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giovedì 22 marzo 2012

Lettura di "Misure del timore" di Antonio Spagnuolo a cura di Nazario Pardini

Antonio Spagnuolo. Misure del timore. Kairòs edizioni. Napoli. 2012. Pp. 176. Euro 14

Recesnsione
a cura
di
Nazario Pardini

Che fine ha fatto mio padre
disperso fra le piume dell’eterno
gioco:
      è vero,
      non è vero,
o forse nudo,
senza più distogliere,
lascio scorrere il nulla quietamente,
tra notte e giorno, immaginando
l’irreparabile dubbio delle tracce,
e dell’acqua fuori fonte,
e degli spazi indiscreti ove una volta
mi stuzzicava a lampi contro il cielo,
o a quegli insonni strumenti sognatori
fra le travi e il soffitto.
Che fine ha fatto?
 Dubbi, incertezze, melanconie soffuse, reminiscenze fresche “sconsolatrici”, interrogativi, questioni umane portatrici di timori ed oltreumane irrisolte, solitudini, nostalgie vive in una poesia delicatamente intimistica che sa cercare anche il lirismo magari con rima o… assonanza: “Ed io ricordo che l’avrei cercato / in ogni verso /  purché fosse tornato” (9 da Rapinando alfabeti).  Da un dire fortemente realistico e dissacratore è facile in Spagnuolo passare a questi lampi di struggimento interiore che ti agguantano lo stomaco. Dove anche il verso si fa più mansueto per servire un canto fragilmente umano nella sua fragilità. Dal realismo crudo del guardare sapientemente le ginocchia o del penetrando il tuo ventre o del la poesia somiglia al fango / nell’impasto emorragico / di un’arteria in dissezione passare alla nostalgia di un padre che stuzzicava a lampi verso il cielo quasi è un gioco per il poeta, viste le potenziali armi verbali capaci di rivestire tanta generosità poetica.
   Mi è giunta stamani 21 marzo alle ore 11 questa gradita sorpresa: l’Antologia poetica di Antonio Spagnuolo che trae il titolo dall’ultima sezione Misure del timore. Antologia poetica dai volumi 1985 – 2010. Sono commosso. Palpo il libro, lo sfoglio, ne respiro il sapido profumo di nuovo delle pagine color crema. Poso gli occhi sul titolo: Misure del timore. Titolo che affascina, turba, eccita, e invoglia alla lettura, a capire, a concludere, anche se nella poesia le conclusioni sono sempre soggettive nella loro oggettività, sono sempre nascoste, perché ogni lettore le possa fare sue e le possa adattare alla sua sensibilità. Quindi azzardare e penetrare nella parola, per fuggire oltre la parola, con animo voglioso di legare i frammenti, i tempi, le azioni, le diacroniche successioni,  e indagare per trovare quella compattezza,  quell’unicità ispirativa, quelle pulsioni etimo-foniche e culturali che legano la produzione e determinano la poetica dell’autore.
   E la Poesia che cosa è in fin dei conti se non che il tatuaggio dell’anima? e che cosa se non che la realtà predisposta ad incidere sul nostro vivere? fino a ridursi a ancella della parola dopo la sua decantazione nell’anima? e che cosa se non che répêchage di momenti, frammenti e tempi che gridano la loro esistenza e “sgomitano” per ritornare in vita a illuminarsi di luce chiara? e che cosa se non che quella magica fusione, indispensabile teorema, fra dire e sentire, fra anima che canta e parola che suona? fusione di equilibri per il fascino della lettura? e che cosa se non che rovesciare sul foglio un’anima, che smarrita, di ritorno da un’escursione nel mondo e fra gli uomini, ritorna nuova, rifiorita, vitalmente ri/nutrita di umano e disumano, d’inconsci ritmi vitali, per donarsi a un prodotto che sottragga all’indifferenza?
   In Spagnuolo la poesia è tutto questo, nella sua pluralità d’intenti, se d’intenti si può parlare, quando l’alimento primo è la spontaneità. Spontaneità partorita da una realtà guardata, vista ed osservata nella sua microstoria con uno spirito sempre proiettato oltre i significati e i significanti, verso le invenzioni. Proprio perché la semplice parola non è mai sufficiente per un poeta ad esprimere la totalità del pensiero e Spagnuolo si affida, si deve affidare, a guizzi cromatico-allusivi, ad associazioni di unità sintagmatiche, o univerbalizzazioni, a raddoppiamenti per ultimare un percorso di grande tensione umana. Un mio vecchio professore diceva: “"Se ipoteticamente vi avventurate nella poesia, vi sconsiglio di registrare la realtà; prima vivetela, poi immaginatela, e se riaffiora, lavorateci e provate a farne poesia".  E Spagnuolo ha covato la sua  realtà in un’anima disposta, a volte, a raffinarne e a smussarne le sporgenze graffianti, altre volte ad evidenziarle queste sporgenze; il fatto sta che il suo poiein si è tradotto in  monito per tutti noi: vivere la vita come il bene più grande che ci è dato, nella sua brevità. Un bene grande, forse, proprio perché contiene la morte. (Lo si percepisce in ogni verso, e più ancora in quelli ribelli, più crudi). Ed è il suo inconscio, fattosi verso compatto ed organico, e strumento di armonie disarmoniche, che offre al poeta la possibilità di leggersi e sorprendersi.   
  E tutto è timore: timor vitae, fortunae, amoris: timore del fatto di esistere. E Spagnuolo si fa da uomo ad umano in questo gioco di inconscie ombre risalite a suscitare quei timori che nella coscienza di essere hic et nunc determinano anche l’esistenziale quesito di vivere in spazi ristretti.
