Concretezza e problematicità della poesia
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Non a caso, secondo l'etimo, poiein (poesia) significa
fare (e cosa c'è di più concreto del fare?). Equazione capovolgibile, in
quanto ogni produrre ed operare, purché non meccanico, costituisce un atto squisitamente
poetico e creativo. Azione e poesia sono sinonimi, tant'è che in origine la
poesia non era scritta, ma orale. Veniva cantata e danzata, in una fisicità
perfettamente allineata con le proprie radici spirituali. E se divenne poi scritta,
inclinando verso forme espressive mediate, più intellettuali, fu perché la mente (psychè) non è che un particolare aspetto della sfera sensitiva
stessa, che potremmo ben definire psicosomatica, variegata e complessa nella
sua struttura unitaria. Il linguaggio artistico può essere contemplativo o attivo indifferentemente,
ma visivo o motorio, cerebrale o somatico che sia, ciò che promuove è un
coinvolgimento totale di sensi e d'anima. Sangue e spirito fusi in un solo
respiro. Il linguaggio dei simboli e dei miti sta qui.
La separazione tra pneuma e physis non è
che un arbitrio mentale, frutto di una mens
malata di razionalismo, in pusillanime fuga dall'aspra e cruda realtà. Ciò non accade
nel linguaggio concreto della poesia, al cui confronto l'arido e schematico
linguaggio razionalistico non può che rivelarsi fumoso ed astruso. Proviamo a
trarre un'immagine dal mito. Eracle, ad esempio (Ercole), figura viva e
realistica, carnale e spirituale a un tempo, immediatamente percepibile e significativa.
Se confrontiamo questa immagine con il corrispondente concetto filosofico che
la esprime - la forza - comprendiamo immediatamente la debolezza e
l'aridità del secondo rispetto alla prima. Perché, allora, un asfittico
principio immateriale dovrebbe essere più attendibile dell'immagine mitica che
contiene il principio stesso, di gran lunga più ricca, vivace e sanguigna di
quella flaccida astrazione?
Dove sarebbe il
conclamato disincanto di queste operazioni mentali tese a costruire illusioni e
malie che trascinano fuori dal mondo reale? e perché mai una pietra, per poter
essere vera, dovrebbe essere trasformata in un concetto fuori dalla realtà?
oppure in un oggetto arbitrariamente avulso dal complesso vastissimo di
relazioni in cui consiste la realtà? Purtroppo la dea Ragione tende a distaccarsi boriosamente
dalla vita, inseguendo l'insano principio
della divisione dell'intelligibile dal sensibile, il trionfo della ragione (tra
l'altro confusa con lo spirito) sulla cosiddetta materia bruta. Perché "insano principio"? perché i
cosiddetti inganni sensoriali, la
presunta fallibilità della carne, la
sua supposta dipendenza dai bassi istinti, e più in generale la sua malintesa subordinazione
ai bisogni, alle necessità (che secondo il detto popolare non rende schiavi, ma
fa virtù) non è che un comodo escamotage della mente per nascondere le
proprie colpe e mascherare i propri errori.
In realtà la
materia, la carne, è la più sincera e fedele alleata dello spirito e gli errori
ad essa attribuiti sono piuttosto dovuti alla mente che interrompe e devia
l'allineamento tra i due poli. Soltanto la mente,
infatti, può mentire, e mentire in primis a se stessa, come testimonia
la radice (mens) che i due termini
hanno in comune. I sensi non hanno, né possono avere colpe di alcun genere.
Allineati con le leggi cosmiche, seguirebbero istinti infallibili cui non è
consentito sbagliare. Purtroppo la logica razionalistica, che moltissimo ha dato - non c'è dubbio
- al progresso delle scienze umane, sta oramai diventando obsoleta, rivelando i suoi limiti nel suo stesso fondamento,
in quel suo volersi allontanare dall'enigmatica natura, seguendo l'astratto principio di non-contraddizione (o è nero o è bianco), divisivo e
settario, che potremmo ben definire armonia
dei simili, esatto opposto del principio
di contraddizione costitutivo della
realtà, altrimenti detto armonia dei
contrari.
