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mercoledì 10 febbraio 2021

PATRIZIA STEFANELLI: "IL SILENZIO DEGLI ESULI"

Il silenzio degli esuli

 

Figlia di madre istriana, ho il sangue degli esuli e silenzi da raccontare. Quella del popolo istriano-dalmata è stata una diaspora tutta italiana. Il significato è quello della “dispersione di un popolo dopo l’abbandono delle sedi di origine”.  Dispersione per “un sé perduto”, quello di chi è andato e quello di chi è rimasto. È necessario che la gente sappia. Di questa strage, di questo genocidio fisico e psicologico si parla ancora poco. Intere famiglie sono state divise. Sono rimasti i vecchi, i malati e i morti. Di tante morti la storia non dice. È terribile sentire ancora parlare d’integrazione, d’inclusione, in un mondo che ha fatto della globalizzazione un marchio e stravolto il pensiero nichilista. Erano italiani della Venezia Giulia, non avevano bisogno d’integrazione ma di un tetto sulla testa e un lavoro. Portavano con loro la dignità di essere italiani. La scelta di restare italiani in territorio italiano. Lasciando le case mettevano sulle porte il segno che li avrebbe salvati dalla strage degli innocenti:

W L’Italia.  L’Italia che in molti casi si girò al loro passaggio e che perfino li osteggiò. L’ignoranza la faceva da padrona in un paese che ancora non capiva chi fossero gli amici e chi i nemici. Dopo l’8 settembre del ‘43 gli animi erano in subbuglio. In Istria, ormai preda dei titini, furono infoibati migliaia di italiani. Fascisti o comunisti che fossero, poco importava. Sparivano inspiegabilmente fino a che si venne a sapere il perché.

 

Freme di pioggia fradicia
la bandiera sul ponte del Toscana.

Nel fango i passi che non torneranno.

Le mani in tasca a stringere le pietre,

sul volto la durezza

di chi ha perduto tutto.
È la gente dell’Istria; va al di là
del Paradiso, signora di una terra

che ha sciolto gli anni del giudizio al canto:

Italia mia gettata nelle foibe

quale carogna di bue ormai guasta

che a nulla serve.
Squartata in due

dilaniato il torace da un coltello,

gli arti legati da fili di ferro.

 

Freme di pioggia fradicia
la bandiera sul ponte del Toscana.

Stretti tra loro gli uni sugli altri

stanno i fantasmi dei più cari legni
come quelle ossa ormai perdute; e piove

ancora piove.

 

È il 1947 quando il Trattato di Parigi assegna alla Jugoslavia le terre del Carso e dell'Istria, il Quarnaro con Fiume. Comincia l’esodo. Migliaia di persone imballano masserizie che partiranno dal porto di Pola. Da documentari emessi dalla fondazione Perlasca, si vedono ancora mobili stipati nel magazzino n°18 del porto di Trieste. Le famiglie pensavano di riaverli una volta che si fossero sistemate nelle nuove città. Non accadrà. I campi profughi trattennero gli esuli anche per anni. Poi, quando finalmente poterono trovare alloggio, fu dispendioso riavere le loro cose. Pian piano riuscirono a fare lavori di fortuna e rifarsi una vita. Quantificare l’Esodo giuliano-dalmata è tutt’altro che semplice, poiché si è sviluppato in fasi differenti e attraverso diversi canali, non sempre facilmente registrabili. 6.000 su 7.000 profughi, vennero via da Dignano. 

Era giovane, nonna,

la bella dai capelli palissandro.

“La mula de Parenzo (la cantava)

l'ha messo su bottega

e tutto la vendeva,

fora ch'el bacalà...”

La mula era de Pola; veniva giù col sale nella borsa, e le patate buone da bollire. Mula era il termine con cui si indica, nel dialetto istroveneto, una ragazza. Ricordo il racconto di zia Lina, unica sorella di mia madre, andata sposa a un uomo torinese. Ogni estate, fino agli anni ‘70, veniva a Gaeta in vacanza da noi insieme allo zio Massimo e a mio cugino Dario. La prima volta, giunta alla stazione di Gaeta, chiese l’indirizzo di casa nostra a una passante, chiamandola mula. Capirete che alle donne gaetane un tale appellativo non poteva essere gradito. La signorina, così com’è naturale, le rispose mandandola a quel paese. Come ci rimase male!

