il mare il suo saluto
mentre mi porta l’anima al fruscio
dell’onda sua perenne. Ascolto il suono
lento di quell’acque, mentre lontano
mi appare qual fuscello in mezzo a un prato
la sagoma ondeggiante di un veliero.
“Sei tu forse mio Enea, di una stirpe
remota fondatore, che ti aggiri
col peso delle fiamme e dell’amore,
in cerca dei tuoi eroi? O forse vaghi
col tuo animo inquieto, puro spirito,
a memorare la sorte? Dall’onda
un ticchettio di corde mi raggiunge
per parlarmi di Dido, e di una fuga
che volle il fato a scapito di un lido
dove giace il tuo cuore. O forse credi
di sconfiggere il giorno e la clessidra
di ritorno alla vita. Vieni avanti
eroe dei tempi in cui i miei giorni andati
si cibarono di miti. Era allora
che ti seguii estasiato e nel tuo mondo
nascosi i miei pensieri. Non andare
peregrino nel mare, non fuggire
il mio sguardo incantato e il mio ritorno
alle soglie del giorno.”. Ma il fruscio
di un’onda stanca copre ogni messaggio,
e il tramonto, che fuga ogni illusione,
allontana la vela del mio sogno
Ed io rimango solo alla battigia
a immaginare suoni ormai lontani.
  
(Da L'azzardo dei confini)
 Nazario Pardini
18/05/2007
Veduta della spiaggia dalla darsena di Viareggio al tramonto
Sul mare della Versilia
In una immensità che ti rapina

Il mare si avvicina e si allontana,
clessidra della vita. Io sono qui,
sulla spiaggia umidiccia del mattino.
Seduto su un pattino, guardo il piano
appena increspato dall’aria frizzante
del novembre. Mi prende il largo spazio:
sono nulla e il nulla si dilegua
nel vento salmastroso dell’immenso.
Non odo più la battima né provo
sogni e tristezze in questo diluirsi
del cuore nel mio mare. Son fuscello
che si annulla nell’aria mattutina
portato sull’onda dall’ala leggera
del novembre. Forse rincaserà
l’anima mia in fuga negli abissi.
Ritornerà in prigione nel suo corpo,
riprenderà i suoi occhi per mirare
l’immensità del mare,
per pensare di nuovo che la vita
è quel fuscello breve che dimena
in un’immensità che ti rapina.
  
(Da L'azzardo dei confini)
 Nazario Pardini
22/11/2009   h. 9,30
Tramonto sul mare
Pisa
Dai campi in fiore dove scorre il Serchio
tra i pini profumati del Tirreno
e poi si spegne, ombreggiare si vede,
o mia città, sulla terra di Golgota
la torre. L’Arno ammira
Santa Maria brillare nei suoi gorghi
speculari alle mura che sul mare
vide possenti contro i Saraceni.
Fu là quel centro dove i Cavalieri
ebbero sede e diedero a Buscheto
e poi a Rinaldo il compito più arduo
con l’oro delle guerre. Caterina
splende in nostrani marmi da romana
e accanto ai Francescani si scolora
per l’umiltà di un tempio consacrato.
Lascio alle rughe i lontani pensieri
e torno spesso all’ultimo tuo sguardo
sopra di me che ascolto scalpitare
i passi in Borgo Stretto. Il campanile
annuncia il mio partire
da studente irrequieto.
E si slarga il pensiero sopra le acque.
Anche se l’Arno volle allontanare
coi suoi detriti sguardi alla marina
che padrona ti volle, ancora geme
col flebile lamento e l’ala ferma
il canto del gabbiano; lungo il fiume
compie il suo corso, ammira i tuoi riflessi
e poi la sera torna a riposare
nascosto al sole che si rompe in mare.