Principio questo che
risponde alla logica inclusiva e relazionale, quantistica se vogliamo, secondo
cui il bianco può essere bianco solo nella sua relazione con il nero. E sta qui
la logica della poesia, in questa ricchezza complessa
ed ambigua, contraddittoria e vitalissima, che è propria della realtà. Una
logica che ama l'antitesi non come premessa di sintesi successive, secondo i
conflittuali e decadenti dettami della dialettica, bensì come contrapposizione
necessaria ad un equilibrio superiore già dato, capace di abbracciare
misteriosamente a priori, e tenere poi in vita, ogni conflittualità. La nostra civiltà malata di razionalismo ha estremo
bisogno di riscoprire queste sorgenti cosmiche, questa cooperazione e questa
fratellanza universali, se vuole in qualche modo arginare il processo
distruttivo in atto, dovuto all'insano desiderio di affrancarsi dall'ordine
naturale e universale.
Ha bisogno di riscoprire
territori del pensiero abbandonati che una malintesa razionalità ha fatto
cadere in oblio, ponendo fra parentesi archetipi che non sono certo per questo
spariti dal mondo, ma sono restati nel mondo in attesa di venire ripescati. Archetipi non da noi pensati, ma che stanno oltre il pensiero da noi pensato, in quel pensiero che
ci pensa, da cui siamo pensati, che non è Dio, ma il divino che Lui stesso ci
ha dato per farci padroni di noi stessi, degni della sua paternità. Noi siamo
figli del Logos e di esso viviamo, ma
il termine, purtroppo, da lègein, che
nella speculazione aurorale aveva significato di accogliere, abbracciare e sostenere le voci dell'intero vivente,
subì gradatamente nel tempo quella trasformazione semantica che lo condusse ad
assumere il significato di scegliere.
E divenne altra cosa. Nella speculazione aurorale, il Logos non era ancora il discorso razionale corretto,
o la ragione stessa, con cui se ne è
successivamente avvilito il significato.
Nell'accezione
originaria dei termini, Logos è il
coro universale, la riunione, l'incontro, l'abbraccio di tutte le voci
esistenti, e non l'affermazione di una voce sulle altre, dovuta ad abilità
dialettiche o a prepotenza verbale. Tra Logos e Mithos non c'è grande differenza agli
albori. Entrambi significano discorso,
parola, ed entrambi riferiscono della
creazione universale. Logos è il linguaggio diretto
dell'essere, e mithos il linguaggio
con cui l'essere appare nella scena dell'intelletto umano. Da un lato il verbo parlante, il suo farsi mondo e relazione; dall'altro l'ascolto e il racconto di questo farsi
mondo e relazione. Il mithos, in
fondo, nelle sue stagioni primeve, non è altro che l'auto-rivelazione del logos nell'orizzonte dell'intelletto umano, contrariamente a quanto i dottrinari insegnano ponendo i due termini in
antitesi tra di loro.
Le divergenze nacquero e si ampliarono successivamente, nel momento in cui
spirito e materia iniziarono a divaricarsi tra di loro.
Così
al primo vennero assegnate valenze razionali, costruttive, di emancipazione
dall'ordine naturale e cosmico, lasciando all'altro valenze di abbandono fiducioso
alle leggi che governano la vita, date a priori e non costruite razionalmente. Tutto
ovviamente è discorso, parola, ma un conto è il linguaggio
autoreferenziale, obsoleto, che nasce dal linguaggio stesso, in fuga dalla
realtà e dalla vita; un altro il linguaggio creativo che nasce dai silenzi
interiori, radicati nelle verità misteriose del cosmo e del creato. La poesia autentica
sta qui, in questo linguaggio vivo, fatto di sangue e spirito, capace in ogni
tempo e luogo di nominare per la prima volta il mondo. La poesia autentica ha
il potere non di evocare le origini, non di richiamarle in causa, ma di mostrarne
la presenza, di scoprire ossia che le origini son qui. Perché non appartengono
al passato, le origini, non sono storiche, ma archetipe. Non sono originarie,
ma originanti.
