Uccello migratore perso al vento
La notte distilla silenzi e attese,
a guado, inquiete, tornano memorie.
Sul quadrante dell’orologio a muro
lente salpano le ore verso l’alba,
naufraghe al sogno di cobalto e luce.
Qui, tra pareti assorte e stupefatte,
come il ragno immemore e tenace
anch’io fallaci reti tendo ai sogni
e aspetto.
Disdicono le
farfalle
gli abbracci che promisero ai rosai,
e inesorabilmente il tempo sfalda
certezze e accordi, calici corrompe.
Il giorno sarà sangue e lunghi
artigli,
luce decomposta, disarmonia
che lacera presepi e redenzioni.
Ahi! fiumi, messaggeri della
Terra,
dov’è ora l’Eden, e perché
scolora
l’azzurro delle vostre vene in
minio?
Bruciano le città del mondo e
alti
crepitano fuochi e ampolle
d’odio.
Già s’invera il presagio della notte
ed io ritrovo intatta la mia pena,
uccello migratore perso al vento,
straniero ai cieli ed alle rotte amiche.
Invano cerco approdi oltre le nebbie
e ignoti e incerti séguito orizzonti.
Confusamente stretto alla mia resa,
smarriti viaggiatori insieme andiamo.
E
non sappiamo,
non sappiamo dove.
Tenacemente avvinto al girasole
Fu il torchio a dare al nettare
misura
e il gusto dolceamaro
dei giorni consumati.
Ecco perché
scordai quasi del tutto le
conchiglie,
i papaveri l’erba il novilunio,
ma non potei scordare la partenza
per lontane stazioni di mio padre
(per gioco non rispose al mio
saluto),
né il ritorno dai campi di mia
madre,
stremata di fatica e di coraggio.
Lo so che pure il petalo (e
perfino
l’oro del grano) ha vuoti di
memoria;
ma Isacco non potrà dimenticare
il suo martirio, che non fu
promessa
di supplizio, ma il Dio
lungamente
indifferente alla sua pena.
Ed io,
ostaggio consegnato al nuovo
giorno,
anch’io, tradito, sconto la mia
croce,
tenacemente avvinto al girasole,
e invano aspetto il polline nel
vento
che insemini i miei grani
d’utopia.
Già incombe un’altra notte,
con le rotte insensate della luna
e stelle intente all’ultima
impostura.
Domani corpi accatastati e inerti
intralceranno il solito week-end.
Ci chiama l’alba a recitare un
altro
assurdo e insano gioco delle
parti.
La
strategia del ragno
E’ ormai memoria l’isola del
giorno
che rapido declina.
Già insidiano il crepuscolo
i semi dell’assenza.
Atteso ad altri transiti, rivedo
il me bambino e voi,
segreti Lari, trepidi custodi,
ombre tenaci a presidiare il
Tempo,
struggenti meridiane dell’attesa.
- Madre, non ho saputo dare fiori
alle tue mani esauste,
né luci alle tue lunghe notti
inquiete.
Ancora mi addolorano i tuoi occhi
- stremate stelle al cielo delle
veglie -
per quel ragazzo arreso alle
chimere.
Ora calvari salgo
e anelo immeritate redenzioni.
Trasmuto piano in ali di falena.
La strategia del ragno
non premia la tenacia della tela,
ma il volo smemorato di farfalla.
Così la notte e le sue perse
rotte,
che sghembo il frullo aspettano
di esausti uccelli migratori, in
viaggio
verso una nuova Terra.
Generoso è il vento
- soffio d’Eterno? -
che in pegno non ci chiede
altro che la promessa del
ritorno,
quando la pietra sarà un grido e
noi
pane raffermo alle radici e
all’erba.
La poesia di Umberto Vicaretti è tutta nella parola, nel verbo, nel sintagma, nel saper combinare l'elemento lessicale ad uno spartito complesso e armonicamente sinfonico, quale uno stacco pucciniano. Nelle sue poesie il signficante metrico accompagna simmetricamente la pluralità delle scansioni interiori. E il dire e il sentire combaciano. Si sa che nell'arte la difficoltà prima consiste nel tradurre il tutto in questo equilibrio. E la sua parola è audace, è rotonda, è dilatata, è accorciata, è inventata in una continua scalata verso l'azzardo dei confini. D'altronde il suo stesso classicismo, la sua stessa memoria della grande tradizione letteraria non è mai cosa pedissequa, ma è re/invenzione, rivisitazione, rinnovamento di sostanze poetiche che in nuce nell'anima si fanno vera arte con la cospirazione dei giochi lessico-fonici. Sa diventare anche nostalgia quel bagaglio umanistico accumulatosi nei giorni della primavera. Ma non mai lamentatio melliflua decadente nell'accezione negativa del termine. C'è la costruzione meditata e nutrita di accorgimenti stilistici vibranti e figurati, visivi, disposti e disponibili a rendere agile, accattivante, musicalmente affabulante il messaggio poetico. E tale costruzione controlla, anche, che l'esondazione non straripi dagli argini di contenimento. Ed è qui quell'equilibrio desanctissiano, l'unica regola della poetica a cui non possiamo sottrarci - se di regole si può parlare nella poesia - a dare forza e credibilità all'arte di Vicaretti. E se il Nostro afferma: "Invano cerco approdi oltre le nebbie / e ignoti e incerti séguito orizzonti"
RispondiEliminaè perché lui sa e sente che il destino degli uomini è quello di azzardare sguardi oltre i limiti, soffrire degli spazi ristretti di un soggiorno, per una vita umana, troppo umana. E d'altronde è qui il terriccio fertile della sua poesia. Terriccio tanto ricco di humus da custodire semi destinati a messi verdeggianti e durature.
Direbbe il poeta:" E' tutta nella memoria e nella coscienza di esistere, nel mistero e nel sogno, nelle fughe e nei ritorni questa avventura infinita che è la vita." E la realtà stessa, nella sua eccessiva portata, è smussata, adattata, dal poeta, ad un mondo di immagini che la sanno declinare in poesia.
Nazario Pardini