(Da Elegie pisane)
Nazario Pardini
25/02/1993

(Pisa: Piazza dei miracoli)
Fiume
(Al Serchio)

Zampillano le tue acque
alla sorgente,
sui sassi luccicanti
ai raggi inumiditi dal tuo brio.
Tra l’erbe vergini
di prati in fiore
corri e rispecchi arzille
chiome affollate
di cinguettanti verdi
o cariche
di nivali speranze.
Conosci poi le piene,
d’aspri veleni i flussi,
o le secche
di estati arse e letali.
Quanto brameresti una diga
per riposare gli arti
o meditare ai cori
di una chiesa vicina
o un casolare!
Ma corri alla tua foce
dove si perde il cielo,
dove immenso non ti conosce il mare.
Quanto somiglia al tuo il mio corso, fiume!
Già ne vedo la foce,
l’aperto gorgo
che ingolla le speranze.
Ma tu sublimi fiume
a goccia a goccia al colmo,
e poi rinasci
a zampillare ai sassi
canterino e vitale.
Il mio corso
dopo che lascia l’alito dei pini,
si perde tra i marosi,
dimentico di giovani sorgenti.

 (Da Elegie pisane)
Nazario Pardini
20/05/2006

 Sul Serchio
Alla  Liguria di  Montale.

Ossi di seppia rosi dai  tramonti
biancheggiano su rene e dentro 
l'anima aride rocce a respirare cieli
stondate dai salmastri vagabondi.
Liguri cimiteri arrampicati 
con l'anima stordita da risacche
con voi respiro il giallo dei limoni.
E mi confondi lucido orticello  
tra scrimoli di bianchi muriccioli  
al vesperare tenero di canti
sul mare chiaro d’ali di gabbiani.
Vani gli spazi e cocci di bottiglie
riflettono gorgogli e tremolii
di libertà mancate oltre la vita,
felicità appassite ove quel muro
ci limitò parvenze d’infinito.
Ancora mi risuona il silenziato
scalpello di lesene dentro il petto
di te che l’aria aperta mi portava.
  
(Da Alla volta di Leucade)
Nazario Pardini
25//05/1999

Scogli della Palmaria dal mare
A  Vernazza

Sul tuo battello ti protendi al mare,
vecchia Vernazza, carica di porpora
d’orizzonti fenici. Ancora evadi                                       .
acre l’aroma del falò dell’esule
poeta che ti elesse per le ceneri
di un eterno riposo. Dalla prua                                       
levi il tuo labbro roso sopra il verde                              
dei gorghi che di giada t’incastona                
più venusta di Laura. E ai dolci assenzi
di timi, di corbezzoli, e ginestre
tu richiami papilli variopinti
dalla mite Palmaria. Se ti immagino,
io navigante ai flutti verso scogli                   
sciacquati da levante, vedo ancora
picconare sui greti diroccati
genti abbronzate all’aria dei salmastri
di lontani libecci. E pini e lecci                        
e di ginepri bacche e larghi svoli
di agavi e stente vigne più sembianti
ad edere abbarbate sulle argille. 

Tu mi sai dare nettari divini                                             
coi fulvi sguardi aperti ai cieli liguri                
spersi sui mari dai levati picchi.                                      

(DA Alla volta di Leucade) 
Nazario Pardini
12/06/1998 

Tellaro visto dal mare






In Azzardo dei confini la sezione più riuscita sia a livello lirico che formale è Elegie pisane, dove immagini di tempi passati ritornano fresche e rinnovate sorrette da una metrica robusta e estremamente musicale.
Carlo

mercoledì 5 ottobre 2011

Spazio per racconti brevi.

Il Dott. Brunello Gentile ci ha dato la possibilità di pubblicare questo suo bel racconto: per me interessante, sia da un punto di vista formale, molto scorrevole e di facile lettura, che contenutistico. I miei complimenti. A voi la lettura e, se volete, le  vostre osservazioni.                    