   Guglie, Drappeggi, Ara, Senna… non sono solo configurazioni esterne, magiche apparizioni fenomenologiche, ma soprattutto frammenti-oggettivazioni in cui si frantuma l’anima per ritrovare la sua unità in quella coscienza di precarietà che fa da filo conduttore in tutta l’opera. Precarietà che si dilata, nella sua funzione, in solitudine esistenziale-baudelaireniana nel discorso poetico: “Nuove scene a domenica / questo si può rifare: / apro incisioni / nella mia solitudine” (Mansarde), o esige dalla rievocazione nostalgica un supporto alla sua “quietezza”: “Specchia in cortile / sapore dell’infanzia. / Una gonna tutta luce nelle stanze / sullo sfondo il candore.” (Candida).
   Umana, troppo umana la vicissitudine storica del poeta: ed è il timore, sono i suoi timori a rendere il tutto vicino a noi, in quanto fragili e soggetti al tempo,  e a fare di Spagnuolo  un essere vivente che freme, si anima, si dis/anima, si commuove, si altera, si inquieta e si acquieta senza mai abbandonare all’esondazione il suo sentimento, sempre racchiuso tra gli argini robusti della sua sintassi. Lo dimostrano i suoi versi, le sue tessiture che corrono, si frenano, si ampliano, si scorciano per tradurre in importanti significanti metrici le varietà delle emozioni. Liberismo poetico, realismo strutturale, azzardo intuitivo oltre il limen verbale; per ritornarci nuovo ed arricchito. Questo realismo pittorico-emotivo, fatto di immagini acquisite e ridate al foglio con luminosa intuizione è più evidente in Candida. Seguono 10 poesie d’amore: canzoniere erotico.sentimentale, dove il poeta chiede aiuto alla Natura, alle sue cose, alle sue vite per esprimere forza emotiva, e intensità amorosa. E la Natura interviene generosa facendo della sua pittura e dei suoi esseri l’involucro dei giochi sentimentali dell’autore: farfalla controluce, nube corrosiva, ultima sorgente, frassino dell’immagine. Amore spirituale sì, ma soprattutto fisico che si concretizza in eros dai due volti: “Nessuno mai seppe la raffica / per fiato e orchestra / tremante cataste e giochi, / o della calamita protesa / nel gusto di beccare improvvise / le tue cosce.” (3 in Dieci poesie d’amore…)
   Nei momenti di maggiore liricità affiancano versi di minore misura gli endecasillabi che come vere cascate musicali rifulgono per generosità su senari, decasillabi …: “Piovono ruggine piccole scommesse / dalle tue ciglia / fortunosa scomponi acqueforti: / la carne, la ventura, i clamori: / un ditirambo stanco di cantare. /   Leggermente stupita disegni / sillabe qualsiasi / …” (2 in Dieci poesie d’amore…).
   Ma è in Fugacità del tempo e in Misure del timore che Spagnuolo si riappropria delle sue inquietudini umane per rendere più temporale, più vero e inquietante il fatto di vivere in uno spazio ristretto di un soggiorno. La giovinezza, graffio lungo, non porta nostalgie o rimpianti, è solo un momento di un insieme destinato a finire: “Dirompe quasi a gioco un Dio perverso / dai luoghi ormai fuggiti, / bellissimo Narciso intrappolato allo spazio / che mi fu concesso tra gli uomini e le cose, / stupore e smarrimento che mi azzera. / Discorso da dimenticare / così come il graffio lungo della giovinezza.” (4 Fugacità del tempo) Dum loquimur fugerit invida aetas. Ed è il discorso del memoriale ad assumere a volte il ruolo di alcova, a volte di nirvana edenico in un mondo di convulsi pensieri, a volte di chiara percezione della fugacità della vita.
   Forse è proprio questo il leit motiv, assieme alla cura del verbo e alla ricerca delle novità etimo-foniche, di tutta l’Antologia poetica.  Ed è proprio questa percezione del vivere temporale che porta alla conclusione di Misure del timore: “Ormai poche parole inutilmente / percorrono il vermiglio sgranato, / per il sangue che ricuce i frammenti / io ho soltanto del mirto.” (Rami di mirto).
   Di tutto, in fin dei conti, non resta che un ramo di mirto, che, pur nobile pianta, simbolo di mediterraneo endemico rifugio, non è altro che piccolo arbusto (la vita) che genera timori forse senza misura, quei timori che fanno dell’uomo un essere umano, troppo umano.
   Direbbe il poeta. “La realtà e il sogno si fondono, l’uno più reale dell’altro, nella coscienza di esistere. Ĕ il timor vitae che li alimenta e ne fa un terriccio fertile per una abbondante fioritura di luminosa poesia”.    
      Poesia è vita, quindi, come vita è sogno, come vita è illusione, delusione, come vita è amore, come vita è poesia, quella parte di noi, forse, che più si avvicina all’inarrivabile. E il poeta è un uomo vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente, futuro).
   Se Hölderlin chiede nella lirica Iperione, o l’Eremita della Grecia, al canto che sia per lui “rifugio amichevole” affinché la sua anima “non smanii…” e divenga “luogo di felicità… giardino curato con premuroso amore, /… / ove io abbia dimora / mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare / il tempo possente … rumoreggia lontano”  Spagnuolo, nel suo inconscio, chiede al suo racconto intimo e vitale un Eden perenne, gagné coi turbamenti e i timori dell’esistenza,  dove poter vivere oltre il tempo nel giardino della poesia, perché la ama e le affida il compito foscoliano di vincere il contingente. Anche se il suo poetare, a volte estremamente realistico e crudo, ci fa pensare, come fine, più a una dissacrazione del mondo che a una poesia  vòlta a superare i limiti della nostra venuta. Superamento che accadrà, di sicuro, per il suo valore intrinseco, convalidato da innovazioni di mezzi e strumenti destinati a lunga vicissitudine letteraria.         
 Arena Metato 24/03/2012
 Nazario Pardini

