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venerdì 23 agosto 2024

Va in scena la premiazione del prestigioso premio Mimesis



 

                                                                             Adele


                                                                             Alessi

                                                                           Brindisi
                                                               Di Ruocco Stefanini

                                                            Di Ruocco Zaramella

                                                                Domizi Pietrella




Gianpiero Stefanoni :" Grani dall'Umbria "


 

 

 

RITA

 

Per sfere alla sfera,

così per noi, ognuno

per l'altro Uno.

 

Così Rita di spalle

non arresa al visibile,

nel suo cerchio di donna,

si rende al roseto,

lo fa consueto.

 

San Gemini (Tr), Chiesa di San Giovanni Battista, 14 agosto 2024.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DUOMO

 

La geometria dei santi,

che è dell'uomo, è sulla tavola,

è nel giardino. Dall'osservato

ascoltare di ciò che non termina

la messe: Maria lo sa,

 

Maria lo aspetta

assunta ad essere, piccola goccia,

piccolo pane.

 

San Gemini (Tr), 14 agosto 2024.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHIARA

 

Resta del pulviscolo il silenzio,

l'ombra in candida luce

che divide il fiore dal corpo.

 

Piccola, breve terra

che ha attraversato

e ritrovato il suo germoglio.

 

Assisi (Pg), Chiesa di San Damiano, 16 agosto 2024

 

 

 

 

 

 

giovedì 15 agosto 2024

Giusy Frisina :" Luna Perduta "


 

                                                                POSTFAZIONE

                                                             di Jacopo Chiostri

 

Potremmo fare un gioco. Scrivere sui suoi ciottoli lavati dall’onda, quelli che conservano anche le memorie della sua esistenza, i versi, ciascun verso, di questa raccolta di Giusy Frisina, mescolarli in un elegante contenitore, rosso ‘come una borsetta di pelle lucida abbandonata su un prato dopo una notte di pioggia, a fine estate, in una folle corsa a perdifiato’, e dopo un’energica mescolata, estrarli uno ad uno e comporre una, dieci nuove poesie. Ciò sarebbe possibile in ragione di due fattori: la potenza individuale dei singoli versi e la loro coerenza non solo con ogni singolo enunciato, ma soprattutto con quello che, a chi scrive, pare il filo conduttore di questo lavoro.

Ci sono, tra le tessere che lo compongono, due di loro, dove, illuminate dalla rifrazione della luce lunare, appaiono, infatti, e in tutta evidenza, due voci, nostos e algos, ritorno a casa e dolore, le quali, legate assieme, ne formano una terza, quella che, mal compresa, abusata, bistratta, va sotto il nome di ‘nostalgia’; nostalgia nelle stelle ‘che stanno a guardare’, nel ‘tempo di una ruga’, nella ‘notte dei rimpianti’, nello ‘scorrere dei ruscelli’, nel voler credere ciecamente che, davvero, ‘domani è un altro giorno’.

Attenzione però, anche se la poetessa dedica una lirica struggente alla casa avita, il suo ‘ritorno a casa’ non è un abbandono del presente, una rinuncia, un abbandonare le armi o peggio il rifugiarsi nei confini, accomodati, ed accomodanti, del ricordo. C’è al contrario, nel suo canto, un modo di vivere la ‘nostalgia’ che diremmo di pasoliniana memoria, nostalgia cioè come conseguenza dell’accettare di perdersi, in quanto premessa indispensabile per, poi, ritrovarsi e come passaggio, anche questo indispensabile, per legare assieme i passi del nostro cammino a salire e scendere le montagne russe della coscienza.

Le ‘madeleine’ quindi non sono, qui, un sapore perduto, bensì un’esperienza, in questo caso sensoriale, acquisita, di cui servirsi per riconoscere e scegliere i nuovi gusti che incontreremo lungo strada. Valutarne la consistenza e, eticamente conditio sine qua non, chiedere a viva voce che a nessuno sia negata la propria parte.

Giusy Frisina si affaccia a una finestra per salutare quel cerchio pallido, consumato dalla responsabilità di ogni notte risvegliarsi e farsi carico del compito di sentinella delle umane debolezze: da quella finestra, guardando davanti a sé, si vedono due mari, uno metafisico e uno terreno (che profuma di salsedine), che lei sovrappone fino a renderli indistinguibili; quindi la seguiamo mentre pone i piedi nella risacca e dopo, quando chiusi gi occhi, aspetta, consapevole che quel perpetuo ‘ritorno’ ci rassicura che una speranza ancora è possibile.

Da quella stessa finestra entreranno, e verranno accolti, Pinocchio, ‘la vita parallela’, ucciso dai pregiudizi e dalla paura, Giovanna d’Arco, simbolo di chi perde una battaglia ma ancora non si arrende, e infine, accolto con tutto l’amore di cui è capace, un piccolo essere, venuto, forse... ma no: venuto per certo, a ricordare che ‘la vita è bella’.

Si può avere nostalgia delle cose mai cominciate, come pure, paradossalmente, dei luoghi che già abitiamo e il genio è indifferentemente chi si allontana come colui che rimane, così come, altrettanto, credere o non credere possono essere ‘la stessa cosa’, come leggiamo in ‘Mi manchi’, struggente colloquio col padre, la figura che, a ben guardare, è presente in ciascuna delle infinitesimali molecole della filigrana di ciascuna di queste pagine; il padre che difficilmente vorrà tornare a vedere un tramonto con la figlia perché ‘l'Eterno, che aspettava curioso ormai da tanto tempo, pare sia molto più bello del sole che va giù’.