 La ladruncola



Il Nostalgia, splendido ketch di 15 metri, doppiato Cabo de Gata, giunse ad Almeria verso le 18.00.
Le tre coppie che avevano noleggiato la barca, sfinite dal vento e dal sole, decisero come sempre di cenare nelle vicinanze e rientrare subito per un ammazzacaffè in pozzetto. La camminata in città subì un inesorabile rinvio.
Angelo, armatore e skipper del Nostalgia, dopo le solite insistenze accettò ospitalità al ristorante e ricambiò offrendo bevande più o meno alcooliche negli attimi di pigrizia prima del riposo.
Da 15 anni proponeva crociere nel Mediterraneo spagnolo, dalla Costa Brava a Gibilterra. L’atmosfera confidenziale con ogni equipaggio pagante era una prassi, ma questa volta, per una reciproca simpatia, era nata quasi un’amicizia.
In quei finali di giornata era bersaglio di domande sulle più svariate esperienze da skipper, spingendosi, soprattutto le donne, a curiosare sulle sue avventure amorose.
Notarono tutti che lui, quella sera, era insolitamente distratto; non la smetteva, in piedi da solo, di guardare il mare oltre le dighe.
“Quale grande amore ti ricorda questo porto?”, lanciò Nadia per prima.
“Non era un grande amore, era una piccola ladra”, fu la risposta.
Il silenzio prolungato che seguì lo costrinse a confidarsi.
“Sei anni fa gli ospiti che avevo portato a Casablanca erano tornati con l’aereo e mi trovavo qui, in rientro a Barcellona da solo. Nel porto c’è un famoso velaio e mi sono fermato alcuni giorni per farmi realizzare una nuova randa.
Un primo pomeriggio rientravo con la mia vela appena consegnata, deciso a provarla subito per far apportare eventuali modifiche.
Scoprii immediatamente che c’era qualcuno sotto coperta e usai ogni precauzione per coglierlo di sorpresa.
Era un grazioso visetto di ragazza quello che mi guardava sorridente e senza paura. Una borsa di tela su un divano della dinette era colma di oggetti che mi appartenevano.
- Non denunciarmi, ti prego. Tu hai un sogno di barca, io rubo per vivere.
- Svuota la borsa sul cuscino e vattene prima che cambi idea!
- Eh, no! Devi lasciare che ti rubi qualcosa, altrimenti come mangio stasera?
- Ti darò della frutta che ho in frigo.
- Sarebbe elemosina, il cibo me lo devo guadagnare.
O la prendevo a schiaffi o scoppiavo a ridere per quella sua strana logica. Non so perchè le feci una proposta altrettanto insensata.
- Vieni in mare con me per darmi una mano. Ti pagherò facendoti rubare qualcosa; però dovrai dirmi cosa vuoi e deciderò io se lasciarti o no la refurtiva.
Gli occhi della ragazza si inumidirono per la commozione.
- Sono nata in Sierra Morena. Fino a 3 mesi fa non avevo mai visto una spiaggia. Davvero mi fai navigare?
Liberò in fretta la borsa sul divanetto e mi guardò preoccupata.
- Non è che vuoi gettarmi a mare? Non credo di saper nuotare.
- Non dire fesserie. Togli la camicetta e indossa questa maglietta.
Uscito all’esterno per predisporre l’uscita, apprezzai che ci fosse un bel libeccio per fare le prove necessarie ma non sospettavo davvero un mare così mosso; probabilmente risulta di qualche burrasca lontana.
Appena lasciate le dighe giudicai un forza 5; la barca l’avrebbe affrontato agevolmente, per la ladruncola era un altro discorso.
Mi consolò vederla uscire esibendo ancora un sorriso convinto. Corsi a recuperare una cinghia che le fissai addosso agganciando il moschettone al cavo d’acciaio.
- Così non finirai in mare. Paura?
- Perché?  
Non ebbi tempo di rispondere e fu raggiunta dagli spruzzi. Anche la gonna fu sostituita con un asciugamano di spugna.
Continuò a sorridere felice nonostante ad ogni onda la barca venisse investita da una montagna d’acqua. Dopo un pò era fradicia all’inverosimile.
L’unico indumento che le restò fu la maglietta; bagnata com’era si trasformò in un velo sopra un corpo proporzionato ma ancora acerbo benché mi avesse confessato che stava per compiere 19 anni.
Avrebbe potuto spostarsi per ripararsi in qualche modo, invece rimase tutto il tempo in piedi, tenendosi stretta ad una sartia, attendendo la sferza delle onde. Di tanto in tanto si voltava ridendo dimostrandomi tutta l’emozione che stava provando.
La randa funzionava perfettamente, ma i miei occhi erano puntati solo su quella visione di felicità; la ragazza sembrava dialogare con il mare, urlandogli addosso e provocandolo con la forza di una divinità; anche le onde sembravano giocare con lei come bambine dispettose e divertite.
Io sono profondamente innamorato del mare e ho conosciuto altri che lo sono altrettanto, ma tutti per certi versi gli riserviamo un rispetto che deriva dal timore della sua imprevedibilità. Non avevo mai visto esternargli un amore spontaneo e sconfinato, senza remora alcuna. Quella ragazza sembrava volerlo abbracciare senza rendersi conto della sua immensità, tanta era la sua gioia di averlo incontrato per la prima volta nella vita. Una pioggia di gocce raggiungeva anche me al timone e questo confondeva le lacrime della commozione che a mia volta provavo.
Rientrai in porto un paio d’ore più tardi e le ho fatto fare una doccia fin che io lavavo la coperta per togliere la salsedine.
Al momento del commiato mi chiese solo di tenere per ricordo la maglietta ancora bagnata e se ne andò in fretta.
Mentre mi riprendevo dagli effetti di quell’incontro ricordai che nel cassetto del tavolo da carteggio avevo 10 banconote da 100 dollari. Come supponevo le aveva scoperte, ma ne mancava una sola, sostituita da un biglietto scritto a mano.
Ogni giorno devo guadagnare l’equivalente di 20 dollari per sopravvivere. Ne rubo 100 per permettermi 5 giorni da sola sull’estremità della diga ad incontrare il mare come oggi. Sono certa che me li avresti dati anche tu. Grazie....
Le parole di Angelo tradivano emozione.
“Ti è andata bene che quella ragazza ti abbia rubato solo 100 dollari”, esclamò Luca.
“Non mi ha portato via solo quelli. Mi ha rubato anche l’immagine del mare che io conservavo fin da bambino. Da quel giorno ogni volta che interrogo l’orizzonte mi appaiono solo il suo sguardo e il suo sorriso”....