Poesia
è la modalità prelogica (ma niente affatto illogica) del linguaggio e del
pensiero. Una modalità mitico-sapienziale
(nativa o sciamanica, o come altro la si voglia chiamare), che non è affatto
ingenua, come è luogo comune pensare. Consideriamo il gioco del perché del fanciullo. Nulla di meno ingenuo e di più
smaliziato. Il bambino s'interroga e si risponde, sdoppiandosi e parlando con
se stesso, consapevole della propria natura duale. Cosa gli accade da adulto?
gli accade di adulterarsi, lasciandosi rubare a se stesso dalle pressanti
responsabilità sociali. Ed è la morte del bambino, la morte della vita, il
crollo della poesia e della visione congiuntamente spirituale e fisica del
mondo, per dare inizio a quella dei paradisi artificiali. Nella sua dualità, il
bambino mostra di non saper di sapere,
contrariamente a Socrate che invece dichiara di saper di non sapere (ma a ben guardare, capovolgendo i termini,
costui si muove nella medesima dualità di pensiero).
Non vorrei tuttavia venire
frainteso. Non è che, esaltando lo spirito, qui io intenda denigrare la
ragione. Sotto accusa è il razionalismo che viaggia a una sola dimensione, non
la ragione come elemento dell'esperienza duale. La ragione è una componente
indispensabile del dialogo interiore. E' nell'infanzia dell'umanità che nasce
quel dialogo, vuoi a livello individuale, vuoi a livello collettivo. Perché
allora l'età della ragione interrompe quel dialogo, anziché svilupparlo, vuoi a
livello individuale e vuoi collettivo? E' inammissibile. Sotto accusa non è la
ragione, ma i suoi eccessi, i suoi capricci, le sue intemperanze, la sua
illusione che per divenire adulti occorra seppellire il bambino. La filosofia
purtroppo è convinta che la ragione, da sola, possa bastare. Ciò ha reso gli
uomini monocordi, unidimensionali, assolutamente non problematici,
contrariamente a quanto si è sempre voluto far credere.
Non si diviene
problematici interrompendo il dialogo con la sapienza succhiata insieme al latte materno per il semplice fatto
di nascere umani. La vera poesia è problematica per il fatto stesso che si
lascia dominare da una fede. Non sto parlando di fideismo, si badi, ma di
macerazione interiore. Ci vuole infatti una grande fede per poter dubitare e ci
vuole un fortissimo dubbio per poter crescere nella fede. Sta qui il lavoro del
poeta e della poesia. Una capacità di incantarsi nel disincanto, e viceversa,
come del resto accade a chiunque coltivi una visione prelogica e realistica
della vita. Consideriamo la cultura contadina. Non si creda che i contadini di
un tempo fossero degli ingenui, dei creduloni. La loro vita durissima non
poteva consentirlo. Erano donne e uomini disincantati che sapevano coltivare
incanti per poter andare avanti nelle asprezze della vita. Non credevano alla
befana, ma credevano in se stessi appoggiandosi alla befana. La stessa cosa
accade ai poeti e ai fanciulli costruttori di favole, ai popoli nativi
costruttori di miti.