Il ricordo però non si arrende, ed è sola consolazione per la poetessa con fermezza credere che anche la perdita ‘si capovolgerà nel buco bianco della resurrezione’.

È lì che il nostro cammino si dirige? Difficile a dirsi. Certo è che prima, transitando dalla porta di quello che siamo, resta tanto da fare; per tutti i bambini di tutto il mondo. Per loro e perché, in fondo, solo questa è la vera, possibile, restituzione di luoghi e di persone. 

 

lunedì 12 agosto 2024

Comunicato stampa XXVII Premio Nazionale Mimesis di poesia

 

                                           
 

 

 

“Millecentoquarantacinque poesie, ventiquattro poeti vincitori per le sezioni edita e inedita, un vincitore assoluto per il Premio Provincia di Latina “Nicola Maggiarra” e quattro menzioni sono i numeri magici del XXVII Premio Nazionale Mimesis di poesia 2024. Venerdì 23 agosto alle ore 21:00 si terrà la premiazione presso l’area eventi del Museo del Brigantaggio a Itri. La serata di gala prevede l’accoglienza dei poeti alle ore 20:00 nella sala museale e in seguito la grande kermesse all’aperto. In caso di pioggia l’evento si terrà interamente nella sala.
La dott.ssa Patrizia Stefanelli, presidente dell’Associazione omonima e direttrice artistica del premio dichiara: “I risultati straordinari di partecipazione al Premio sono frutto di un lavoro di equipe, ma soprattutto di anni di comprovata serietà. La giuria, che fino ad oggi è cambiata di anno in anno, includendo sempre i poeti primi classificati delle precedenti edizioni, ha lavorato con grande dedizione, pro bono, valutando le più belle penne provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia. Le opere vincitrici che saranno ascoltate sono l’eco di un realismo tangibile e crudo insieme a un viaggio odeporico dentro e intorno la nostra umanità.”

La Giuria tecnica del Premio è composta da

Presidente Nazario Pardini (ex ordinario di Lingua e Letteratura Italiana, poeta, saggista, critico letterario, blogger), Vice pres. Patrizia Stefanelli, Alessandra Corbetta, Vittorio Di Ruocco, Gianfranco Domizi, Alfredo Panetta. Segretario: Giovanni Martone

Le opere vincitrici andranno a comporre l’antologia che avrà per titolo La tua terra ha mille rose da sbocciare tratto da una poesia di Nicola Maggiarra, presidente dell’Associazione fino alla sua scomparsa accaduta un anno fa.

L’omaggio a un poeta cantautore sarà per Franco Califano interpretato dalla grande voce di Frank Onorati.  A leggere le liriche: Giuseppe Lediani, Adele Romanelli, Patrizia Stefanelli. Condurrà la serata Gaetano Orticelli con Orazio Ruggieri; insieme a Orazio La Rocca compongono la Giuria dei giornalisti che assegnerà il Premio Speciale Stampa.  

Grazie alla collaborazione dell’Amministrazione del Comune di Itri, dei giornalisti amici dell’Associazione, degli sponsor Addessi Corporate e Wikiamo, della PRO LOCO di Itri, il Premio Nazionale Mimesis di poesia si conferma tra i più notevoli in Italia e così i Poeti vincitori.

Vincitori:

 

POESIE VINCITRICI SEZIONE A (inedita) su 721 opere

1ᵃ classificata Un perché di Mario Manfio

2ᵃ classificata La pace in Palestina di Paolo Emilio Urbanetti

3ᵃ classificata Colpevoli verità di Michele Zaramella

4ᵃ classificata Io padre, mio padre di Michelangelo Innocenti

5ᵃ classificata L’urtimo appuntamento di Luciano Gentiletti 

6ᵃ classificata La testa del drago di Luisa Di Francesco

7ᵃ classificata Girando per la città con la febbre addosso di Davide Borowski 

8ᵃ classificata Descrizione per un non vedente di Giovanni Galeone

9ᵃ classificata Ëndërr pakuptìme- Sogno assurdo di Giovanni Troiano

10ᵃ classificata La scadenza di Antonio Alessi

11ᵃ classificata Sarà servito a qualcosa di Angela Caccia

12ᵃ classificata Ti spiavo le labbra di Elvira Bianchi

POESIE VINCITRICI SEZIONE B (edita) su 424 opere

1ᵃ classificata Residuati Bellici di Paolo Stefanini

2ᵃ classificata Oltre di Nunzio Buono

3ᵃ classificata Amebeo per Euridice di Vito Sorrenti

4ᵃ classificata Cronache di ASL di Francesco Paolo Intini

5ᵃ classificata Dove vai Luisa di sera di Alessia Bettin

5ᵃ classificata ex aequo Una bomboniera di Lorenzo Piccirillo

7ᵃ classificata Autunno di Andrea Tavernati

8ᵃ classificata Il tempo di Erebo di Luisa Di Francesco

9ᵃ classificata Esistenze di Danilo Francescano

9ᵃ classificata ex aequo Sotte u tacche du stevole di Vincenzo Mastropirro

11ᵃ classificata Con il mare tra le mani di Stefania Siani

12ᵃ classificata Non ti volevo salutare così di Elisabetta Biondi Della Sdriscia

12ᵃ classificata ex aequo E sò arimasto llà di Ernesto Pietrella


PREMIO “NICOLA MAGGIARRA” (Autori residenti in Provincia di Latina)

A Vincenzo Screti per l’opera La poesia di Caproni

MENZIONI DI MERITO

Lo specchio di Giovanni Aniello

Nel grido delle cose morte di Alessandro Izzi

MENZIONI D’ONORE

Usami di Edvige Gioia

Speranza occulta di Raffaele Vecchio

Associazione Culturale Teatrale Mimesis 

Poesia prima classificata ( Poesie edite )                                                                                                                                                                              Paolo Stefanini

 

 

Residuati bellici

 

Il carro “T...”

