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sabato 30 aprile 2022

ANITA MENEGOZZO: "LE PAROLE"

 

Le parole ben più che le stelle

il mio amore più grande

son fantasmi di fragili fate

balenii di falene in castelli di carte

Vanno e vengono ciononostante

come api operose

ed è un intima gioia

guardarle posare sui moti del cuore

Con quel più che perfetto stupore

che ci lega alle piccole cose

ci danniamo a carpirne il segreto

a brandirle perfino

Una volta raggiunto l' intento

le lasciamo di nuovo a sé stesse

in balia di un capriccio

di un estro

o di un gesto inespresso

Perché ciò che si è scritto

una volta asciugato l inchiostro

non sarà mai più nostro.

Le parole del resto

sono orfane tutte dal giorno del parto

e da vergini stolte

fin da sempre si sono concesse

senza ottuse riserve

grazie a un patto di mutuo rispetto

che nessuno mai scrisse

e nessuno ha mai letto

 

venerdì 29 aprile 2022

SILVANA LAZZARINO: "DICONO DI LEI"

 Gentile Prof. Nazario Pardini,

buona serata,

le chiedo se fosse possibile

pubblicare sul suo prestigioso Blog Letterario Internazionale Alla Volta di Leucade

il mio articolo 

uscito  su Emmegiischia, riferito allo spettacolo "Dicono di lei---" ideato e condotto da Silvia Cozzi e Paolo Buzzacconi che si svolge sabato 30 aprile alla Galleria Arte Sempione a Roma. Lo spettacolo con l'organizzazione della Galleria Arte Sempione rientra negli appuntamenti della Rassegna Iplac.

Di seguito il link per visualizzarlo

https://www.emmegiischia.com/wordpress/spettacolo-dicono-di-lei/

La ringrazio molto. Un caro saluto

Silvana Lazzarino

Di seguito il testo dell'articolo uscito su Emmegiischia

“Dicono di lei…” l’atteso spettacolo ideato e condotto da Silvia Cozzi e Paolo Buzzacconi presso la Galleria Arte Sempione a Roma

 

L’evento  tra recitazione, musica e parole, che si svolge sabato 30 aprile 2022 alle ore 18.30  è dedicato alla figura della donna

 

Nell’ambito degli appuntamenti Iplac (Circolo Iplac- Associazione culturale Insieme per la Cultura) di cui è Presidente Maria Rizzi nota scrittrice di gialli, da non perdere quello riferito allo spettacolo  “Dicono di lei… Storie di donne” realizzato in collaborazione con la Galleria Arte Sempione, con l’accompagnamento musicale del Maestro Maurizio Albano, che va in scena a Roma presso la Galleria Arte Sempione (in Corso Sempione,8) il 30 aprile 2022 alle ore 18.30.

 

Ideato e condotto dalla poetessa Silvia Cozzi segreteria e Consigliera Iplac e Paolo Buzzacconi, anch’egli poeta, nonché Consigliere Iplac, lo spettacolo, che si sviluppa tra poesia, musica e recitazione, restituisce nuovo spessore ai sentimenti delicati e forti, che investono  l’esistenza della figura femminile, tra ricordi e momenti presenti, desiderio di rinnovamento e libertà,

 

Attraverso la fascinazione dello sguardo, la dinamica della gestualità e della parola, sono messi in luce i diversi volti di donna: ora incerta e ritrosa, ora decisa e coraggiosa nella sua quotidianità tra realtà e sogno dove non manca quella capacità di ironizzare e mettersi in gioco. Ad emergere è l’immagine di una femminilità senza tempo e misteriosa. La donna ha trovato sempre e continuerà a trovare nuovi modi per essere se stessa e gestire al meglio ogni situazione anche giocando con ironia sui suoi punti deboli e valorizzando quelli vincenti, per lasciare che a parlare sia quel  fascino nascosto che traspare anche da un semplice geto o sguardo da cui si viene catturati come per magia, senza conoscerne il motivo.

 

All’evento possono partecipare tutti i presenti con aforismi e poesie dedicate alla donna. I proventi della serata saranno devoluti alla Casa delle Case di Monterotondo organizzazione di Volontariato.

 

Silvia Cozzi, non solo ha scritto e scrive componimenti in metrica, ma anche liberi da strutture precostituite, attraverso cui svela il suo percorso emozionale descritto con profonda autenticità e spontaneità. L’evento si svolge nel rispetto delle vigenti normative anticontagio. Per quanti desiderino partecipare è gradita la prenotazione all’indirizzo mail: artesempione@gmail.com, o contattando il numero di cellulare: 3208787559. Uno spettacolo da non perdere.