   Dott. Brunello Gentile
Veduta di S. Terenzio dal mare.



Tutti marinai

Non posso ricordare, so che l'acqua è stata la mia prima culla e dalla dodicesima settimana probabilmente ho sentito il suo sapore salato. Sono immerso in un liquido con un suo moto ondoso particolare causato dal movimento della mia mamma e alimentato dal mio sgambettare, viveva vicino al mare e probabilmente la sua aria ha influito nel suscitare in me un'attrazione verso il grande blu. Sono un bambino e in estate, vicino la riva, in apnea, mi metto in posizione fetale e guardo intorno a me senza la maschera, piccole ombre si muovono velocemente e sento il battito del cuore, sono “a casa”, protetto, rimango di nuovo sospeso nella mia vecchia culla. Un giorno mio papà mi porta sul materassino dove l'acqua era per me profonda e mi dice: 
”Toni buttati”: mi fido del mio forte papà e così mi lancio… scendo, scendo, mi sembra di affondare, ma l'aria che ho trattenuto nei polmoni inizia a rallentare la corsa. Un movimento d'istinto delle braccia e sono fuori in superficie; sto respirando di nuovo come la prima volta che abbandonai la mia prima culla ma questa volta non un pianto, ma un urlo di gioia, sapevo galleggiare, e di nuovo sul materassino a provare e riprovare.
Il mare… il mare, i giorni scolastici passavano lenti sulcalendario e oltre ad aspettare la fine della scuola bramavol'estate, che esso potesse accogliermi in sé con la primamaschera e le prime pinne. Il fine settimana mio papà mi portava al porto e, con la penna sul quaderno, disegnavo le navi, quelle grigie con le lettere e dei numeri. Le navi con i cannoni e con degli uomini con le divise scure e i cappelli bianchi, ogni tanto un marinaio era tutto vestito di bianco. A casa con i modellini delle navi, che ancora oggi conservo sacralmente in un cassetto, riproducevo battaglie navali: “Boom” “Ratatatata” “Shiiiii...bam” e mia mamma sorrideva. Poi la domenica mattina il letto dei miei genitori si trasformava in una nave: i cuscini pareti d'acciaio, e lì sì che arrivavano gli scoppi, facendo saltare in aria lenzuola e coperte…finché “Toni basta è ora di rifare il letto”. Il mare, i suoi mutevoli colori, le onde, le creste accompagnate dal canto del vento; sono sul molo sopraflutto, gocce polverizzate mi investono. L'antico sapore di sale, l'attesa della onda più alta e il frangersi sugli scogli e “sentire” un antico legame… Sono adolescente e mi raccontano che mio bisnonno si era imbarcato fin da piccolo, dopo, anche mio nonno paterno Antonino Pusateri che riposa sul fondo del mare, per via di un siluro, al largo di Lampedusa dal 1941. I miei geni “cantano il mare”. Mi vedo già a bordo di una nave, ma la vita dice no! Mi ritrovo a Torino lontano dalla mia Palermo, dal porto, dal molo sopraflutto, adesso chi mi porta al mare? Si cresce e da solo posso andare a vedere il mare e il suo fondo con la mia maschera e il fiato dei polmoni. Vacanza uguale mare, non trascorrerle nel blu è nella mia mente tuttora insostenibile. Sono operato alla gamba, mi risveglio e sento e so che non potrò più piegare il ginocchio, altro che mare… ma Lui, i miei geni, non mi abbandonano, ed eccomi sul fondo di una piscina torinese con tanto di erogatore e bombola, sono un subacqueo! Ritorno alla prima culla: un erogatore simile al cordone ombelicale e posso finalmente rimanere molto tempo e ammirare il mondo sotto il pelo dell'acqua. Sono a Stromboli ho aperto un diving con i fiocchi, ho degli allievi e ciò che trasmetto loro è ciò che sento per il mare. Il momento magico della capovolta e giù sui fondali ad ammirare spugne, invertebrati, pesci, crostacei, e poi la notte… spegnendo la lampada, sono come gli astronauti nello spazio. Pagine su pagine di viaggi, immersioni, figure come Cousteau, Maiorca, Mayol, i documentari e il grande film: “Le grand Blue”. I medici, ancora una volta, e non per colpa loro mi dicono indirettamente: “Non sappiamo se le conviene fare immersioni”, lascio, poco dopo so che diventerò padre di un figlio che chiamerò Amerigo in omaggio all'esploratore e al magnifico veliero. Appendo al chiodo, come si suol dire, l'attrezzatura ARA ed eccomi di nuovo in apnea. La vita, la grande Vita sa quale rinuncia devo fare e mi fa incontrare a Ginostra una canoa aperta. Sul Po torinese ho sempre criticato coloro che vanno su e giù sul fiume cittadino, ma quel giorno mi lascio tentare, con un poco di supponenza, verso quel pezzo di plastica cavo e quel pezzo di legno strano chiamato pagaia. Con mia moglie su un doppio stiamo circumnavigando l'isola, nel blu cobalto di Stromboli sotto il suo pennacchio fumante. Le onde ci coccolano, su e giù in questo guscio che si è trasformato in un galeone, strilli di nocchiero: “cazza la randa”, ricordi d'infanzia, la fantasia gioiosa si tinge di marineria mentre il vento dietro Punta Lena si fa conoscere e si capisce, s'intuisce, cosa provavano a Capo Horn i marinai. Amerigo ha dieci anni e sul Lago di Mergozzo mi chiede di voler provare a salire su una canoa, sono emozionato, anche lui sente il richiamo del mare? Sale sul “plasticone”, capitano ed equipaggio contemporaneamente, e, con le sue fragili braccia, lo vedo allontanarsi dalla sponda del lago sicuro e fiero di sé. Dopo due anni di navigazione in un doppio, in giro per le coste italiane e della Provenza, siamo a Marciana Marina la prima scuola di kayak da mare in Italia e Gaudenzio vede, intuisce, le capacità di Amerigo: eskimo, rientro ed eskimo, salvataggi assistiti diventano abilità in un niente. Oggi siamo in tre in kayak da mare a navigare sottocosta e questa volta non solo d'estate, il mare finalmente è tornato vicino tutto l'anno. Amerigo e Tiziana con i loro kayak, tutti marinai, gente di mare. Il sottoscritto intanto in una serata di maggio visitando il sito della Guardia Costiera, gli Angeli del mare, legge di un concorso letterario sul mare, Egli mi ha chiamato ancora una volta!
Torino                                                              Antonino Pusateri