Ha scritto Carlo
Levi in Cristo si è fermato a Eboli: "Tutto,
per i contadini, ha un doppio senso. La
donna-vacca, l'uomo-lupo, il Barone-leone, la capra-diavolo non sono che
immagini particolarmente fissate e rilevanti: ma ogni persona, ogni albero,
ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità. La
ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei, la religione e la storia. Ma
il senso dell'esistenza, come quello dell'arte e del linguaggio e dell'amore, è
molteplice, all'infinito. Nel mondo dei contadini non c'è posto per la ragione,
per la religione e per la storia. Non c'è posto per la religione, appunto
perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è realmente e non
simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto
è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani,
celebratori dell'indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri
dèi del villaggio". Il feticismo non c'entra: imbarbarimento comune ad
ogni civiltà, da cui non è certo immune la nostra, tecnologicamente avanzata.
Franco Campegiani
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaCampegiani è unico nella chiarezza e complessità della sua dialettica. é filosofo e poeta , un unicum completo, così come compare nel suo pensiero che esalta l'armonia dei contrari -il suo cavallo di battaglia!-.
.Ebbene, sì, tutto nel mondo reale e in quello dello spirito è unico, sia che vogliamo vederlo divisibile o meno, perché ogni cosa, così come ogni idea comprende il suo contrario, altrimenti non sarebbe riconoscibile.
La chiarezza professionale di Campegiani parte anche da questo e in questo chiaramente si rispecchia.
Per questo lo vedo come perfetto filosofo( ama il sapere, tutto e il contrario di tutto, in quanto il sapere è infinito)...
Oggi, qui, non sono in grado di dialogare con il suo pensiero: sto uscendo da un lungo misterioso periodo di Malessere (malattia?) che mi ha indebolito in tutto , ma ho letto questo suo saggio meraviglioso che si estende dal logos al poiein...
poesia, religione, vita e pensiero, logos e mythos, e quant'altro...una battaglia concreta e pacifica che, se compresa nella sua interezza metterebbe a tacere qualsiasi "inutile discussione" su poesia e non poesia, ad esempio.
Grazie, caro amico, hai scritto verità per tutti, una delizia per chi legge, anche se è uno che, come me oggi, ha una grande stanchezza.
Ti abbraccio con tutta me stessa e ti chiedo scusa per l'inadeguatezza del mio parlare con te. Ho la mente stanca.
Edda Conte.
Ti sentirai anche stanca, carissima Edda, e ne sono dispiaciuto, ma è comunque fortissima la carica e la potenza del tuo pensiero. Grazie, la tua condivisione è un fiore all'occhiello e ti formulo i migliori auguri per il nuovo anno e per una pronta guarigione.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Caro Franco, in questo breve saggio dai ulteriore prova della tua vocazione a dare senso ai concetti pregnanti del tuo pensiero filosofico. In quest'occasione ci ricordi l'importanza, nella poesia e nella vita ( bellissimo l'esempio del mondo contadino) dello spirito, del 'latte succhiato al seno materno', dei sensi, a scapito della ragione. Credo sia risaputo che noi
RispondiEliminauomini amiamo usare con una certa disinvoltura le parole oscillando tra usi equivoci e usi analoghi, ed è abbastanza evidente che il termine vita è di fatto predicato, cioè riferito, a contesti tra loro molto differenti. Siamo soliti parlare della vita politica, della vita religiosa, della vita sociale, della vita degli uomini, della vita degli animali. L'uomo decide che cosa ha valore in nome delle proprie scelte e delle proprie decisioni: ciò che riconosce, vale, ciò che non riconosce, non vale nulla, è pura materia. La vita diventa oggetto di scelta e di selezione, di manipolazione e di progetto: la vita umana, quella vegetale, quella animale. Nella fede cristiana la vita non è né un feticcio, né un progetto, ha una consistenza e un