Nel 1954 risultavano a Gaeta, circa 150-180 profughi giuliano-dalmati ospitati nel quartiere vecchio di Sant'Erasmo, precisamente nelle ex caserme: "Vittorio Emanuele II", "Cavour", e "Enrico Cosenz". Mia madre e mia nonna Pasquetta stavano nella Cosenz. Mia madre, Lucilla, era nata nel 1937, ma lei diceva nel '38, la stessa data di nascita di mio padre. Se n'è andata al cielo, ancora profuga, mai completamente certa della sua appartenenza. Venne a Gaeta, con mia nonna Pasquetta, che era di Pola e portava sempre con sé una grande borsa, come se dovesse fuggire da un momento all’altro. Per sempre. A Dignano lasciarono mio nonno Lorenzo che non volle abbandonare le sue campagne e la loro casa. Mia nonna da signorina lavorava in fabbrica e mio nonno era capo-ferroviere. Si conobbero durante il percorso che da Pola la portava al lavoro nella fabbrica di tabacco. Poi, nel ‘48, la bella Pasquetta prese quell’ultimo treno senza il suo ferroviere. Non si rividero mai più.

Secca la conca, la terra e il suo nome.

Salva la stirpe. La storia negata.

Nel cuore in piena

un pianto le passava .

A Gaeta, visse per circa quattro anni nella Caserma Cosenz. Nel campo profughi: così era chiamato. Quanti morti infoibati nel loro paese. Quanti. Mia madre vide infoibare il parroco, nel giorno della sua prima comunione. Non lo dimenticò mai ed altro mai disse. Era uno degli ultimi ricordi della sua terra. I partigiani di Tito di certo non ebbero pietà. Le istriane erano belle, alte e fiere. Lei scriveva benissimo, leggeva molto, sapeva ballare e aveva una splendida voce. Ed era viva.

Amava cantare anche le canzoni classiche napoletane. Io sono stonata e quando cantavo, rideva e si tappava le orecchie. Anche qualche minuto prima che chiudesse gli occhi per sempre, le ho cantato " Munasterio ‘e Santa Chiara" e lei ha detto: "Mi fai ridere quando canti.".

Quasi tutte le ragazze istriane ebbero fortuna a Gaeta, lavorarono e seppero farsi apprezzare. Per tanti italiani però erano slave, per gli slavi erano italiane.

Nelle camerate e nei corridoi della caserma Cosenz, ogni famiglia aveva un piccolo spazio che comprendeva i letti e poche suppellettili. Ogni spazio era diviso dall’altro da vecchie coperte appese a cordoni o fili di ferro. I bagni erano in comune. A colazione ricevevano un pezzo di pane e una tazza di latte in polvere; a pranzo del brodo con contorno di patate lesse. Faceva, mia madre, ragazza con le trecce lunghe, la fila per la cena e siccome aveva molta fame, tornava a rifarla e il bravo vivandiere faceva finta di non accorgesene. Le patate e le uova sono state sempre il suo cibo preferito. Le patate erano l’ortaggio tra i più buoni di Dignano. A Dignano avevano vissuto in bel palazzo, al centro della città, vicinissimo alla piazza  principale: Piazza Castello, ora del Popolo. Era una famiglia benestante.

Amata Terra,

quale vento accorda

il canto di mia madre?

Forse è la Bora: sferza

e arrossa ancora gli occhi

dell’esule bambina che non volle

scordare di sua stirpe i riti aviti,

i misteri degli alberi,

i giri delle strie, e le villotte.

Sì, non volle scordare ma neppure troppo ricordare. Il silenzio dei profughi è comune a molti. Ogni tanto, chiamandomi “picia”, parlava di sua nonna Domenica che durante i bombardamenti non voleva scendere in cantina perché era tanto grassa. Restava seduta in cucina e una volta la trovarono ancora seduta col pavimento crollato nel centro della stanza. Mia madre leggeva e studiava molto. Era appassionata di romanzi del terrore e di esoterismo. Le storie di fantasmi l’affascinavano. Aveva una bella scrittura, e ho potuto circostanziare alcuni eventi grazie agli appunti che posti sul retro delle fotografie. Aveva frequentato la quinta elementare e conosceva benissimo l’italiano, oltre al suo dialetto istroveneto.

Mater perfuga, mater dolorosa,

scrivevi di ogni cosa, ché l'ora ti sfuggiva:

Go un libritto del nostro dialeto, cussì no se pol dimenticar, no…”.
Giovanni Testa, un gaetano che oggi vive a Carvico in provincia di Bergamo, mi ha raccontato alcuni dei suoi ricordi. Il papà di Giovanni aveva l’osteria vicino alle cucine della Cosenz, nelle adiacenze della pizzeria “Da Emilio”. Ricorda bene la signora Pasquetta, con molto rispetto. Il suo nome incuriosiva tutti. C’era un ragazzo di nome Racamarich, dice il Sig. Giovanni, il cui figlio nel ‘51 cadde dal quarto piano della caserma dabbasso.

Fu il dolore di perdita un macigno

a sotterrare prima

di quell’ultima pietra

la vita

il riso triste di chi sa.