 

Silvia Cozzi, attraverso i suoi testi di poesia ha saputo restituire nuova voce alle emozioni della vita tra passato e presente dove si intrecciano nostalgie e gioie, delusioni e speranze, Autrice di testi poetici di grande spessore tra cui citiamo “Padrona di giochi di luce” (2018), “Pentagrammi di-versi“ (Controluna 2019) 

Nella foto Silvia Cozzi,

 

     Silvana Lazzarino

 

Pr la Rassegna Iplac,

 

in collaborazione con la Galleria Arte Sempione

 

lo spettacolo “Dicono di lei”… Storie di donne

 

ideato da Silvia Cozzi e Paolo Buzzacconi

 

sabato 30 aprile 2022alle ore 18,30

 

presso la Galleria Arte Sempione,

 

Corso Sempione 8 – Roma

 

per le prenotazioni scrivere a artesempione@gmail.com,

 

o contattare il seguente numero di cellulare: 3208787559

 

 

giovedì 28 aprile 2022

IL MIO SAURO

 Troppi, infiniti sarebbero i ricordi di mio fratello che mi lasciano triste e sconsolato per non avere fatto di più per lui che era una persona a dir poco ecezionale che non riesco a toglietre dalla mente- Il mio SAURO, la sua bontà, il suo carisma. Quando tornava da scuola aveva sempre qualcosa per me. Quando ero all'ospedale veniva a trovarmi di nascosto e mi portava le bistecchine di maiale, che io apprezzavo in modo particolare. Nei momenti difficili dello studio mi mandava a lezione da un amico professore di matematica. Insomma non riesco a tiogliermi dalla mente la sua figura che porto sempre con me e che mi procura un grane dolore-   



FRANCO CAMPEGIANI: "LINO TARDIA. IL MARE DELLA MEMORIA"

 

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade


Comunicato Stampa

LINO TARDIA Il mare della memoria

 

Omaggio nel sesto mese dalla morte
INAUGURAZIONE MOSTRA VENERDÌ 6 MAGGIO 2022 ore 17:00
Ricordo del Maestro e presentazione del catalogo monografico
“Il mare della memoria” edito da Silvana Editoriale


Il Maestro Lino Tardia ci ha lasciati lo scorso 21 novembre. A sei mesi dalla scomparsa, la galleria Edarcom Europa, in accordo con la famiglia, desidera rendere omaggio a questo straordinario artista con una mostra che verrà inaugurata venerdì 6 maggio negli spazi espositivi di Via Macedonia 12 in Roma. Durante l’inaugurazione verrà presentato il catalogo monografico “Lino Tardia – Il mare della memoria”, edito da Silvana Editoriale, e l’artista verrà ricordato dagli affettuosi saluti di chi ne ha studiato a fondo il lavoro pittorico. Introdotti da Francesco Ciaffi, interverranno a tal proposito Franco Campegiani, Andrea Romoli Barberini, Francesco Gallo Mazzeo e altre personalità dell’arte. Nel saggio pubblicato in catalogo, Franco Campegiani ci ricorda che le opere di Lino Tardia sono “vere e proprie scatole dei miti che, come calamite, attraggono elementi eterogenei, caricandoli di contenuti psichici straordinari. Vi entra di tutto: lune, soli, astri e satelliti, unitamente a cenni antropomorfi e a echi cronachistici, a stralci di giornale. Il tutto dipinto e non incollato, in quanto solo il colore e il pennello, per Tardia, hanno diritto di cittadinanza nel quadro”. E nell’altro contributo in catalogo, Aldo Gerbino finemente osserva che “La necessità linguistica di Lino Tardia appare, dunque, impregnata d’un focus dinamico ovattato da un’esigenza gestuale sciolta tra adeguati confini geometrici; una lingua percorsa da tagli baconiani, comparata con masse pigmentarie atte ad alimentare, nel bozzolo di una cromia mediterranea, l’esigenza a coagulare faglie, ampliare dicotomie sostenute da memorie, stringhe famigliari”. La mostra, a cura di Francesco Ciaffi, si compone di circa trenta opere rappresentative della produzione
degli ultimi 25 anni ed è visitabile con ingresso libero fino al 4 giugno 2022.