valore in sé, anche quando non serve all'uomo, persino quando lo minaccia. Ed è questo il timore che palesi, amico mio, o sbaglio? Che la fede venga usata come speculazione. Precisi che "il pensiero da noi pensato, che ci pensa, da cui siamo pensati, non è Dio, ma il divino che Lui stesso ci ha dato per farci padroni di noi stessi" e insegni che Pensare alla realtà sotto la categoria della creazione significa correggere la prospettiva utilitaristica e introdurre un altro punto di vista sulla vita: significa fare spazio alla prospettiva della bellezza, della gratuità, dell'imprevedibilità, dell'originalità. Il tuo sembra un attacco alla ragione, in realtà asserisci che "E' nell'infanzia dell'umanità che nasce quel dialogo, vuoi a livello individuale, vuoi a livello collettivo." Quel dialogo viene interrotto dal razionalismo, che da sempre metti sotto accusa, in quanto è paragonabile a una patologia che avvelena la ragione indebolendone le forze. Molto affascinante, amico mio, leggerti in questa
pagina, soprattutto sulle basi di una lunga conoscenza. A tratti il tuo pensiero sembra identificarsi con un desiderio insopprimibile che lotta in primis con i tuoi sensi, il tuo modo di porti di fronte alla poesia e alla vita. Il che accresce l'intensità di ogni concetto. Credo che proprio secondo l'armonia dei contrari il primo scontro avvenga all'interno di noi stessi. Grazie filosofo del nostro tempo. Continua a scrivere. Il mondo ne ha bisogno! Ti abbraccio.
Ti sono molto grato, Maria, per le attenzioni che mi concedi. L'armonia dei contrari presuppone uno scontro finalizzato all'incontro: quel contrasto funzionale all'armonia che accade innanzitutto dentro se stessi prima di riversarsi fuori di sé. Il che equivale a dire che fede e dubbio sono movimenti inscindibili dell'interiorità, di qualsiasi interiorità, come testimoniano il poeta e l'artista presi nella loro macerazione interiore, ma come soprattutto testimonia il bambino con il suo "gioco del perché": una fede piena di dubbi, o un dubbio pieno di fede, al di fuori di qualsiasi confessionalità. Mi chiedi se il mio timore è che la fede possa venire usata come speculazione. Ebbene si, è questo che temo: il fariseismo, i sepolcri imbiancati. Ed è il rischio che si corre ogniqualvolta si tenta di trascinare la fede (come anche il dubbio) al di fuori dell'interiorità, sua vera ed unica patria. Ben vengano le confessioni religiose, ovviamente, purché non ci si dimentichi che la fede occorre al fedele e non viceversa.
EliminaFranco Campegiani
Ringrazio il poeta e filosofo Franco Campegiani, per questo straordinario saggio, che mi chiarisce molti dubbi. Mi sono trovata spesso a pensare al rapporto della poesia con realtà e fantasia. Ho sempre creduto che il poeta debba andare oltre. Affermandolo sono stata a volte fraintesa. Sono completamente d'accordo quando dici che c'è "bisogno di riscoprire territori del pensiero abbandonati che una malintesa razionalità ha fatto cadere in oblio, ponendo fra parentesi archetipi che non sono certo per questo spariti dal mondo, ma sono restati nel mondo in attesa di venire ripescati." Credo che sia proprio questo che debba fare il poeta e quando ci riesce è meraviglioso, sia per lui che per chi legge. Platone scrive "Attraverso i sensi siamo in grado di cogliere le forme fisiche delle cose, mentre con l'anima intellettiva cogliamo le forme pure, prive cioè di ogni elemento materiale, le pure essenze. Un'affermazione che condivido, anche se credo che il linguaggio creativo debba coinvolgere sia i sensi che l'anima. Per quanto riguarda l'armonia degli opposti, sono totalmente d'accordo. Come potrei non esserlo? Visto che a breve uscirà una mia silloge dal titolo "L'Equilibrio degli opposti" Ringrazio di cuore il nostro condottiero che ci dona queste meravigliose pagine e ancora il Professor Franco Campegiani che mi offre l'opportunità di allargare le vedute di una casalinga, che ama scrivere. Serenella Menichetti.
