Intervista
A
PAOLO
POLVANI
A
CURA DI
NAZARIO PARDINI
N. P.: Mi dica un po’: quali sono le
occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria?
quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia sempre
differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia,
essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi
argomento tratti?
P.
P. Non ci sono occasioni particolari,
penso che ogni avvenimento, ogni sentimento o persona o cosa possa divenire
occasione di poesia, spesso accade con persone conosciute o anche solo
intraviste, scatta qualcosa che fa nascere il desiderio di scrivere. Le
occasioni ci attendono ad ogni passo, sta a noi riconoscerle e vestirle nella maniera più consona. A me
interessa la qualità della poesia, più che un’etichetta, più che il versante
sul quale si attesta. Per quanto poi si possa nascondere l’io, è inevitabile
che si affacci nella selezione delle parole, nella scelta dell’angolo
visuale, in definitiva la scrittura non
perde mai i suoi connotati autobiografici.
N. P.: La sua poetica, essendo uno degli
interpreti della poesia contemporanea, è in gran parte nota attraverso le
recensioni, prefazioni, e note critiche che la riguardano. Ce ne vuole parlare
lei?
P.
P. Sinceramente ho molti dubbi che la
mia poetica sia nota e soprattutto che sia uno degli interpreti della poesia
contemporanea. Già mi imbarazza molto dichiarare di essere poeta, preferisco
pensare a me come a un piccolo artigiano della parola, come quelli che infilano
perline colorate per farne collanine da vendere sulle bancarelle. La mia
poetica è dunque questa, tutta una varietà di perline che aspettano di essere
collazionate, e il mio piacere consiste nel cercare di abbinare i colori più
freschi, di inventare sempre una prospettiva che appaia nuova e costituisca un
dono per me e per chi abbia il desiderio
di leggerla.
N. P.: Quali sono le letture a cui di
solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi
predilige? Perché?
P.
P. Qui entriamo davvero in un campo
difficile! Avevo ventisette anni, quando ho letto La recherche, di Proust.
Ricordo che avevo trovato lavoro in una cooperativa portuale, e la mattina alle
6 dovevo essere al porto, e spesso
lavoravamo anche nei porti di Molfetta e
Manfredonia, e che quindi a volte bisognava partire alle 5. Ebbene quando
leggevo Proust non riuscivo a smettere, leggevo
fino alle tre del mattino. Ho
sempre pensato che una volta letto Proust si potrebbe anche non leggere più. Ma
così non è stato, altri amori totalizzanti li ho avuti per Tolstoi e Dostoievski. La letteratura mondiale è un campo di
sterminate bellezze. Sebbene sia pura finzione, la letteratura può prenderci per mano e condurci nei labirinti
dell’animo umano. A breve penso di rileggere tutta l’opera di Proust.
N. P.: Fino a che punto le letture di
altri autori possono contaminare lo stile di uno scrittore? e se sì, in che
modo?
P.
P. Penso che lo stile di ognuno sia
sempre il risultato di molti fattori, di tante voci che si sovrappongono. E’
come l’accento che assimiliamo dall’ambiente in cui viviamo. Se fossi nato in
Veneto, oppure in Sardegna, adesso avrei un altro accento. Se avessi letto
autori diversi da quelli che ho letto, studiato in una scuola diversa, vissuto
in una famiglia in cui ai libri non si attribuiva importanza, è probabile che avrei scritto in maniera
differente.
N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice,
quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e
rifiuta ogni ritorno al passato? o, per
meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante
dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?
P.
P. Penso che l’innovazione sia il
destino stesso della poesia, abiti nel suo dna. Tempo fa ho letto dello studio
di un critico che ha individuato un numero preciso di temi, di argomenti intorno ai quali ruota da sempre la poesia.