NOTA BIOGRAFICA

Lino Tardia nasce a Trapani nel 1938. Conseguita la maturità artistica, rifiuta l’incarico di docenza in Discipline Pittoriche in un liceo artistico di Palermo e si trasferisce a Roma, dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Qui conosce Renato Guttuso, del quale è prima allievo e poi assistente. Il realismo guttusiano influenza il suo linguaggio, che inizialmente si concentra sulla realizzazione di paesaggi siciliani connotati dalla vivacità della tavolozza e dalla pulizia delle linee. Inizia a esporre alla fine degli anni Cinquanta e tiene la sua prima personale all’inizio degli anni Sessanta. Sono gli anni della Dolce vita e Tardia entra in contatto e stringe rapporti di amicizia con molti dei più noti personaggi dello spettacolo, del cinema e della cultura. Nella metà degli anni Sessanta, passando per un breve periodo informale, abbraccia l’idea di una nuova figurazione secondo la maniera di Francis Bacon, che conosce durante un soggiorno a Londra. In una continua evoluzione ispirata a una convivenza tra architetture geometriche e profondità metafisiche, Tardia approda alla ricerca più recente a partire dalla fine degli anni Settanta. L’esperienza giovanile di assistente agli scavi del sito archeologico di Mozia, l’antica città fenicia sull’isola di San Pantaleo vicino Trapani, riaffiora attraverso il ricordo della scultura antropomorfa della Madre fenicia (V-VI secolo a.C.) il cui plasticismo figurativo, in equilibrio tra linee arcaiche e stilizzate, ne ispira lo stile pittorico. Temi quali la memoria, il legame ancestrale con la natura della terra siciliana, il mito dell’Iliade e dell’Odissea, divengono centrali nel linguaggio della maturità che si compone non più solo di pittura ma anche di interventi scultorei applicati sulla tela e realizzati con materiali vinilici esaltati dalla foglia d’oro zecchino. Tra le tante mostre in Italia e all’estero (Londra, Parigi, New York, Chicago, Houston, Ottawa, Tripoli) si segnalano, come tappe più significative, la personale In viaggio con i Fenici, presentata nel 1996 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Spoleto e nel 1997 al Convento San Rocco di Trapani, e l’antologica La scatola dei miti presso il Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma nel 2009. Tardia ha ricoperto, tra il 2001 e il 2008, l’incarico di docente di pittura presso la RUFA (Rome University of Fine Arts) e del suo lavoro si sono occupati alcuni tra i più importanti esponenti della critica nazionale. Nel 2003 è stato insignito della Medaglia d’Oro per i Benemeriti della Cultura della Presidenza della Repubblica Italiana. Lino Tardia muore a Roma nel 2021.


INFORMAZIONI

MOSTRA: Lino Tardia | Il mare della memoria
PERIODO: 6 maggio – 4 giugno 2022
CATALOGO: Ed. Silvana Editoriale, 2021, pp. 80
INDIRIZZO: Via Macedonia 12, Roma (San Giovanni – Appio Latino)
INAUGURAZIONE MOSTRA: Venerdì 6 maggio ore 17:00
ORARIO MOSTRA: da lunedì a sabato ore 10:30/13:00 e 15:30/19:30
INGRESSO MOSTRA: Libero nel rispetto delle vigenti norme di igiene e sicurezza.
INFO: 06.7802620 – www.edarcom.i




MARCELLA MELLEA LEGGE: "ANDAR VIA" DI PASQUALE CIBODDO

 

Pasquale Ciboddo

ANDAR VIA

Recensione di Marcella Mellea

 









Pasquale Ciboddo

 

ANDAR VIA

 

Recensione di Marcella Mellea

 

 

Andar via, l’ultima raccolta poetica di Pasquale Ciboddo, è poesia lirica meditativa sui grandi temi della vita. Il poeta si abbandona all’evocazione nostalgica di un tempo felice, pieno di lavoro e fatica, ma ricco di valori e buoni sentimenti. Con un linguaggio lineare ed essenziale, a tratti particolarmente asciutto, ma sempre musicale e fluido, il poeta descrive l’aspro e meraviglioso paesaggio sardo, evoca la bellezza dei luoghi, i colori, le condizioni climatiche, la fauna, la vegetazione, gli uomini, i loro umori, gli antichi mestieri e – con decise ed evocative pennellate impressionistiche – dipinge scene di lavoro nei campi. Ciboddo, attraverso i suoi occhi e il suo sentire, dà voce alla sua magnifica terra, ne coglie le bellezze, i moti dell’animo, i modi di vivere, le tradizioni, i ricordi e li restituisce al lettore con autorevolezza espressiva, suggestione e magica evocazione di atmosfere e sentimenti. Andar via è tutto questo, ma non solo questo.

