* * *
Vorrei vedere di Elena il
barbaglio
sopra il suo viso chiaro, vorrei
scorgere
di
Elena il portamento, il femminile
incedere. Di ciò sono bramosa,
di
questa libertà che provo anch’io
nel
fondo del mio seno. E questo è umano,
è
divino ed eccelso. Quest’amore
che
strugge il mio sentire, la mia carne.
Cola sudore, un tremito mi
preda,
mi
faccio verde, più verde dell’erba
mi
vedo, che la morte così tanto
lontana poi non pare. Ed il tuo
trono
è
vario e le tue trame sono subdole
Afrodite. Raggiungimi,
raggiungimi.
Già
un’altra volta ti giunse la mia
voce distante. Tu l’esaudisti.
Avevi messo al giogo del tuo
carro
passeri lievi. Ed eri trascinata
sopra la terra bruna dal frullio
folto dell’ali. È questo il carro
d’oro
che
strugge la mia anima e dattorno
alita canti, suoni e
incantamenti;
non
di certo lo fanno i carri lidi,
o
il greve stridere bronzeo dei fanti,
od
il nitrire tetro delle guerre. -
(Da Il Canto di
Saffo in Alla volta di Leucade, Viareggio, 1997)
Giù per i sassi
Giù
per i sassi
e
in mezzo alle rovine
zoppica il piede incerto e
vacillante;
la
mente torna
su
templi e mura ardite,
su
donne della Caria
di
forme trasparenti,
prospicienti i fianchi.
Bianchi uccelli
stendono le ali
sopra i viali di una tarda sera
e
passeri su lastre di millenni
beccano insetti su scavati
solchi
da
carri tusci di antenati antichi.
Vacilla il piede sopra sassi austeri
e
l’animo si turba
se
la vista si rivolge al cielo,
al
giorno che termina la sera.
Sassi di marmo
crepuscoli di fuoco
vita leggera satura di morte:
corte le strade della nostra
gente
drizzano templi
sopra verdi mari
immensi altari per i loro dèi.
(Da
Le voci della sera, Firenze, 1995 )
In una immensità che ti rapina
Il mare
si avvicina e si allontana,
clessidra
della vita. Io sono qui,
sulla
spiaggia umidiccia del mattino.
Seduto su
un pattino, guardo il piano
appena
increspato dall’aria frizzante
del
novembre. Mi prende il largo spazio:
sono
nulla e il nulla si dilegua
nel vento
salmastroso dell’immenso.
Non odo
più la battima né provo
sogni e
tristezze in questo diluirsi
del cuore
nel mio mare. Son fuscello
che si
annulla nell’aria mattutina
portato
sull’onda dall’ala leggera
del
novembre. Forse rincaserà
l’anima
mia in fuga negli abissi.
Ritornerà
in prigione nel suo corpo,
riprenderà i suoi occhi per mirare
l’immensità del mare,
per
pensare di nuovo che la vita
è quel
fuscello breve che dimena
in
un’immensità che ti rapina
(Da
L’azzardo dei confini, Salerno, 2011)
Nella prima (“Il canto di Saffo”, tratta dalla splendida raccolta “Alla volta di Leucade”), Saffo incarna la stagione della passione e dell’amore, dell’evasione e della libertà: è l’esplosione del sentimento, l’incendio dei sensi, la corsa incontro alla luce e al sogno.
Nella seconda, “ Giù per i sassi”, archiviato il furore dell’età giovanile, assistiamo ad una sorta di contrappasso: dal “carro d’oro” di Afrodite, librato in volo sopra la “terra bruna” dal “frullio folto dell’ali” di “passeri lievi”, il poeta è precipitato “in mezzo alle rovine” e a “sassi di marmo”, dove incede con “piede incerto e vacillante”.
E’ la stagione del conto consuntivo, quella inquieta e dolorosa in cui “…la vista si rivolge al cielo / al giorno che termina la sera”.
Nella terza, “In una immensità che ti rapina”, siamo come proiettati nel clima dell’ “Infinito”, e lì respiriamo tutta intera l’immensità e l’inquietudine leopardiana: stilemi e stati d’animo, la sensazione della precarietà e del nulla, l’ansia e il mistero dell’Assoluto (“… Mi prende il largo spazio: / sono nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastroso dell’immenso”).
Ed è, quest’ultima, la stagione che chiude il ciclo dell’esperienza e del contingente, per approdare ad un piano altro dalla conoscenza. E, come nell’ “Infinito”, anche nella lirica di Pardini si aprono scenari in cui la finitezza dell’uomo risulta irrimediabile e terribile.
Eppure, c’è un diverso finale di partita a differenziare l’esito delle due architetture esistenziali: infatti, a leggere in filigrana i versi di Pardini, non si fa fatica a scorgervi un respiro che abbraccia a più ampio raggio le ragioni dell’uomo: è quel filo che collega gli “antenati antichi” (non solo quelli della Tuscia e della Caria, i quali, ancorché cari al poeta, rappresentano pure semplificazioni nominalistiche) ai popoli di ogni tempo e di ogni luogo e ne accomuna il destino e le ragioni, dopo avere ancora una volta preso atto che, di fronte al mistero, non rimane che gettare il cuore oltre l’inconoscibile e, direi, kantianamente credere: “ corte le strade della nostra gente / drizzano templi / sopra verdi mari / immensi altari per i loro dèi”.