Non li ricordo tutti, ma certamente c’erano l’amore, l’abbandono, la morte, la
natura. Gli argomenti della poesia sono ricorrenti, come ricorrenti sono le
situazioni della vita. Ciò che cambia è
la prospettiva linguistica. Di qui la necessità di sperimentare strade sempre
diverse, con l’obiettivo di offrire un’angolazione prospettica che regali una visione nuova e originale e
insieme più aderente alla realtà. Trovo che a volte certe forme di
sperimentalismo si esauriscano in sterili esercizi di virtuosismo che alimentano la diffidenza dei lettori e li
allontanano dalla poesia, oppure a volte, spesso, mascherano semplicemente un
vuoto. Sperimentare la lingua secondo me vuol dire fare la punta alle parole,
renderle affilate, taglienti, capaci di incidersi nell’attenzione del
lettore, capaci di sedurlo nel senso
etimologico, cioè di condurlo con sé attraverso l’arte della fascinazione.
N. P.: Cosa pensa dell’editoria
italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di case
editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il
territorio nazionale?
P.
P. Gli editori italiani nei confronti
della poesia: le grandi case editrici rispondono a esigenze di profitto, e la
poesia non vende; se si lavora avendo
come fine unico il guadagno ignorare la poesia è una scelta obbligata; poi ci
sono buoni editori che hanno a cuore la cultura più che il profitto, e coraggiosamente
vanno avanti, tra infinite difficoltà; infine ci sono una miriade di editori
vampiri che speculano sulle ambizioni letterarie di un esercito di aspiranti
poeti. Se tutti i soldatini di questo
esercito acquistassero libri di buona
poesia gli editori coraggiosi
riuscirebbero a promuovere un numero maggiore di buoni libri e gli aspiranti
poeti scriverebbero cose meno brutte. I
premi letterari seguono più o meno lo stesso schema, la maggior parte hanno di
mira un loro profitto, alcuni invece, pochi,
cercano di promuovere la buona poesia. Penso che un possibile futuro per
la poesia sia costruire un’editoria dal basso, una rete di poeti e fruitori.
Con alcuni amici stiamo provando a muoverci in questa direzione, con risultati
ancora non soddisfacenti, i poeti preferiscono sborsare duemila euro per vedere
il proprio nome stampato su di un libro.
Creare una rete significa non solo risparmiare denaro, ma anche avere la
possibilità di recensioni, presentazioni, discussioni intorno a quello che si scrive,
che penso sia il desiderio di ogni poeta.
N. P.: Certamente sarà legato ad una sua
opera in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai
tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti.
Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e alla funzione
della realtà nei confronti di un’analisi interiore?
P.
P. Non sono legato a qualcuna in
particolare. Mi accade talvolta di
riprendere tra le mani vecchie cose e di tagliare un paio di versi che mi
sembrano inutili, di sostituire una parola,
penso che il lavoro di rifinitura non termini mai. Personalmente, a
volte utilizzo questo semplice giochino: molti anni fa ho visitato una mostra
dello scultore Henry Moore, a Firenze. Ricordo che all’ingresso della mostra
c’era un secchio pieno di sassi di forme diverse, e un cartello in cui lo
scultore spiegava che era a partire dalle forme varie di quei sassi che traeva
ispirazione. Ebbene, a me piace a volte sfogliare il vocabolario, è come
guardare le forme dei sassi, ci sono parole che accendono una luce, parole che
ti chiamano, chiedono di essere messe sulla pagina.
N. P.: Cosa pensa della nostra
Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi
Premi Letterari tipo il Campiello, il Repaci…?
P.
P. Conosco la nostra letteratura
contemporanea in maniera troppo frammentaria per azzardare giudizi. I grandi
premi letterari sono dettati da esigenze di mercato, quindi nutro una certa
diffidenza. Nella scelta dei libri mi baso sull’intuito, sul fiuto, e a volte
ci prendo.
N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel
mondo della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi
poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?
P.
P. Non ho di questi poteri purtroppo. Azzardo pertanto un semplice auspicio:
che le persone che ancora non leggono scoprano la bellezza della lettura, avere
a che fare con persone che hanno letto tanti libri e possiedono il gusto della
lettura è sicuramente un piacere. Chi ha
letto molto ha vissuto tante vite, è sceso nelle profondità dell’animo
umano, possiede una ricchezza e uno
spessore che poi si manifestano nel comportamento quotidiano, con queste
persone ci si riconosce dallo sguardo.
La sua intervista verrà
pubblicata sul mio blog Alla volta di Leucade blog.
La ringrazio per la sua disponibilità.
Nazario Pardini 31/05/2012
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