La raccolta inizia con un ricordo di guerra, evocato dalla maestra Tonina. “La guerra / non prometteva nulla / solo pene e miseria” (In memoria, 1942 - ‘43) – scrive il poeta –, essa trascina le persone nella vergogna per la fame e l’inedia. Il tema della guerra, con la sua violenza, – e la sua condanna – è presente in maniera decisa in diverse liriche della silloge. Altra tematica ricorrente è quella del tempo, che avanza inesorabilmente; infatti, dell’umano passaggio senza ritorno, solo l’immutabile sole è il grande testimone, sotto la sua luce e le sue ombre, la vita dell’intera umanità scorre giungendo alla morte, “meandro d’impatto / che non si può scansare” (È meandro d’impatto). L’idea del tempo che passa è una spina nel fianco, molto pungente. Il poeta si pone domande molto pesanti, che rimangono senza risposte: “Che c’è di concreto/ in questo arrabattarsi/ (in)vano per vivere/ se anche manne di befane/ dal cielo sono sempre/ più rare?” (Che c’è di concreto). L’immensità, l’infinito, il mistero dell’universo, la bellezza del tramonto frastornano il poeta: “Ne ho assorbito/ l’essenza/ anche se l’incedere/ di tempo inesorabile/ è assenza” (L’essenza). Il poeta crea qui grandi e pregevoli effetti musicali. Tutto ritorna a Dio, siamo gocce di un mare infinito, la colpa è uno dei mali della vita che costringe a vivere una quotidianità pervasa dall’inedia; la dea parca è sempre pronta a tagliare con indifferenza i fili della vita. La società contadina del passato, con le sue consuetudini, le sue tradizioni e la sua saggezza, è fortemente idealizzata dal poeta; la sua semplicità e la sua genuinità dovrebbero divenire modello d’ispirazione per le generazioni future.

Il poeta è consapevole delle sue radici; egli ha percorso molta strada, ha studiato, gode di una buona posizione, ma non rinnega le sue origini, anzi ne è orgoglioso. I suoi valori sono legati a quella società di mandriani e pecorai, là risiedono le sue radici: “Ma io ho scritto/ la storia di radici/ d’una civiltà agreste,/ antica come il tempo,/ ricca di uomini saggi,/ madre di ogni sapere./ Utile e giusta/ per un vivere sano/ sereno e ordinato” (...ma io ho scritto). L’eremita che muore solo in una conca diventa l’emblema dell’umana solitudine: Ognuno muore / come può / senza diletto / in strane circostanze / d’umana esistenza” (Ognuno muore). Il progresso ha portato con se l’inquinamento, distruggendo l’ecosistema, “l’uomo saggio / osserva impotente / la distruzione totale / di sano alimento vitale. / E muore sconsolato/ di vera inedia” (E muore sconsolato).

Chi potrà negare è il canto della solitudine dell’uomo: egli è solo sulla faccia della terra; il poeta sente tutta l’amarezza della solitudine che in qualche modo è costretto ad accettare per continuare a vivere. Anche E cantare è l’elogio alla solitudine, poiché solo attraverso la solitudine si può ascoltare il silenzio dell’anima “…Solo chi si isola / e si ascolta dentro / può recepire i segreti / del cuore e dell’anima / e cantare / virtù e pregi / in libri da sfogliare / nella poesia del silenzio”; il poeta mantiene vivo nel cuore il ricordo degli attrezzi contadini “…ancora intatti / nel museo del cuore / e la mente” (Come dimenticare). Il passato è ricco di rumori, colori e amori – spesso non corrisposti –, che danno pena e voglia di morire a volte, ma l’amore è una forza dirompente “L’amore / è il motore / che fa muovere il mondo. / Se dovesse mancare / morirebbe in breve / l’umana stirpe” (Se dovesse mancare). Nei ricordi del poeta tutto assume una dimensione vivida e reale; gli stazzi – spesso evocati e citati in diverse liriche – rappresentano un luogo dell’anima, simbolo di vita vera, di amore per la natura, di libertà. La natura della Gallura, con i suoi colori cangianti, la sua bellezza, le sue alture, i torrenti, i sassi, i profumi, gli animali, con la musica dei loro suoni, sono protagonisti parlanti di tutta la silloge. Di grande bellezza evocativa, musicalità e impatto emotivo è la poesia Nasce una dolcezza: “Ogni pianta di radura, / un prodigio / di natura. / Emana profumo / nello sbocciare / e attira l’ape / nel suo volare. / Da incontro di piacere / nasce una dolcezza / infinita / che sa di mistero”.

Il poeta, pur traendo ispirazione dall’atmosfera bucolica del paesaggio sardo, del quale descrive ogni dettaglio – anche il capraio, infatti, diventa una figura idealizzata paragonabile alla figura biblica di San Giovanni –, volge il suo sguardo empatico anche verso un’umanità sofferente e i tanti profughi di questo nostro tempo. Su questo versante, sono tanti e diversi i temi d’ispirazione dell’autore: la povertà, i migranti, i terremotati, la droga, l’inquinamento provocato dalle industrie e dal consumo smodato dell’uomo, le vittime dell’olocausto. Quella di Ciboddo diventa così poesia didattica, che offre pillole di saggezza e trasmette messaggi positivi; senza sapienza o libertà, la vita è difficile da vivere. L’ape, insetto laborioso fondamentale per la vita dell’umanità, è il simbolo per eccellenza di bellezza, di mistero, di prosecuzione della vita “…È il mistero della vita / che Dio non ha svelato. / L’ape impollina il fiore / che dà i frutti / necessari alla sopravvivenza / di ogni essere vivente.” (L’ape sul fiore a sottrarre il nettare). L’autore ha una venerazione per questa piccola creatura, in quanto l’ape è l’insetto più importante e più antico, la sua scomparsa rappresenterebbe la fine dell’umanità.