Il racconto di Toni è affascinante e pieno di inventiva. Il suo dire è snello e puntuale: complimenti

La Madonnina del mare davanti alla Palmaria (Liguria)



Sulla groppa di un delfino
 
Il cielo era plumbeo, non si scorgevano neppure le nubi tanto era uniforme; all’orizzonte cominciava ad aprirsi uno squarcio e da là prendeva sfogo il fervore del sole che, in poco tempo, si sarebbe chiuso nella sera come un nocciolo nella pesca. Il mare diffondeva profumi acuti di salmastro e lasciava sulla spiaggia conchiglie, arselle, meduse per poi ritirarsi come a pescare di nuovo. Qualche barca tentava le acque, dopo aver fatto il pieno di reti, cassette, lampare, arpioni. La pineta diffondeva i suoi messaggi, fatti di odori di ragia, di quercio, di fungo e di licheni che, a sprazzi, concedeva ai viali. I primi pini si ritiravano come sentinelle stanche e logorate dai libecci marini.
Stavano sulla spiaggia a godersi  gli ultimi raggi di settembre; per Eleonora fra poco sarebbe iniziata la scuola, per Franco il lavoro in quella fabbrica di città che non garantiva più sicurezza economica: si aspettavano le conseguenze della recessione, le difficoltà di mercato, licenziamenti a raffica. Lei non aveva voglia di riprendere la routine degli studi e della monotonia delle azioni giornaliere. Era un distacco traumatico, chissà quando si sarebbero riveduti. Avrebbero desiderato vivere insieme, rincuorarsi a vicenda dalle preoccupazioni di tutti i giorni; al solo pensiero che lui se ne sarebbe andato a vivere la sua vita e che lei avrebbe continuato la sua grigia esistenza da studentessa piuttosto mediocre, in continuo contrasto con la famiglia, che imputava il suo cattivo rendimento alla mancanza di volontà o alla distrazione, Eleonora cadeva nello sconforto più totale.
“Guarda che mare meraviglioso!” esclamò ad un certo momento Franco; “è talmente grande e saporito, che riesce ad assorbire tutta quanta la mia anima, quando tu mi sei vicina. “Vorrei che un delfino tanto navigato ci prendesse a cavalcioni  e ci portasse ad esplorare le rughe più nascoste, i segreti più reconditi, attraverso un viaggio lungo e senza confini in questo mare di giada.” Il desiderio, o per miracolo o per casualità o perché forse l’innocenza e l’amore riescono a volte a trasformare in realtà immaginazioni e sentimenti tanto fantastici, fu talmente grande che ai bordi dell’immensa distesa apparve proprio quel delfino, che sarebbe riuscito con i suoi grandi balzi e i suoi striduli richiami ad attirare l’attenzione anche del poeta più distratto, con la testa tra le nuvole. Ed il delfino si avvicinò e li guardò così intensamente da far capire che era venuto ad esaudire i loro desideri. Fu così che gli saltarono in groppa e via a gran corsa verso l’infinito mondo della libertà. Ben aggrappati, si trovarono immersi nelle acque e poi di seguito uscivano in superficie con la rapidità di un salmone. A lungo andare i loro polmoni si trasformavano e si adattavano all’ambiente marino. Navigavano immersi per tutti i fondali dell’oceano; conobbero e fecero amicizia con tutti i tipi di pesci, ai quali narravano la loro incredibile vicenda, il loro viaggio spensierato, che valeva un’intera vita; appresero il linguaggio di quelle stupende creature e si facevano narrare le loro esperienze e le loro abitudini insolite e meravigliose. Il delfino, a loro disposizione, li faceva scorrazzare  rapidamente di fauna in fauna, di flora in flora; le piante ed i coralli che si dimenavano dalle rocce, le caverne attraverso le quali passavano, davano loro sensazioni ed emozioni sempre nuove. Ormai la loro era una vita completamente marina, si cibavano dell’acqua del mare e respiravano l’ossigeno dalle branchie che si erano formate tramite una metamorfosi naturale.