 

Colpito dove il carapace

si piega e si fa più sottile

è saltato in una vampa

la possente torretta riversa più in là.

Per giorni ha continuato a bruciare

poi una pioggia acre

ora è bruno di ruggine

e sprofondato un po' nel fango.

Erano in quattro dentro

non è rimasto nulla.

Il drone “Unman. a.v.”

 

Da solo sapeva volare

e lèggere il terreno come mappa

il malvagio uccello kamikaze

prezioso come il palazzo abbattuto

con la gente dentro.

Ora dilaniato espone

incredibili interiora

d'acciaio e compositi

cablate da fili variopinti:

introvabili il cuore

la mente artificiale

la memoria del remoto mandante.

Sobbalza l'ala spezzata

ai colpi della demolizione

che ne compatta i resti.

 

La trincea smobilitata

 

Ancora la trincea

come quella dei nonni

polvere e fango

secondo la stagione.

Si teme una trappola mortale

fra i bòssoli vuoti

che suonano al passo

come un carillon fuori luogo.

Il fronte si è spostato

non c'è anima viva

fra le casse sventrate e i rifiuti.

Sembra l'istallazione di un museo di guerra

mancano i manichini

mancano i rumori sottofondo

un tanfo inconfondibile persiste.

 

Il fucile “M...”

 

Non è il vecchio '91

col suo tapum...tapum...

questo raffica a filastrocca.

Il fucile moderno

è compatto, leggero

lo può usare anche un bambino.

Ha occhi buoni e mira

il bambino

è coraggioso - si dice -

(o del tutto ignaro, comunque)

... è un piccolo cecchino

celato fra le rovine

difficile stanarlo.

 

La vecchia mitraglia

 

Emblema è ormai di certi luoghi

la vecchia mitraglia

saldata a nuova vita sul cassone

del pick up Toyota,

sagittario meccanico su gomma.

 

Le guerre a bassa intensità

le guerre per conto terzi

s'inventano armi pezzenti

                  niente insegne e per divise stracci.

 

E' tutto così labile qui

amici nemici comandanti

come i confini:

un attimo, un passo falso

quello fra vita e morte. 

 

 I detriti sparsi

 

Uomini e cose come detriti

tutto si consuma 

perisce a vista d'occhio 

un tempo fu vita, lavoro, risorse.

 

La quercia antica

è stata abbattuta con la dinamite

c'era forse una spia ingegnosa

fra i passeri e le fronde.

 

E' stata lunga la battaglia

su questi campi:

nella zolla ormai

più che terra buona

è il piombo.

Se ancora tornerà il seminatore

che pane mieterà domani?


 

Poesia seconda classificata                                                                           Nunzio Buono

 

Oltre

 

Lo sguardo è a distendersi

oltre le volte l’eco delle cattedrali respirate.

 

Rimuovere la fine dalla fine

fare tornare a vivere le mani sugli angeli affrescati, scolpiti

nel cammino del marmo.

 

Dare un destino

al silenzio delle parole, voce al vello

nella sinuosità delle forme.

 

Ridare lo spazio all’aria

togliere la sosta al peso della polvere

sottrarre ogni distanza

e abitargli addosso un’infinità di nomi.

 

Cancellare, riscrivere e guardare

quel lui che va e il lui che resta, oltre

l’inettitudine degli uomini.


 

Poesia terza classificata                                                                           Vito Sorrenti

 

 

Amebeo per Euridice

 

 

Ghermita

da gelida unghiata

giace Euridice sulla rosa

del suo sangue aggrumato      E non ha requie Orfeo

e vaga per le vie

ebbro di strazio

e di delirio atroce                  

E le corde di liuto

del suo cuore scucito

grondano note

di dolente velluto                   O sole dei giorni lieti

o luce della mia vita

quale gioia, quale vita

senza te, Euridice?                 Euridice… Euridice… Euridice…

Ripete l’eco fra lingue di fuoco

e sinistri boati

Ma fra le pietre

degli insanguinati edifici

solo orde di lupi

si aggirano armati                   E il pianto accorato

dell’anima arata

s’avvita nel vuoto

di sventrate pareti     

E lacrima echi

di vetroso supplizio   

sulla gelida brace

dell’amore perduto                 A che la voce, a che la cetra

senza le note della mia musa

senza la grazia della mia rosa

senza te, Euridice?                 Euridice…Euridice… Euridice…

                                                                                              Risuona l’eco fra i dirupi

dell’aspra ferocia

Ma spenta è ogni luce

e misericordia tace

fra gl’infuocati detriti

            delle case distrutte                 E desolato rintocca

                                                           per le strade deserte

                                   l’amaro singulto

del cuore trafitto

E attrista le querce     

e scuote le rocce

ma non ridesta

l’assorta Euridice                   O cielo stellato, o primavera fiorita

a che la vita, a che la luce, se l’amata

Euridice giace inerte e raccolta

nel suo sonno di morta           Morta…Morta…Morta…

                                                                                  Lacrima l’eco fra le case divelte

                                                                                  col mesto rintocco dell’acqua che goccia.