Tutte le poesie della silloge sono pervase da profonda fede: la vita è dura e difficile da vivere, il poeta ha molti dubbi e si interroga su tante cose a cui non sa dare risposte: forse sarebbe meglio, allora, non viverla proprio la vita, se non fosse per la fede e la speranza in Dio che, sole, ci possono salvare “Ma la fede nel Signore / ci salverà” (Si nasce e si vive).

Andar via si caratterizza indubbiamente per una struttura stilistica importante e di pregevole fattura. Il poetare di Ciboddo assume un ritmo – nei suoi versi delicati e profondi, ricchi di spiritualità ­– che scorre sull’orlo dell’esistenzialismo ­– vestito a tratti di malinconica nostalgia – e scandaglia diverse tematiche umane, ponendo in rilievo l’incapacità della società attuale di congiungersi con l’esistenza stessa: “è un vivere primitivo / che offusca la mente / ti nega la cultura, / e la poesia della vita” (La poesia della vita).

Andar via è una silloge che tocca punte di alto lirismo, politematica e polisemantica: essa, infatti, è articolata su più temi, intrecciata di più motivi. La sua ricchezza si esplica in una vasta gamma di sfumature, di temi e significati, che attraversano le corde dell’anima dell’autore e che vanno dalla sensibilità verso la Natura – la quale trasfigura l’essere in creatura – all’inquietudine interiore, alle domande esistenziali (e senza risposta), dalla tensione civile alla dimensione etica e spirituale.

La libertà metrica, con cui vengono espressi i versi delle liriche che compongono la silloge, crea una struttura continua che riproduce il fluire ininterrotto dell’immaginazione dell’autore e si configura come un procedimento attraverso cui il poeta suscita in chi legge la sensazione dell’infinito e, a volte, dell’imponderabile. In questo poetare emerge la personalità spiccatamente poetica dell’autore, specie nel modo in cui esplora e compenetra il mondo – e le vicende del mondo –, nel lirismo dell’immaginazione che diviene possibilità contro gli ostacoli della vita, un valicare il tempo, un viaggiare oltre il tempo, che ha ali per volare, che è forza e sogno, emozione espressa con immediatezza e spontaneità creativa e suggestiva. Andar via diviene così elegia di un sentimento a ritroso, dove la nostalgia si disvela come sentimento etico, in cui il trascorso non muore, ma rivive portando con sé un insegnamento etico e civile. Il silenzio del poeta è lo struggimento dei pensieri, che sopravvivono al tempo, ma è anche lo strumento, l’atteggiamento, per restare umani di fronte ai tanti rumori del mondo, “e cantare / virtù e pregi / in libri da sfogliare / nella poesia del silenzio”.

Marcella Mellea

 

 

Pasquale Ciboddo, Andar via, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 136, isbn 978-88-31497-75-6, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

 

 


mercoledì 27 aprile 2022

MARIA LUISA DANIALE TOFFANIN: "MATERNA MIA RADICE"

 













MATERNA MIA RADICE

 al nonno onorevole Sebastiano Schiavon

 

Materna mia radice

che ti stringevi dentro storia

di terra faticata dai tuoi padri

e quell’indomito spirito

d’evangelico guerriero

nel sogno d’un vivere a tutti redento

tu, per troppe lune smemorato,

ora rinasci in tessere sparse

da lui ricomposte

devoto al tuo vero.

Nel mosaico italico

in veneti eventi pulsanti

al fremito sociale

al gemito mondiale,

arditi brillano i tuoi occhi

gemme d’etica luce

fuoco d’anima accesa sempre

in offerta di sè

per il pane dell’altro più offeso.

Quasi volo il tuo attimo

incise cieli di bianchi ideali

oltre miopi orizzonti.