           Nel punto più lontano dalla terra, dove si incontrano tutti i venti, dove le voci di tutti quanti gli esseri si confondono  nella melodia di una musicalità trascendente; dove le acque in superficie restano sempre calme e tranquille, affinché i loro abitanti possano riposare sereni ed osservare la grandezza e lo splendore del cielo di notte e di giorno; insomma nel Paradiso del mare, decisero di restare e di abitare in un galeone che si era adagiato sui fondali. Intatto, con le sue terrazze, con i suoi grandi alberi e le sue cabine, era popolato di esseri, fatti a posta per illuminare il turchino degli abissi.                                                                                              
                 Eleonora parlava spesso con la sogliola, la quale le narrò una delle sue avventure tra le più pericolose, quando, caduta nelle reti di un pescatore, era stata salvata da un pesce sega che, con la sua arma, era riuscito ad aprire uno spiraglio fra le maglie. Franco con il tonno che aveva assistito alla tragedia di una mattanza nella camera della morte di una tonnara. E là aveva visto uccidere barbaramente centinaia di tonni da arpioni impazziti; si era finto morto ed era sopravvissuto immerso nel sangue delle vittime per un’intera nottata. Poi la fuga da una falla prodottasi in una parete. Quando raccontava la sua tragica esperienza, gli occhi gli lustravano di commozione e le pupille gli si dilatavano dal terrore.
                 Un bel giorno Franco si ricordò della terra, degli alberi, dei freschi, dei viali, della spiaggia dove si erano incontrati, delle persone che conosceva, delle albe, delle rugiade, delle piogge invernali, dei colori autunnali della sua pineta. E lei, mischiando le sue lacrime al liquido del mare, rintuzzò i ricordi, menzionando quell’angolo di mondo, dove abitualmente andavano assieme, nel periodo della villeggiatura, a cogliere fiori di bosco, foglie d’alloro, ginestre e corbezzoli.
             Decisero di ritornare sulla terra; chiamarono il loro delfino, che, sempre sensibile al richiamo,  aveva deciso di restare con i due giovani, forse per miracolo o per casualità o forse perché a volte i sogni si realizzano, tanto sono forti il sentimento e il desiderio di vederli realizzati. Giunsero proprio sulla spiaggia dalla quale erano partiti, alla sera, quando il sole ormai si stava spegnendo nel Paradiso del mare, dove avevano la loro dimora e dove avevano vissuto a lungo. Era passato del tempo, perché videro che gli amici erano cambiati d’aspetto. S’inoltrarono nel paese fra la gente che di solito frequentavano, ma nessuno si rese conto di loro, tutti li guardavano in maniera strana e sospetta. Eleonora e Franco non erano più gli stessi; il mare li aveva profondamente trasformati, i loro occhi erano del colore dell’acqua profonda, la pelle squamosa come quella dei pesci, i capelli verdi come il mare d’autunno. Si muovevano e lingueggiavano come le onde; i loro arti si stavano trasformando in pinne.
Dettero un’ultima occhiata a quel mondo, quando la notte ormai si avvicinava e gli uccelli ritornavano garruli dalle loro svolazzate giornaliere. Si sentivano come due pesci fuor d’acqua; chiamarono il loro delfino e via contenti e felici a gran velocità verso il Paradiso del mare. 