RispondiEliminaHai ragione, Serenella (permettimi il tono confidenziale, anche se non ci conosciamo di persona): "il linguaggio creativo deve coinvolgere sia i sensi che l'anima". E' ciò a distinguere la nostra visione del mondo da quella platonica che catapulta gli archetipi fuori dal mondo, nell'iperuranio, trattandoli alla stregua di idee, anziché di essenze pulsanti e vitali, spirituali, che hanno sede in questo mondo, vivendo allo stato libero accanto ad ognuno di noi (non soltanto di noi esseri umani). Infinite grazie e onore al merito ad una casalinga come te che ama scrivere e che seguo con interesse in questo blog. Un caro saluto e sappi che non sono un professore.
EliminaFranco Campegiani
Ti sono molto grato, Maria, per le attenzioni che mi concedi. L'armonia dei contrari presuppone uno scontro finalizzato all'incontro, quel contrasto funzionale all'armonia che accade innanzitutto dentro se stessi prima di riversarsi fuori di sé. Il che equivale a dire che fede e dubbio sono movimenti inscindibili dell'interiorità, di qualsiasi interiorità, come testimoniano il poeta e l'artista presi nella loro macerazione interiore, ma come soprattutto testimonia il bambino con il suo "gioco del perché": una fede piena di dubbi, o un dubbio pieno di fede, al di fuori di qualsiasi confessionalità. Mi chiedi se il mio timore è che la fede possa venire usata come speculazione. Ebbene si, è questo che temo: il fariseismo, i sepolcri imbiancati. Ed è il rischio che si corre ogniqualvolta si tenta di trascinare la fede (come anche il dubbio) al di fuori di sé. Ben vengano le confessioni religiose, ovviamente, purché non ci si dimentichi che la fede occorre al fedele e non viceversa.
RispondiEliminaFranco Campegiani
F. Campegiani ci fa riflettere, inserendoci nei suoi studi filosofici con una così originale articolazione di discorso –che cos’è la poesia- che la sua lettura non può essere trascurata. Mi limito a sottolineare alcuni passaggi che rendono luminosa la sua argomentazione : “Proviamo a trarre un'immagine dal mito. Eracle, ad esempio (Ercole), figura viva e realistica, carnale e spirituale a un tempo, immediatamente percepibile e significativa. Se confrontiamo questa immagine con il corrispondente concetto filosofico che la esprime - la forza - comprendiamo immediatamente la debolezza e l'aridità del secondo rispetto alla prima. Perché, allora, un asfittico principio immateriale dovrebbe essere più attendibile dell'immagine mitica che contiene il principio stesso, di gran lunga più ricca, vivace e sanguigna di quella flaccida astrazione?…. La nostra civiltà malata di razionalismo ha estremo bisogno di riscoprire queste sorgenti cosmiche, questa cooperazione e questa fratellanza universali, se vuole in qualche modo arginare il processo distruttivo in atto, dovuto all'insano desiderio di affrancarsi dall'ordine naturale e universale…. le origini, non sono storiche, ma archetipe. Non sono originarie, ma originanti…”
RispondiEliminaSiamo al tema più volte proposto dall’autore del mito e della sua espressione poetica. Questa volta coniugato con il tema della concretezza e della fisicità-corpo e mente-. Il che mi induce a riprendere pensieri antichi, intriganti, che ho poi abbandonato: “«… I primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere somiglianti…» (G. B. Vico,Scienza Nuova) e al testo pavesiano che si muove nella medesima linea: “ ciascuna delle nostre decisioni essenziali ‒ quelle per cui si espone la vita o la si esalta nella creazione ‒ non nasce, al disotto o al disopra della teoria, da un impulso piú misterioso, piú estatico, piú autorevole che non la persuasione razionale, che non la conoscenza? Che cos’è che può inquietarci, esasperarci, impegnarci fino in fondo per farsi violare, rischiarare, conoscere, se non l’inviolato, il presentito, l’ignoto?” . Ed ancora: “Far poesia significa portare a evidenza e compiutezza fantastica un germe mitico. Ma significa anche, dando una corposa figura a questo germe, ridurlo a materia contemplativa, staccarlo dalla materna penombra della memoria, e in definitiva abituarsi a non crederci piú, come a un mistero che non è piú tale…”. Ecco la conferma dell’unità del linguaggio artistico e del sentire poetico complesso da cui proveniamo, e che sapremmo riconoscere se non fossimo sempre così distratti, superficiali, “astratti”,la meditazione problematica filosofica l’ aveva chiarito.