2 commenti:

  1. Ho avuto occasione di leggere la pooesia di Antonio Spagnuolo, anche se in modo frammentario. E la diagnosi che Pardini ne ha fatto mi sembra lineare e appropriata, soprattutto quando tratta il linguaggio del poeta, mettendo in chiara luce quel suo dire vario e complesso, scorciato o raddoppiato, linguaggio direi anche complicato e di un registro alto e ricercato. Profonde poi sono tutte le tematiche che il poeta tratta; coinvolgendo tutti gli aspetti esistenziali della sua ricerca: la melanconia, il memoriale, il subconscio, ma su tutto una parola concreta e pungente che sembra scavata grezza da una miniera che sprofonda nelle viscere della terra.

    Prof. Franco Petruzzelli

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  2. Non ho il piacere di conoscere "Misure del timore" di Antonio Spagnuolo, pur avendo avuto modo, sporadicamente, d'imbattermi nei suoi testi. Desidero, tuttavia, - attraverso l'accurata analisi esegetica dell'amico Nazario - esprimere una mia, necessariamente, sommaria ma sentita opinione. Dall'esame dei versi, con i quali si apre la recensione, si evince innegabilmente il timbro intimistico di una liricità moderna ma non forzata. Poi, però, vengo a scoprire che il poeta non disdegna, parallelamente, d'immergersi nell'asprezza di un evidente realismo. Bene: questa antinomia, per conto mio, da ciò che lo stesso recensore sostiene, non dovrebbe stridere (uso il condizionale per i motivi già esposti). Dice, tra l'altro, l'amico Nazario: "cos'è la Poesia se non répêchage di momenti...che gridano la loro esistenza e 'sgomitano' per ritornare in vita...?". Ecco: se Pardini afferma quanto ho riportato, allora si può davvero credere che quel contrasto, in Spagnuolo, è traghettatore di significanti poetici che derivano da una "cova" (cfr. la recensione) della realtà atta a schiudere l'uovo del bene e del male, del dolce e dell'amaro. Così, l'anima "si frantuma" per ricomporre la propria unità. E l'amore stesso la riacquista (si vedano i versi tratti da "3 in Dieci poesie d'amore")."Misure del timore", dunque, come "dissacrazione del mondo" e presumibilità della sacralità della parola, mi sembra di capire.
    Grazie a Nazario per avermi aperto il libro ed a Spagnuolo per averlo composto.

    Sandro Angelucci

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