 

Poesia quarta classificata                                                               Francesco Paolo Intini

 

 

Cronache di ASL

 

 

Una punta di colesterolo è stata precisa

a fissarsi nella coronaria. Millimetrica.

 

Cinghiali sulla statale.

Lucertole su poltrone improvvisate.

 

Una signora lamenta un parto del ‘54.

Maria scolpita in un ulivo.

 

Anche i nervi si sono seccati. La memoria

ha un corto su un piede trafitto.

 

Una ragazza copre un buco nel petto.

Un’altra la rincuora del bambino.

 

L’ulivo non capisce. Basterebbe

sussurrare a un nervo vuoto.

 

Si è tra chiodi in una porta.

La punta che affonda non sente il male.

 

Il legno invece riempie il nulla.

Nemmeno sa del cigolio.


 

Poesia quinta classificata                                                                             Alessia Bettin

 

 

Dove vai, Luisa, di sera

rimani a casa a cucinare

i tuoi involtini di stelle

non li supera nessuno

 

nel tuo cuore crescono talee
e germogli si mescolano al rimpianto

è sbagliato lasciare un lavoro sicuro, Luisa

di martedì

ci sono scorpioni che risalgono

le tubature a notte fonda

soldi che vorresti

per i libri il mascara

l’abbonamento a netflix

 

lo so che hai bisogno di tempo

e pieno sole

per scrivere la vita che accade

e non accade

te lo ripetono i rospi

nascosti dietro la porta,

hanno ragione

 

osservi giardini animali

il loro istinto a cercare

ruspare la terra

senza tregua girovagare

tu sei come loro

ma non c'è stato abbastanza tempo

e coraggio

 

ogni sera il camino della trattoria fuma

cuoce carne di puledro

la scia si allunga nel cielo nero

la strada ha un richiamo blu led

vorresti andare anche tu lassù

con le anime dei piccoli cavalli

ma il bambino la zona rossa

ti richiamano all’ordine

signorina, dove credi di andare

 

Luisa, questa strada spianata

te la devi riprendere

le tue articolazioni sollevano i pianeti

tieni il mondo sulle vertebre cervicali

 

non più timorosa

butta al ferrovecchio questa montagna di lamiera

pali ruggine cancelli un furgone

le domande che ti aspettano.

 


 

Poesia quinta classificata ex aequo                                                       Lorenzo Piccirillo

 

Una bomboniera

 

 

C’era sempre il sole ma pioveva

è sempre esistito il Cristo che lo mandava

a piene mani il futuro bene o male che fosse

in un disegno col sapore di «Creato»

Così sentenziò poche ore prima

il dottore costrinse al battito il cuore

poi scosse il capo sconfitto

sentenziando “non molto tempo dopo”

la fine del tuo respiro

Taciturno con la sciarpa di cammello

per arginare il sudore pugnalato al cuore

dall’inverno che ancora non muore

La giara di cristallo la zuppiera di creta

le tazze vestite di oro zecchino

la sfera dell’anima trafitta dalla pupilla

covo ostile negli sguardi dei parenti

«Perde sangue dal petto la mente»

ripensando ai due filari di vitigni

mentre estirpi l’acerrima gramigna

avvolta alla radice della quercia amica

ormai anche il suo di spettro è scomparso

Rimane il nulla del nostro «vino»

al sapore di zolfo depurante

quello giallo in polvere della tua

forse da domani della mia di vita

Intanto soffiando col mantice della memoria

pinzando gli acini acerbi della ragione

si sporcheranno i grappoli del Tempo

e ne uscirà solo del fumo

                                                 [«Nero»]


Poesia settima classificata                                                                 Andrea Tavernati

 

Autunno

(Haiku)

 

L’ultima foglia

da vent’anni la stessa.

Un po’ più gialla.


 

 

Poesia ottava classificata                                           Luisa Di Francesco

 

 

Il tempo di Erebo

 

Era il tempo di Erebo

del silenzio e dell’urlo

dell’Erinni nel buio più trafitto

del parodo in spasimo finto

della lamentela ferina

di un arto amputato

dell’imminente che bussa

             -contro un muro:

gelida, sprezzante e delusa

la mischia tra luce e lutto.

 

Sopravviene dal largo

l’impietramento del colombario

vicende di solitudine

deserte puranco di speranza

pellicole mute di esistenza

nell’oltranza dei non colori.

Stravulsa identità vapora nel sopore

ondeggia al candore stupefatto

che piomba a raggi ritti e stanchi:

siamo i figli dell’arroganza ingiusta

del temporalesco passare a oscurità.

Sentieri appena vivi su cui figgere

                                   lo sguardo.

Forse rivivrà quella passione di padre

dietro quel velo di ulivi

negli angoli tiepidi e santi.

Sarà il tempo della pietà

e del dolore, temprato di verità.

 

 


 

Poesia nona classificata                                                                         Danilo Francescano

 

Esistenze

 

Nella dicotomia arcana di luce

e d’oscuro che tutto in sé ravvolge,

ci trascina un pendoleggiare eterno,

prepotente, tiranno. 

 Condiscente,

ché pure è nostra l’esistenza. È nostra.

 

Battito a battito lenisce l’anima

il chioccolìo sopito di un ruscello

o il mite imporporarsi del tramonto,

e ci solleva su, nell’infinito.

E nostro è quel che c’incespica dentro,

un gattino che implora una carezza,

il risuonare di una voce amica,

ogni piccolo palpito d’amore.