 

 





MARCO DEI FERRARI: "EDENICHE POLVERI DI EDDA"

 EDENICHE POLVERI DI EDDA


Tempo dissolto

su Monte Pisano

presenzia fine d’inizio

disperde polveri orfane

su profumi di scintille fiorite

marosi di vento

danzano furori

Edenico presagio coglie

l’Edda di un verso poema

vita morte catarsi ostaggio

Nulla su fogliami sparsi

preghiere di ceneri

pagine vissute nell’Isola

Leucade dei poeti sospesi

tra Diari recisi

novelle fiammelle

sapori e custodie di notte lunare

sfidano la fame cinghiali dal Monte

lampeggiano lupi… ascoltano quasi…

enunciano lucciole nuovi sentieri

gioie dolori di perché sepolti

scrigni stupefatti orizzonti sacri

nell’aria di Edda

                                                            Marco dei Ferrari

martedì 26 aprile 2022

ALBERTO RAFFAELLI: "COME PIOGGIA SOTTILE", DI ROBERTO DE LUCA

 Roberto De Luca, Come pioggia sottile, Napoli, Graus Edizioni, 2021

 

       Come nota Luca Giordano nell’“Introduzione” al romanzo di De Luca (Rocca di Papa, 1963), appare determinante la scelta di collocarlo in un “altrove”.

       Questo racconto di formazione – in cui un gruppetto di giovani, assieme ad altri co-protagonisti, cercano il sempre difficile avvio alla vita adulta – sceglie infatti uno scenario non scontato, quella Praga forse un po’ rimossa dall’atlante delle narrazioni europee degli ultimi decenni (con eccezioni, Milan Kundera in testa), ma pronta a recuperare centralità nell’immaginario coevo, farcita com’è di riferimenti artistici e culturali poco o nulla offuscati dai meccanismi di un turismo ormai globalizzato.

       Pur mantenendo un’evidente linearità narrativa, De Luca sembra mirare a un affresco esistenziale la cui originalità consiste forse nel decentramento, geografico nei confronti dell’origine della maggior parte delle sue creature ma anche rispetto a una responsabilizzazione per queste ultime sempre più difficile da accettare e attuare, nelle frenetiche dinamiche di un mondo capovolto in cui anche il dialogo con i padri è molto arduo (di “incomunicabilità tra le generazioni” parla sempre Giordano).

       Sotto la scorrevolezza della trama aleggiano – sulla scia dell’imprescindibile Kafka – un particolare rilievo dato alle azioni (far “capire qualcosa attraverso i fatti”, si dice a un certo momento) e un approccio verticale alla profondità delle cose e all’origine dei comportamenti: attitudine di cui spie possono essere dotte reminiscenze quali le madeleines – dolcetto suscitatore in Proust della memoria involontaria – o anche momenti di confronto surreale come i dialoghi del personaggio negativo Mark con i ritratti degli avi, nonché della protagonista femminile Orietta con un gatto (quest’ultimo sullo sfondo di una sfilata allegorica).

       Animano la vicenda alcuni piccoli eroi tipici dei nostri giorni spinti da un senso di irresolutezza e da un bisogno liberatorio variamente orientato: l’artista osservatore e dubbioso (Luigi), con l’amico (Patrizio) semplice ma scevro da complicazioni sovrastrutturali e dunque predisposto a una naturale amicalità, la ragazza alla ricerca di una soddisfacente emancipazione (Orietta), il trasgressore (Mark). In questo scacchiere relazionale il primo, la terza e il quarto risaltano, legati da un triangolo amoroso che ne evidenzia le rispettive pulsioni; emblematico però che solo il più modesto Patrizio coroni la propria affettività col matrimonio...

       Un senso di leggera amarezza e apparente interlocutorietà segna il termine della vicenda, insinuando però come l’impalpabile inquietudine che “come pioggia sottile” tamburella su certi frammenti uggiosi possa trovare, ancora una volta, approdo e riscatto catartico nella scrittura. E che Luigi alla fine interrompa subito il suo, di romanzo, è segno certo di un pur parziale scacco, dell’incompiutezza di un percorso. Il viaggio e l’educazione sentimentale condotta lontano da casa, in un mondo come il nostro che ha ormai banalizzato il movimento anche da un capo all’altro del pianeta, richiedono insomma ulteriore riflessione ed elaborazione. Ma – sembrano suggerire le ultime righe – ci potrà essere forse una seconda possibilità. E forse anche un sequel a questo bel libro?

ANGELA AMBROSIBNI: "I VERSI DI GABRIELLA FRENNA"

 












ANGELA AMBROSINI,

I VERSI DI GABRIELLA FRENNA: UN’ECFRASI INESAUSTA

 

in “Contributi per la Storia della Letteratura Italiana” dal secondo novecento ai giorni nostri

VOLUME IV, Terza Edizione, Guido Miano Editore, maggio 2020, pp. 190-193.

