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lunedì 28 novembre 2011

Recensione a: Carla Baroni, Rose di luce, Bastogi Editore, Foggia 2011. Pp 64. €10

Recensione
a
ROSE DI LUCE
di
Carla Baroni 

Teme ogni uomo, fragile creatura,

molto di più le cose che non vede:

il buio, il buio, ancestrale paura

assorbita nell’utero materno

segreto anfratto che gli diede vita.


Il poemetto che la Baroni dipana in endecasillabi fluenti, scorrevoli in tutte le loro variazioni, è musicalmente avvincente quanto una romanza pucciniana (oh l’intermezzo composto dal Maestro sul lago di Torre del Lago, mentre i barcaioli, muniti di torce, cercano il corpo della serva affogatasi per amore) Si nutre di morte e di vita, di vita e di morte. Ed è proprio nella coscienza di tale percorso, nella coscienza della brevità dell’esistere, della sua fragilità e precarietà, che sta tutto il nerbo di questo poema, immensamente largo di motivazioni etico-esistenziali e umanamente fragili. Il dialogo tragico e risolutivo tra il vecchio alla fine degli anni e la morte umanizzata si conclude con una esplosione di luce più che divina, o metafisica, direi estremamente umana nell’idea di un tramonto vitale, che tanto simboleggia, con valore ossimorico,  l’ultimo respiro. Quasi la poetessa voglia alleggerire l’idea di un trapasso con ciò che di più bello e poetico si lascia sulla terra; o voglia che ci portiamo dietro, come ultima visione, quella bellezza effimera che più si avvicina al cielo. E la morte è cosa umana. E la Baroni ha questa grande virtù poetico-intimistica di saper tradurre un grande dolore, l’ineguagliabile, quello della morte della madre, in una prova universalmente valida, in una prova che nella sua drammaticità, chiede a tutti, al suo epilogo, che cosa sia poi questa nostra esistenza. La morte stessa assume proprio contorni benevoli, contraddicendo il senso che traspariva dall’incipit, figura ostica, nemica, o orribilmente avversa nella sua funzione di sottrazione, di azzeramento, di rapina delle nostre cose più preziose e insostituibili. Un addolcimento in cui il trapasso si fa più  naturale, come appuntamento inderogabile, giustificato dalla vita in quanto vita, finitamente creata per essere terrena; ed i contorni e le parole e gli atteggiamenti ed il dialogo tutto sembra che si rassereni con contorni naturali che si predispongono all’evento. E si fa avanti la memoria a dare degna entità all’esistenza. In fin dei conti le cose che rimangono sono quelle degne di restare, degne di essere storicizzate. E sarà la memoria ad assumere il suo grande compito di mantenere in vita, di protrarre oltre la morte avvenimenti, fatti e immagini del nostro percorso terreno. E sarà la memoria, nella sua funzione catartica, a sensibilizzarci e a creare quel patrimonio di affetti, metabolizzati e traslati, da tramandare per sconfiggere il nulla. Mettere insieme tutti i tasselli rimasti, significa ritessere un filo estremamente sottile,  e altrettanto breve quanto la vita ricostruita.  Poche sono le cose che rimangono ed enorme è il potere dell’oblio: Dum loquimur fugerit invida aetas. E’ un resoconto umano, è una poesia forte, e talmente potente e concentrata, questa della Baroni, che si innerva nel lettore fino a riempirgli il cuore di sangue nuovo , caldo e pulsante. La linearità e la compattezza del poema sono esemplari. Il dialogo si fa sempre più eccitato ed umanamente eccitante. L’uno attaccato alla terra, alla sua storia, l’altra alle sue ragioni, al suo compito irrevocabile, naturale, in quanto vita, in quanto sommativa di tanti piccoli o grandi atti che si susseguono nell’arco dell’esistenza. Carla Baroni sa rendere tutto questo con estrema naturalezza, senza mai cadere  nel sentimentalismo decadente, né nel discorso tragicamente eccessivo.  Ed il suo poetare ampio e nutrito di un verbo ricco e appassionato ci giunge con immediatezza. Lo stesso spartito fatto di note cucite fra loro da continui enjambement, ripetuti in maniera quasi ossessiva, denota la necessità di raccontare, di dare sfogo e apertura ad un’anima rigonfia che vuole liberarsi, gettando sul foglio i suoi ingorghi. Ma è sempre la robustezza del metro, la stabilità degli argini a contenere quel fiume in piena nel suo alveo, impedendogli esondazioni  a sommergere campi ricchi di humus. La poesia della Baroni si fa sempre più poesia/arte, quanto più la realtà si trasforma in immagine, in sentimenti rivisitati. Quanto più gli avvenimenti della vita si spogliano della loro cruda realtà, e si alimentano di un terriccio fertile a far crescere fiori unici ed intensi per colori e profumi. E i colori e i profumi sono dovuti anche a quelle figure stilistiche impiegate con spontanea generosità in una amalgama di accorgimenti metrico-fonici e guizzi poetico-intuitivi. Un mio vecchio professore diceva: “"Se sventuratamente vi avventurate nella poesia, vi sconsiglio di registrare la realtà; prima vivetela, poi immaginatela, e se riaffiora, lavorate e provate a farne poesia ".  E la Baroni ha covato la sua  tragedia in un’anima disposta a raffinarne  e a smussarne le sporgenze graffianti,  tanto che il suo dolore si è tradotto in  monito per tutti noi: vivere la vita come il bene più grande che ci è dato. Un bene grande, forse, perché contiene proprio la morte.  



                                                                                                       Nazario Pardini

Arena Metato 28/11/2011




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