Anche il dolore ci appartiene, e il pianto,

e le scaglie dei sogni sfrantumati,

umili tracce in un’immensa scena

dipinta da ogn’istante nel suo andare.


 

Poesia nona classificata ex aequo                                                     Vincenzo Mastropirro

 

 

Sotte u tacche du stevole (dialetto pugliese)

 

Ce me sbattene cume nu puolpe

saupe a nu scoglie de more

u core s'arrizze e maine sanghe

 

sanghe russe, sanghe vèive

sanghe de zappatiure, sanghe de marenore

 

sanghe ca u sanghe, u omme scettote addavère

pe' sendisse dèisce po' ca nan si bbune a nudde

ca stè lendone da stu munne

nu munne 'ncartote de suolde

nu munne ca te desprìézze.

 

Nan è ad-acchessèje,

omme note dò e ddò ne stome

almène èje stoche dò

sotte u tacche du stevole

 

fisse, chiandote 'ndìérre,

sèmbe pruònde ad allenguò radèisce

u cchjù affunne possibele.


 

 

 

 

Sotto il tacco dello stivale (traduzione)

 

Se mi sbattono come un polpo

su uno scoglio di mare

il cuore si arriccia e butta sangue

 

sangue rosso, sangue vivo

sangue di contadini, sangue di marinai

 

sangue che il sangue, l'abbiamo buttato davvero

per sentirsi dire poi che non sei buono a niente

che sei lontano da questo mondo

un mondo incartato di soldi

un mondo che ti disprezza.

 

Non è cosi,

siamo nati qui e qui ci stiamo

almeno io sto qui

sotto il tacco dello stivale

 

fisso, piantato a terra,

sempre pronto ad allungare radici

il più profondo possibile.


 


Poesia undicesima classificata                                                                     Stefania Siani

 

 

Con il mare tra le mani

 

 

Schermirò la luce

e allontanerò la pioggia

dai vetri frantumati

in mille specchi.

Intonerò nenie

e canterò canzoni

che accompagnino le sere silenziose.

E quando i tuoi passi

non ti condurranno più al mare,

raccoglierò in un pugno

sabbia e sale

e ti porterò tra le mani

un po’ di azzurro e un po’ di mare

da mostrarti nei giorni d’acciaio.

Ritornerò alla sorgente

dove tutto si è mosso

e un piccolo giardino verdeggiante,

accoglierà il vento

che condurrà le tue ceneri stanche.

E ritornerò a cercarti, Padre,

nelle stanze del passato,

con l’orecchio attento

a cogliere il tuo canto.


 

Poesia dodicesima classificata                                              Elisabetta Biondi Della Sdriscia

 

 

Non ti volevo salutare così

                                 Omaggio a Pier Paolo Pasolini

 

Una pozzanghera cupa,

senza cielo, dopo l’abbraccio

che non può placare l’infinita

fame di corpi senza anima, la follia

di carpire il segreto di una vitalità

indifferente ai grandi temi della storia.

 

Non ti volevo salutare così,       

imbrattato dal fango della vita,  

senza un’ultima parola di congedo:     

sei di nuovo impietrita sul Calvario,

per questo figlio che è nato sulla croce.

 

Stringimi forte la mano nell’addio,

fammi sentire chiaro il tuo perdono,

nella lingua nostra dolce di Casarsa:                  

rosada mi dicevi e per le tue parole   

tremava in me dolcezza di poesia!

 

Fa freddo, sono stanco, mi allontano

per sempre dal tuo amore troppo alto

ma necessario a me come la vita che

attingevo a mani piene dentro le borgate.

 

Mi ricongiungo, madre, al sanguinoso

sonno di Guido tuo, non più solo, adesso,

nella pace interminabile dei morti: anche

lui sa che no è aga pì frescia del tuo amore.

 

*rosada: dialetto friulano, trad. rugiada

no è aga pì frescia del tuo amore: dialetto friulano, trad. non c’è acqua più fresca


 

Poesia dodicesima classificata ex aequo                                                 Ernesto Pietrella

 

     

 E sò arimasto llà (sonetto in vernacolo romanesco) 

 

 

 Er tempo passa e sò arimasto llà!

 passasse puro indifferentemente,

 tanto chi me conosce ce lo sa

che sò ‘n apostrofo tra core e mente.

 

Er tempo passa e te stai sempre qua

come quarmente fussi ner presente,

tramente che me stavi a rimirà

e soridevi senza dimme gnente.

 

E drento me ce porto quer soriso

che me facesti rannicchiata ar braccio,

tramente t’arubbava er Paradiso.

 

Er tempo passa e lassalo passà!

Io sò arimasto drento a quell’abbraccio,

da quer Settembre de tant’anni fa!


 

E sono rimasto là (traduzione)

 

 Il tempo passa e sono rimasto là!

passasse pure indifferentemente,

chi me conosce tanto ce lo sà

che sono un apostrofo tra il cuore e la mente.

 

Il tempo passa ma tu sei sempre qua!

come qualmente fossi nel presente,

nel mentre che mi stavi a rimirare

e sorridevi senza dirmi niente.

 

E adesso, quanto mi manca quel sorriso

che mi facesti rannicchiata al braccio,

mentre ti rubava il Paradiso.

 

Il tempo passa e lascialo passare!

Io sono rimasto dentro a quell’abbraccio,

da quel Settembre di tanti anni fa!