 Nazario Pardini

Isole Tino e Tinello Luguria
Buongiorno Sig. Pardini, ho ricevuto la sua mail in merito al suo "Spazio per racconti brevi" inserito all'interno del suo blog che ho visitato con molta curiosità. E' un grande onore per me scrivere ad una persona di tanto spessore in ambito letterario, un'opportunità che non
mi capita molto spesso. Io le vorrei lasciare il mio racconto e...una confidenza. In realtà quello che leggerà è il corpo di una mail che scrissi qualche tempo fa ad un mio carissimo amico. Ricordo quando la scrissi. Fu un momento molto emozionante per me scriverla, perchè fu
come tuffarmi nel passato, ricordando un momento della mia Vita (suoni, luci, odori) che non scorderò mai. Qualche tempo dopo, mentre ripulivo la mia casella di posta, la ritrovai e decisi instintivamente di conservarla. Quando uscì il bando di concorso organizzato dalla Guardia Costiera decisi di parteciparvi utilizzando proprio quella mail. Così l'ho risistemata ed inviata come racconto. Gliela lascio allegata a questa mail. Può pubblicarla come no, lascio a Lei la scelta. Grazie
per aver dato ai partecipanti esclusi la possibilità di pubblicare all'interno del suo blog. Un gesto molto generoso. Le auguro una buona giornata.