Nel 1953 mia madre Lucilla e Pasquetta Toffetti in Malusà, andarono a vivere in una stanzetta di via Salita Porta di Ferro al n. 5. Di quel tempo sono tutte le sue amicizie. Le foto la riportano con l’amica Elda Benussi e la sorella Rosalba, profughe di Orsera. Conosco la signora Benussi e ricordo un’altra bellissima signora: la Norma. Nel 1957 Lucilla trovò lavoro nella fabbrica di mattonelle che pare stesse dalle parti di via Duomo. La fabbrica chiuse nel 1959 e nel ‘60 nacqui io. Ma questa è un’altra storia.

 

Amara madre,

camminiamo le terre brulle sole

cercando i solchi dove il seme muore.

Il freddo è breve.

Patrizia Stefanelli

10 febbraio 2021

4 commenti:

  1. Pagina esemplare la tua, Patrizia cara, come sempre. Spalanchi la porta su un problema troppo spesso ignorato, come quello dell'Istria e della Dalmazia e dell'esilio al quale sono stati sottoposti tanti italiani come noi. Non sapevo che fossi di madre istriana, so che questo articolo - racconto, condito dei tuoi versi, che amo infinitamente, mi ha stravolta. Il silenzio di coloro che subiscono soprusi è frutto dell'ingiustizia e della consapevolezza che nessuno porrà fine a essa. Sono dentro alla tua storia, amica carissima, solo perché tra i numerosissimi eventi abbiamo presentato libri che trattavano storicamente questo problema. Ho potuto imparare e ... mi vergogno di usare questo verbo di fronte a una donna che ha vissuto la vicenda a livello familiare. Il giorno della memoria, purtroppo poco celebrato, è stato fissato il 10 febbraio, come narri, proprio quando i due territori italiani furono annessi alla Jugoslavia. E proprio allora ebbe inizio una rappresaglia feroce che colpì molti cittadini italiani innocenti, ritenuti implicitamente colpevoli di aver vissuto sotto il regime fascista. Fino a configurare quella che oggi si configura come una vera e propria pulizia etnica: prigionia, campi di lavoro forzato e morte nelle foibe coinvolsero fra le 4.000 e le 5.000 persone, secondo una stima ancora approssimativa, oltre a quanti furono infoibati si considerano i molti che morirono nei campi di concentramento jugoslavi. Un secondo olocausto, un'altra dimostrazione di quanto l'uomo sappia divenire lupo verso i propri simili. La tua lirica iniziale e gli stralci successivi rendono in pieno la misura dell'orrore:
    "Nel fango i passi che non torneranno.
    Le mani in tasca a stringere le pietre"
    La partenza era nudità, paura e incapacità di proferire parole. Riesci a descrivere lo strazio senza neo - realismo con lirismo assoluto. E credo non esista Arte più difficile del raccontare la sofferenza vissuta in modo così autentico, musicale e incatenante. Alcuni versi scorticano l'anima, la fanno sanguinare e più delle parole in prosa fanno sentire colpevoli.
    "Amata Terra,
    quale vento accorda
    il canto di mia madre?"
    Sei di una statura umana e artistica immensa, Patrizia mia, e in questa circostanza, senza odio, risvegli il senso di colpa collettivo. Non ci si può sentire salvi dimenticando o ignorando strazi come quello che hai vissuto. Ti chiedo scusa, ti ringrazio e prego per tutti gli esuli e i perseguitati... almeno oggi. Con affetto e stima infiniti.

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  2. Aggiungere qualcosa a quanto ha così bene commentato l'amica Rizzi su questa storia di vita, di forte impatto emotivo, torna difficile.
    Ciò che non si può tacere è la profonda partecipazione alle sofferenze descritte e intimamente sentite, quasi direttamente vissute in seno alla propria famiglia, dall'amica Patrizia Stefanelli.
    A lei porgo un affettuoso pensiero di comprensione e di amicizia.
    Edda Conte.

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  3. Chiedo scusa a Patrizia, a Nazario e agli amici del blog per i numerosi refusi e le ripetizioni. Perderò mai l'abitudine di scrivere di getto?

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  4. Grazie a Nazario che ha pubblicato questo mio testo, testimonianza di un dolore sordo che per memoria tacita mi attraversa, posso ringraziarti, Maria, amica cara che poni le tue riflessioni a sostegno di quanto ho scritto. Sai, il senso di colpa, di rassegnazione, di orgoglio eppure di nascondimento, governava i giorni di mia madre. Neppure un codice fiscale come si deve ha mai avuto. Il codice, visto che era nata a Dignano d'Istria, dichiarava che era slava. Ti abbraccio forte e ti ringrazio. Al di là del valore o meno della mia pagina, tanto apprezzata da te e da Nazario, spero che qualcuno l'abbia letta, pur non volendo commentare, perché questo, umilmente, è il senso e la volontà del mio dire. Grazie, con tutto il cuore.

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