 

 

Gabriella Frenna (Messina) poetessa, critica d’arte e figlia del celebre mosaicista Michele Frenna, risiede fin dall’infanzia a Palermo. Ha pubblicato i libri di poesie: La serie dello Zodiaco nell’elaborazione musiva (2002), La rosa (2005), Generosa Natura (2008), tradotto in quattro lingue, Arcano splendore (2008), Il croco (2010), L’incontro dai mosaici alle poesie (2016), Sguardo d’amore (2018), nonché il libro di narrativa Il fascino della valle (2003).  Ha curato e pubblicato vari studi monografici su poeti e artisti mosaicisti tra cui: Orazio Tanelli, Sintesi dell’antico e del moderno nei mosaici di Michele Frenna (2002), L’Eremo Italico di Carmine Manzi (2004), La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana (2006), L’anima lirica e storica di Brandisio Andolfi (2007), L’anelito spirituale di Ernesto Papandrea (2009), Leonardo Selvaggi, Dai mosaici alla poesia (2009), La ragione e il sentimento nelle opere di Leonardo Selvaggi (2011), Mosaico di San Calogero di Naro (2012).

 

 

   Una vocazione sottile per il raccoglimento religioso, costantemente filtrato attraverso l’aspetto fenomenico e circostanziale dell’esistenza, pervade i versi di Gabriella Frenna che, in un duetto incalzante con le raffigurazioni musive del padre Michele, indaga quello che il critico Angelo Manitta felicemente definisce il “rapporto bipolare…uomo-gestualità quotidiana” (dalla presentazione alla raccolta La rosa). Senza toni di solenne vaticinio l’autrice “rivela…il suo desiderio di addentrarsi nell’essenza conoscitiva, di proiettarsi verso il mondo trascendentale e di evidenziarlo insieme con la propria visione realistica” (Guido Miano da Dizionario Autori Italiani Contemporanei, 2017) e attraverso una versificazione lineare che denota predilezione per la sequenza soggetto-verbo-complemento, scorrono riflessioni e immagini con un andamento di prosa forse inconsciamente ispirato alla struttura narrativa stessa dei mosaici del padre, di modo che “l’una scrive in poesia ciò che il padre esprime con quell’arte musiva che definirei di ‘genere’ perché rappresentative entrambe di scene di vita quotidiana, di carattere aneddotico, con fedeltà di minuta riproduzione dei particolari” (Luigi Ruggeri dalla presentazione alla raccolta Sguardo d’amore).

   Come Luciano Erba, anche la nostra interroga “l’alfabeto delle cose” in un susseguirsi di immagini e riferimenti alla natura e alla quotidianità così concreti e referenziali da prosciugare il verso, il più delle volte, da sussurrate implicazioni metaforiche. Unica eccezione: il mare. Elemento metaforico per eccellenza legato al ripetersi ciclico della natura e del fenomeno non in quanto tale, ma piuttosto nella sua sostanza extrafenomenica, il mare è, come osserva il critico Manitta, “espressione di un Nulla cosmico che riesce a contenere il Tutto” (dalla presentazione alla raccolta La rosa). Di qui la propensione dell’autrice alla concatenazione lessicale di un concetto unico: “Infinite distese marine / spazio profondo, / dimensione eterea / tra cielo e terra” (Incantevole estate) o alla circolarità strutturale di alcune liriche: vedasi ad esempio il primo verso della poesia Il mare: “Ascoltare il leggiadro rumore del mare”, annodato al verso finale “insieme al flebile rumore del mare”.  In tale ambito si colloca, ad esempio, anche la lirica Il gioco del mare (dalla raccolta citata), nella quale la meditazione spirituale va a convergere sulla parola di chiusura dell’ultimo verso, non a caso corrispondente all’aggettivo “infinito” che qui si veste anche del suo valore nominale. “Onde marine si rifrangono / con forza erosiva sull’irta scogliera. / Alti spruzzi disperdono piccole gocce / riponendo bianca schiuma / nel fragoroso, immenso mare. / Un bianco alone s’allarga / vicino alle sontuose rocce / attenuando la corsa del mare / il dirompente ondeggiare. / Tutto si placa, in trepida attesa / del gioco rumoroso del mare / della corrente che alimenta gli spruzzi / tra alte onde nel mare infinito”.