 

Poesia prima classificata   ( Poesie inedite )                                                                                                                                                      Mario Manfio

 

Un perché... (dialetto triestino)

 

No xe la prima volta che ghe penso

e che me vien de domandarGhe a Dio

perchè me xe sucesso tanto spesso

de farme qualche sogno (e qualche conto)

e che po tuto va a finir in gnente.

Go fato anca un esame de cossienza

e me par che, se go 'vudo una colpa,

xe stà solo de iluderme, sognar,

forsi zercar de butar sora 'l piato

dela balanza quel che 'L me ga dado...

No go mai zogà sporco, no go fato

gnente per cior el posto de un altro,

no me son mai vantado dele robe

che gavevo o savevo e go visto

tuti quanti i difeti e le mancanze...

Perchè alora Lu' El me ga fato

quei che go sempre mi considerado

come Sui regali: 'sta mia vose,

el saver nele man tignir matite

e penei e le steche de scultura,

quel fià de inteligenza che ga fato

in modo che podessi insegnar...?

I "regali" che Dio ne fa (o la Sorte)

i xe spesso pagadi (e anca cari)

cole fadighe che no ga compenso,

cole speranze che le vien deluse,

col veder altri che te passa oltra

(e ti te sa che più te val de lori),

col strussiar per gaver solo quel poco

che te permeti de tirar avanti

senza più nè speranze, nè ilusioni!


 


Un perché… (traduzione)

 

                                              

 Non è la prima volta che ci penso

e che mi viene da chiedere a Dio

perché mi sia capitato così spesso

di farmi qualche sogno (e qualche conto)

e che poi tutto vada a finire in niente.

Ho fatto un esame di coscienza

e mi pare che, se ho avuto una colpa,

è stata solo quella di illudermi, di sognare,

forse di cercare di buttare sul piatto

della bilancia quello che Egli m'ha dato...   

Non ho mai giocato sporco, non ho fatto

nulla per prendere il posto di un altro,

non mi sono mai vantato delle cose

che avevo o sapevo e ho visto tutti i difetti e le mancanze... 

Perché allora Egli mi ha fatto

quelli che ho sempre considerato

come Suoi regali: questa mia voce,

il saper tener in mano matite

e pennelli e stecche da scultura,

quel po' d'intelligenza che m'ha permesso d'insegnare…? 

I "doni" che Dio ci fa (o la Sorte)

spesso vengono pagati (e anche cari)

con le fatiche che non hanno compenso,

con le speranze che vengono deluse,

col vedere altri che ti superano

(e tu sai di valere più di loro),

col penare per aver solo quel poco

che ti permetta di tirar avanti,

senza più né speranze, né illusioni!  

 

.

 


 


Poesia seconda classificata                                           Paolo Emilio Urbanetti                                                                

La pace in Palestina (dialetto romanesco)

 

Ner vicoletto dietro casa mia

ce sta Abdullà, siriano e verduraro,

noi pe scherzà je dimo “er patataro”

e lui ce lassa dì, nun se la pia.

 

Davanti cià Giuditta “la giudìa”

co su’ marito Arònne, ch’è fornaro...

fa un pane bono bono e manco è caro,

ce piace... cià ‘n sapore de famìa.

 

Giuditta si je serve un po’ de frutta

lei se la compra sempre da Abdullà

«Scialòmme amico mio, come te butta?»

 

E lui: «Bene Giudì... voi ‘na susina?»

Che bello si ‘sti dua stassero a fà

li patti pe fà pace in Palestina.

  


                                                                                                    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pace in Palestina (traduzione)

 

 

Nel vicoletto dietro casa mia

ci sta Abdullà, siriano e verdurario,

noi per scherzar gli diciamo “il patataio”

e lui ci lascia dir, non se la piglia.

 

Davanti ha Giuditta “la giudea”,

con suo marito Arònne, ch’è fornaio...

fa un pane buono buono e non è caro,

ci piace... ha un sapore di famiglia.

 

Giuditta se le serve un po’ di frutta

lei se la compra sempre da Abdullà

«Shalòm amico mio, come ti butta?»

 

E lui: «Bene Giudì... vuoi una susina?»

Che bello se questi due stessero a far

i patti per far pace in Palestina.


 

 

Terza classificata                                                                                          Michele Zamarella

 

Colpevoli verità

29 luglio 2022

 

Inascoltato cuore

così espanso all’altrui attenzione

s’ammanta di fascino

perverso a volte

mai più sarcastico

nel raccontar la favola dell’amore.

Voi credete ch’io sia

così luminoso in volto

e sorridente

e figlio di mia madre la bellissima

e di mio padre il buon uomo

e pur prendete a verità

le mie idiozie

insistenti e zuccherose.

Il passo altero

sempre avanti a questa folla

rumorosa di fastidi e celie

maleodorante

infida e sempre all’incasso

di favori melliflui

e di comode convenienze.

Voi credete ch’io sia o sappia o possa intendere

ciò che più vi fa star bene

e ch’io sia così bravo e forbito

nello studio delle vostre piccole menti

imberbi di conoscenze

ma così ricche di facezie misere.

Sì io so

io conosco

io racconto e incanto

su tutto invento ciò che in me

non ha mai trovato albergo

ma non saprete mai

quanto io sia colpevole.

Dentro a quest’animo bastardo

non c’è mai stata una verità innocente.