Carissima Maria Grazia, ti sono molto grato per le dottissime argomentazioni con cui arricchisci questa mia riflessione non so se filosofica: "contro-filosofica" è una definizione migliore. G. Battista Vico e Cesare Pavese hanno visioni diametralmente opposte, ma comunque storicistiche del mito. Per il primo esso appartiene all'infanzia dell'umanità, materia grezza da lavorare, da superare con le successive, raffinate evoluzioni del pensiero filosofico (razionale). Per il secondo, invece, esso rappresenta il punto di partenza ineguagliabile, la felice stagione aurorale del mondo, purtroppo irrecuperabile, perché non si può recuperare ciò che è perduto. Nietzsche ha una visione non meno antiquaria del mito: "L'uomo, oggi, privato del mito, si aggira famelicamente alla ricerca di radici, fosse pure fra le antichità più remote". Ma come può estinguersi - mi chiedo - un archetipo, un valore eterno dello spirito, che non risiede nella storia, bensì nel cuore profondo di ogni singolo essere umano? La storia può anche porre gli archetipi fra parentesi, ma non potrà mai scacciarli dal nido interiore dell'animo umano. Da lì prima o poi rinasceranno, sciogliendo le parentesi, per dare inizio a nuove avve3nture esistenziali. Non sto parlando di "attualizzazione" del mito: il che risponderebbe pur sempre ad una visione storicistica di esso, che invece non va attualizzato per il semplice fatto che è eterno, ovvero perennemente attuale. Ti sono molto grato e scusa la digressione forse inopportuna cui mi sono lasciato andare sulla scia delle tue stimolazioni suggestive.
EliminaFranco Campegiani
Carissimo Franco,
RispondiEliminaanche in questo tuo scritto emerge la ricerca della verità, ma anche l'impegno a combattere le falsità. Continua la tua ricerca metodologica dell'autentico contro ogni forma di alterazione o falsificazione. Il lettore dovrebbe apprendere il metodo come scuola di pensiero che porta alla 'diritta via' evitando gli smarrimenti che spesso assalgono l'umanità.
I miei più sinceri complimenti ed apprezzamento per la tua encomiabile perseveranza.
Salvatore Rondello
Carissimo Salvatore, è un piacere ritrovarti in questo blog, con un commento così pertinente e lusinghiero. Purtroppo la Babele in cui siamo immersi e da cui siamo circondati, imbroglia a tal punto le nostre lingue, confondendo le nostre menti e i nostri cuori, da indurci a credere che la verità non esiste. Quella verità che invece ogni altra creatura del creato conosce, così come ogni bambino ed ogni essere elementare abituato a dialogare con se stesso. Noi, uomini civilizzati del ventunesimo secolo, abbiamo purtroppo fatto diventare difficili le cose semplici e ci siamo chiusi in un dedalo da cui non sappiamo più uscire fuori. Stanno nella dea Ragione i semi della follia e sta a noi non farli attecchire.
EliminaFranco Campegiani
Grazie carissimo Franco per il tuo apprezzamento. Anche nella risposta trovo molta saggezza: 'Stanno nella dea Ragione i semi della follia e sta a noi non farli attecchire'. Nella frase finale sono contenuti la luce illuminante ed il dovere perseverante. A presto. Salvatore Rondello
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