   Il tempestoso carattere visuale dei versi, sostenuto da un’aggettivazione di matrice romantica, pare stemperarsi e placarsi nel richiamo dell’immensità insito in chiusura di strofa. È questo uno stilema abbastanza frequente nella produzione della Frenna, secondo uno schema tematico in un certo senso simile a quello del genere lirico giapponese dell’haiku, genere nel quale, tuttavia, l’elemento nominale nevralgico (il cosiddetto kigo), è rigorosamente riferito a un concreto elemento della natura nella stagione cantata dal poeta. Al contrario, i versi della Frenna, incardinano, normalmente in chiusura, un lessema astratto, spesso l’unico non strettamente denotativo e non descrittivo, che si fa parola chiave, sia essa sostantivo o aggettivo, alla quale soggiace la cosmovisione implicita di quel singolo componimento: si vedano ad esempio i termini “universo”, “amore”, “creato”, “creazioni”, “perenni”, o “cuore”. Altrove campeggiano, come perno o a volte come titolo della lirica, termini specialistici strettamente correlati all’attività figurativa paterna e persino alla critica di settore sulla sua opera (“tassello”, “verdino”, “estro musivo”, “visione musiva”, “espressione musiva”, “artista creatore”, “estimatori”, “fruitore”). L’occhio della poetessa si sofferma in simbiosi emotiva non solo sul dettato narrativo dei mosaici, ma anche sulla corrispondente esegesi da altri operata, come ad esempio nella lirica Volgere lo sguardo (dalla raccolta Sguardo d’amore) dove il titolo si replica in anafora strutturale nell’elemento bimembre “Volgere lo sguardo / verso opere musive” lungo tutta l’estensione del componimento. La lirica Estimatori (dalla silloge citata) si fa portavoce in forma poetica di una vera e propria recensione sulla produzione del padre Michele: “Piccoli e grandi estimatori / delle opere musive / esprimono le emozioni / che ogni piccolo mosaico / manifesta allo sguardo / sorpreso e incantato. /…/ Un plauso si volge / all’artista creatore / all’inesauribile estro, / al suo racconto di vita, / all’espressione musiva”.

   Come può evincersi anche dalla succitata poesia, “creato” e “creatore” sono lessemi ricorrenti nelle poesie di Gabriella, a voler ribadire la spinta religiosa della manifestazione artistica e facciamo nostra in tal senso l’affermazione di Luigi Ruggeri: “In forza di questa profonda analogia tra l’atto creativo e quello di Dio è favorito l’incontro con il Creatore e la fonte dell’essere, come origine e fine della creazione” (dalla presentazione alla raccolta L’incontro dai mosaici alle poesie). Di qui la serena, mistica tensione di versi come i seguenti “I colori dei fiori / rallegrano lo sguardo /l’animo s’innalza / in armonia col creato” (La primavera dalla raccolta Arcano splendore). Da notare che anche nella prevalenza del verso breve, sovente il settenario, le liriche frenninane sembrano ancora recare l’impronta dell’haiku, laddove il microcosmo cantato non è, come negli haiku, direttamente rivolto alla natura, ma alla traduzione visiva che della natura opera Michele Frenna nei suoi mosaici. Si potrebbe individuare un rapporto, un comparatismo inesausto, nelle poesie di Gabriella, tra poesia e linguaggio visivo, una sorta di ecfrasi ora dichiarata e ora tacita, sottintesa alla contemplazione implicita delle creazioni paterne. Un testo esemplare è la lirica L’incontro affiancata all’opera del padre che reca lo stesso titolo e della quale i versi sono una perfetta, consapevole trasposizione linguistica. “Scenari marini / trasparenti e verdini / ritratti nel mosaico / col gioco gioioso / di due sommozzatori / tra squali e delfini. / Il gioco sereno / della coppia nell’acqua / salva il pensiero / dell’artista musivo…” (dalla raccolta L’incontro dai mosaici alle poesie).  Difficile è a volte stabilire il discrimine tra la visione diretta dell’opera musiva e la sua impronta mentale.

   Imperdonabile sarebbe omettere l’ampia e sentita produzione lirica in memoria della sorella Rosanna prematuramente scomparsa e alla quale è intitolato, in un gioco di parole, il volume La rosa, a lei offerto non solo fin dai versi in anteporta: “Il suo nome è inciso / in una rosa vermiglia, / il suo dolce ricordo / è impresso nel cuore” ma, ancor prima, come in una fuga di specchi, fin dall’immagine in copertina del mosaico “La Rosa” (1977) del padre Michele. Tuttavia, al di là del dolore e del rimpianto incolmabile per la perdita subita, si fa strada una concezione sapienziale della dimensione umana in virtù di una fede non ostentata ma intimamente distillata proprio per mezzo della sofferenza: “…La vita è imprevedibile / e quando meno speri / le catene si spezzano / e la buona sorte vedi. // Un brutto periodo / è finalmente passato / non tutto era nero / qualcosa ti ha lasciato”. (A Rosalia … come in un sogno). Il dolore si dirada d’improvviso e alla vista di “una terrazza fiorita /…/ un simbolo diventa / la ‘regina dei fiori’ / e un ricordo riaffiora / dal profondo del cuore” (La rosa). Di nuovo il lessema “cuore” contiene e amplifica un universo oltre il transitorio e l’effimero e facciamo eco alle parole di Leonardo Selvaggi: “… Il sentimento dei ricordi diventa vita piena, si riempie di quello che si ha in tutti i momenti dei nostri giorni” (dal saggio La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana).

 

 

Angela Ambrosini