Quarta classificata                                                                            Michelangelo Innocenti

 


Io padre, mio padre

 

 

“Sei una delusione papà” dice

sottovoce, il piccoletto mio

ora che si è fatto grande

 

Le stesse parole dissi a mio padre

 

Ho odiato mio padre

Avrei ucciso mio padre

 

Ricordo quando perse la testa

lo stavano guardando tutti

i compagni, la maestra

schiaffi e grida e pioveva

e ridevano, pioveva

e ridevano di me

e ridevano di mio padre

 

Ricordo anche di cento notti

Mille per farmi dormire

i suoi occhi e le tenebre

la stanchezza dei giorni e

un’ora, due ore, tre ore

la paura del buio

la sua mano nel sonno

 

Sapeva sempre quando mi addormentavo

Non so come, lo sapeva

Poi il primo tradimento di mille

le lacrime di mia madre, la depressione

l’ospedale quando non voleva vivere

io e lei, senza mio padre

Aveva ragione lui, diceva

Una sera l’aspettai fuori di casa

Volevo tagliarli la testa col coltello da cucina

ma rientrò prima mia madre

 

Perché ho odiato mio padre

Io avrei ucciso mio padre

 

Non mi scordo quando disse “non è buono a niente”

Ridevano ma non pioveva

Io gelavo. L’odiavo. L’avrei ucciso mio padre

 

Non mi scordo quando mi dissero “è fiero, è fiero”

lo disse anche a me con una scusa e un abbraccio

il calore della sua bocca sulla mia spalla destra

resta.

resta mio padre

 

Nei chilometri, avanti e indietro, per me

Nel freddo, nelle mattine plastificate

Nella frustrazione dei giorni

mio padre

 

Certo, resta la cattiveria

gli ultimi giorni di vita

la malattia, rinfacciata ai figli

le dottoresse a cui ammiccava

la povera mamma, dietro stanca, stanca.

 

“Non ti ho mai amata”

Le lacrime di mia madre.

“Non ti ho mai amata”

 

Poi crepò, c’ero quel giorno

non lo scordo l’occhio sinistro

ancora aperto, l’ultimo sguardo tremendo

Tremendo. Tremavo.

 

Mi chiamò al giaciglio

Piangevo

“Vi amo” sottovoce

 

“Come?”

“Ho sbagliato” sottovoce

Come? Non rispose

Morì in silenzio

 

Non l’ho mai detto

Fu l’unico momento in cui l’avrei voluto indietro

“Sei una delusione papà”

Sottovoce, il piccoletto mio

ora che si è fatto grande

Mi odia. Ucciderebbe suo padre.

Il mio piccoletto, ucciderebbe suo padre.


 



Poesia quinta classificata                                                                  Luciano Gentiletti

 

L’urtimo appuntamento (dialetto romanesco)

(L’omicidio di Giulia Cecchettin)

                                  

Puro ‘sta vorta s’aripete er rito         

d’accompagnà ‘na bara tra li fiori,                           

donne umijate… donne fatte fori                 

dall’amico fidato o dar marito.                     

 

Quanti silenzi pe coprì st’orori

avemo sopportato e diggerito,

quante violenze senza smove un dito,

quante coscenze sorde a li dolori.                 

 

Fiori a li muri pe la compassione,

tombe de sogni pe la libbertà,                                  

lutti da piagne senza ‘na raggione.

 

C’è n’artra donna ne la “collezzione”

de st’ale che voleveno volà:

n’artra farfalla sotto a ‘no spillone.


 

L’ultimo appuntamento (traduzione)

(L’omicidio di Giulia Cecchettin)

 

Anche questa volta si ripete il rito

di accompagnare una bara tra i fiori,

donne umiliate… donne uccise

da un amico fidato o dal compagno di vita.

Quante volte con il silenzio abbiamo sopportato

quasi assuefatti a queste tragedie,

quante violenze senza protestare,

quante coscienze sorde ad ogni dolore.

Fiori appoggiati al muro per la compassione

sono le tombe dei sogni per la libertà,

lutti che potrebbero e dovrebbero essere evitati.

Un’altra donna è entrata nella “collezione”

di ali che volevano volare:

Un’altra farfalla infilzata da uno spillone.


 

Poesia sesta classificata                                                  Luisa Di Francesco                         

 

 

 

La testa del drago (Alzheimer)

 

Piove sempre a dirotto

nell’effervescenza della follia

dove ogni attimo svanisce

                 pure lo stupore.

I lemuri ti vengono a molestare

in vivi barbagli repentini:

è una scatola vuota la mente

vorrei liberartene senza ferite

sembri cadere nelle fenditure

                            aperte da te

nella notte che non vede nulla.

 

La testa di drago s’innalza

stai ferma a pochi passi

e vorrei essere terra

che accoglie materna

l’aratro che la squarcia

e il bacio s’asciuga

          sulla tua guancia.

 

E mi sorridi, nella tua natura diversa

è tenebra liquida il banco di sale.

Non esiste miracolo, pur nel rimorso

nell’ora in cui la tua nave doveva salpare.


 

Poesia settima classificata                                                                            Davide Borowski

 

 

Girando per la città con la febbre addosso

 

Dopo queste ore insonni, città, in te non mi oriento.

Ho sudato e tossito, mai in pace - credo sia stata

la febbre, che mi ha preso e tenuto per suo

più che una donna amata d'un amore di cui mi pento.

 

Sembra un luogo straniero, eppure ci son nato.

Mi par che la gente, camminando in strada, mi guardi

come ubriaco che s'attardi, nemico dello stato

e non so dire s'abbian torto o se sia vero.

 

Dopo una notte di febbre, città, in te ahimè mi perdo.

Dovevo mettermi in mutua, altro che andare in ufficio.