Rosalba Katiuscia Buongiorno



LE LUCI DI SINGAPORE


Mio lettore,
quella che vado a raccontare non è una storia inventata, frutto della mia fantasia. Quella che vado a raccontare è una storia vera. La mia storia.
Amo scrivere, poesie soprattutto, e come tutte le Anime poetiche vivo, mi nutro di sensazioni che assaporo spasmodicamente, cercando di andare sempre al di là del quadro e dell'umano vedere e che poi tramuto in versi. E quello che leggerai è la storia di una sensazione che ancor oggi è fortemente incatenata al mio Cuore. E lì ci resterà.
Per sempre. Era il 1998. L'una di notte. Mi trovavo all'interno di un Boeing, partito qualche ora prima da Sydney. Avevo trascorso un periodo in quel continente meraviglioso chiamato Australia.
Ci sarei ritornata. Qualche anno dopo.
C'era stato un breve scalo a Singapore e stavo ripartendo alla volta di un Paese che in quel momento detestavo. Non volevo rientrare. Non lo sentivo mio. Ero appoggiata al finestrino di quell'aereo, le cuffie alle orecchie e piangevo.
Piangevo di tristezza e malinconia. Un pianto silenzioso, perché non volevo condividerlo con nessuno. Era solo mio. L'aereo iniziò la sua fase di decollo. Ero diretta a Francoforte, cui sarebbe seguita la mia destinazione finale: l’Italia. Osservai con attenzione ogni movimento di quell'aereo, fino a quando si alzò in volo. Io decisi di catturare quel momento e mi misi ad osservare la città, bellissima e addormentata di Singapore... e sgranai gli occhi. Sotto di me, appena prima di scomparire insieme al mio aereo al di sopra delle nuvole, vidi centinaia di migliaia di lucine colorate. Erano le barche illuminate. Non si vedevano se non attraverso le ombreggiature create dai riflessi della Luna, con il mare e le lucine. Gialle, Rosse, Blu, Verdi... Una città d'acqua colorata, assopita e così viva, allo stesso tempo. Dimenticai il rumore assordante di quell’aereo in volo, né la musica che stavo ascoltando. M’immersi completamente in quello scenario, al punto che mi pareva di sentire lo sciabordio delle acque del mare sbattersi leggere su quelle imbarcazioni ferme; il suo odore salino; il profumo della Vita dentro e sotto quelle barchette illuminate. Provai una gioia indescrivibile.
Durò pochi secondi questa visione che fotografai dentro di me, ma, mi commosse a tal punto che sollevai la testa, cercando di catturare fino all'ultimo istante quell’immagine stupenda.
Un'immagine che altre centinaia di persone con me stavano contemporaneamente osservando svogliatamente, ma che in Me, trasmise un'emozione così profonda ed irripetibile, che smisi di piangere e chiusi gli occhi cercando di afferrarla definitivamente dentro all’Anima.
Perché vedi caro lettore, in quel momento mi sentii talmente piccola, assorbita all'interno di quello scenario, che ancora adesso quando ripenso a quel viaggio, non mi passano immediatamente le immagini fantastiche dei paesaggi incantati, della fauna e della flora australiani, peraltro unici nel loro genere... No. Ricordo le Luci di Singapore.
Come adesso.
Rosalba Katiuscia Buongiorno



 Cara Katiuscia la tua lettera-racconto è piena di sentimenti che arrivano con immediatezza al cuore di ognuno. Le tue descrizioni sono concretizzazioni di stati d'animo di forte intensità emotiva. Scorrevole e poeticamente affabulante il tuo dire. Complimenti!!!
Nazario Pardini