In strada la gente mi scruta e accusa con lo sguardo:

dì, sarò vittima di maleficio? Di certo sto in ritardo.


 

Poesia ottava classificata                                                       Giovanni Galeone

 

Descrizione per un non vedente

 

Gli alberi, le panchine, i viali perimetrali

dell’ampio giardino pubblico nel quale

consumammo infinite suole e discussioni.

 

Per un lustro la via delle querce verso

l’affollata stazione la percorremmo

ogni giorno per curare la nostra cognizione.

 

Le partenze mattutine tra vagoni vaporosi,

posti liberi legnosi tra ripassi di fisica

e accesi diverbi su governo e sindacati.

 

L’ombra degli alberi è rimasta identica

sono cresciute i giochi e le panchine

il giardino è dei pensionati il pomeriggio,

degli adolescenti la sera, dei pusher la notte.

 

Triste e vuota la stazione, sparuti treni,

neanche un ferroviere per frettolosi viaggiatori,

solo la campanellina continua a suonare

indelebile madeleine di ciò che eravamo stati.


 

Poesia nona classificata                                                                 Giovanni Troiano

 

Ëndërr pakuptìme (lingua Arbërèshe)

-Kangjèl të rronìs pa rimë-

 

 

Vùxhën e Fjàlës çë nd’jètët më sùall       

së njoh e së dì pazëmërvetë kòqezë

çë màsjën mòtin nùmërin edhè të ngjìrat.

Edhè padrìtë sepsè shkon rròjtja ime

 

më fjandàsën mùa,  çë bënj shërbìse

të mbràzta: mjègulla çë rrahadhèrë ven,

të shtìjtura ka àiri tek mòsnjë port

ku së lìdhën me tërkùza sigurìmesh.

 

Tjèrvet i glàrë dhasi një pund llanèti,

drèdhëz ngatarrènj e vjèrshi ndë fùndët

i vjèrrë qindròn ka kënga pafërnùarë.

 

Kjò jètë  ë’ nj’ëndërr hjèshme pakuptìme,

e tek ajò gjìthë nà do të zgjòhmi të vdèkur:

po kushedì nd’i vdèkuri ëndrrën të ngjàllët?


 

Sogno assurdo (traduzione)

-Sonetto esistenziale senza rima-

 

La voce del Verbo che alla vita mi trasse   

ignoro e degli inesorabili granelli

nella clessidra il numero e i colori.

Oscuro il fine della mia esistenza

 

resta a me stesso, arbitro di azioni

inconsistenti: nuvole vaganti,

che veleggiano verso nessun porto

senza sperare ormeggi di certezze.

 

Simile ad altri come un punto a maglia

intreccio trame e l’ultima cesura

penzolerà dall’incompiuto canto.

 

Stupendo sogno assurdo è questa vita,

da cui ci sveglieremo tutti morti:

ma sogna il morto la resurrezione?


 

Poesia decima classificata                                                          Antonio Alessi

 

 

La scadenza (dialetto romanesco)

 

“Da consumarsi preferibilmente 

entro la data sulla confezione.”

Si, putacaso, disgrazziatamente, 

nun leggi o nun ce fai troppa attenzione,

 

te tocca buttà tutto, come gnente. 

Che poi, a penzacce bene, ‘sta quistione

è p’er magnà ma vale puramente

p’er modo de campà de le perzone.

 

Presesempio: er latte, quanno ch'è scaduto,

lo devi da buttà, ch'è ‘na schifenza, 

e te ce sformi, si nun l'hai bevuto;

 

figurete un po te pe l’esistenza,

si l’hai sciupata senza avé vissuto,

quanto te ce pò rode, a la scadenza.


 

La scadenza (traduzione)

 

“Da consumarsi preferibilmente 

entro la data sulla confezione.”

E se, per caso, disgraziatamente, 

non leggi o non ci fai troppa attenzione,

 

devi buttare tutto, come niente. 

Che poi, a pensarci bene, la questione

è per il mangiare ma vale anche

per il modo di vivere delle persone.

 

Per esempio: il latte, dopo che è scaduto,

lo devi buttare, perché è una schifezza, 

e ci resti male, se non l'hai bevuto;

 

immagina un po’ tu per l’esistenza,

se l’hai sciupata senza aver vissuto,

quanto ti infastidisce, alla scadenza.


 

Poesia undicesima classificata                                                                  Angela Caccia

 

Sarà servito a qualcosa

leggere Omero    farsi disturbare

il sonno da una mail  

vivere

fino la ferita

e al grido sotterraneo uscire fuori dal calcolo?

 

Sarà servito

innamorarsi    spartire

in due il peso di sé stessi

lasciarsi incurvare sino a fare

del dubbio l’unico fronte di liberazione

e infine arrendersi

sospesi e felici sull’abisso

al pari degli amanti di Klimt?

 

… come Giacobbe e la sua anca rotta

poter lottare col proprio Angelo

per meritarsi un nome


 

Poesia dodicesima classificata                                                         Elvira Bianchi

 

Ti spiavo le labbra

Le cosce

L'ossuto delle spalle

Conoscevo a memoria i tuoi confini

Li avevo tastati al buio

Annusati

Scaldati col vapore

Del mio fiato 

Nel nero assoluto delle stanze

La luce si sprigionava dal tuo corpo

Intermittente al mio calore

Come lucciola

In amore

Mi è bastato

Come rendita o vitalizio

Da spendere con parsimonia

Senza sprechi

Centellinando la memoria