Intervista
A
PASQUALE
BALESTRIERE
A CURA
DI
NAZARIO PARDINI
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla
sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei
pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che
la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica
qualsiasi argomento tratti?
P. B. Le occasioni della vita sottese alla mia produzione letteraria sono quelle
che hanno generato emozioni tanto forti da pretendere, per quanto mi riguarda,
sfogo e visibilità. Scrivere in versi è stato dunque per me un atto necessario,
inevitabile. La prosa, ancora oggi, mi attrae di meno. Occorre però aggiungere che
le “occasioni” non sempre si sono
tramutate con immediatezza in segno scritto, anche per la mia natura poco
propensa all’esplosione sentimentale, ma invece tesa alla ricerca di una misura
che componga in un unicum i diversi lacerti della vita. Tuttavia la portata
emozionale, anche se frenata, riemerge, magari a distanza di tempo, e reclama
luce e voce. Molto mi aiuta, in questo mio dialogo con la poesia, un rapporto
decisamente intimo con la natura e con la campagna, lo scorrere delle stagioni,
la fugacità del tempo e la precarietà di questa nostra breve storia. Perciò nei
miei versi c’è molto di autobiografico che però travalica i confini del mio io
e si colloca in una dimensione più ampia e meno personale. Sicché, con
Terenzio, posso dire: “ Homo sum: humani nihil a me alienum puto”.
Poesia lirica e poesia d’impegno:
certo, c’è differenza. Eppure, in questo apparente binomio, non facciamo fatica
a scoprire la sostanza del monomio, sottolineata dal termine comune “poesia”. ”Lirica”
e “impegnata” sono aggettivi, cioè qualcosa di aggiunto al termine principale
per precisarne una qualità o una determinazione; proprio come la sostanza e
l’accidente nel linguaggio filosofico. Intendo affermare che occorre innanzitutto e
soprattutto, al di là di qualsiasi caratterizzazione o etichetta, creare o
produrre e far vivere la POESIA.
È questa l’esigenza fondamentale, perché la poesia è l’atto comunicativo
(insieme a scultura, pittura, musica, ecc.) più alto e nobile, in barba
all’affermazione montaliana, che peraltro ritengo provocatoria, in occasione
del Nobel conferitogli, appunto, per le sue qualità poetiche: “ Io sono qui
perché ho scritto poesie, un prodotto
assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo…”
N. P.: Essendo uno degli interpreti più conosciuti della poesia e della
cultura contemporanea, la sua poetica è in gran parte nota attraverso le
recensioni, le prefazioni, o le note critiche che la riguardano. Ce la vuole
illustrare lei direttamente?
P. B. Lasciando a lei la
responsabilità del giudizio di valore espresso nelle prime due righe e rispondendo
alla domanda dico che, nel corso del tempo,
ho maturato la convinzione che la poesia esista di per sé,
indipendentemente dai singoli (ma non dall’uomo in generale, senza il quale si
estinguerebbe); essendo una delle potenzialità umane, essa vive di vita non
visibile e si manifesta nell’atto interpretativo di uno spirito - faber o
poietès - capace di percepirla e di
darle vita reale e più o meno piena. Il
poeta, però, oltre a possedere sensibilità acutissima e capacità di
emozionarsi, deve essere padrone degli strumenti espressivi, veri e propri
ferri del mestiere, senza i quali la poesia continuerebbe a vivere di vita
virtuale. Il vero momento creativo si ha quando la sostanza poetica s’incarna
in una forma con la quale, proprio per questo processo, fa tutt’uno. E c’è anche
un’età della vita dell’uomo in cui, più che in altre, ci si scopre poeti o si
pongono solide premesse per diventarlo: è l’età preadolescenziale o
adolescenziale, quando l’individuo è chiamato a fare i conti con cambiamenti
radicali e repentini tipici di quella condizione. La capacità di emozionarsi di
cui ho parlato prima si potenzia, si esalta, si affina e si radica in lui, lo
pone nella condizione di vedere e di sentire ciò che altri non vedono e non
sentono, di scorgere l’inedito nella quotidianità. A volte penso addirittura
che il poeta faccia solo da cassa di risonanza della poesia, abbia un semplice, pur se eletto, ruolo medianico.
Di conseguenza, il mio mondo
interiore si esprime ogni volta che un’occasione glielo consenta o glielo
richieda. Non appartengo -non so se per fortuna o sfortuna- alla schiera
di quelli che scrivono versi
(magari graziosi ed eleganti) su qualsiasi futilità o frivolezza.
Credo che il mondo dell’arte, e della poesia in particolare, meriti rispetto e
non debba essere massificato o biecamente commercializzato.
Quanto a me, non riesco a
rimanere indifferente di fronte al male della vita, alla precarietà della
condizione umana, alla fugacità del tempo e alla caducità delle cose.
Percepisco la vita come un momento di
passaggio destinato a risolversi oltre le categorie di spazio e tempo, in
un’immensità senza confini. Salvo -magari- eventuali orfiche rinascite.
N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro
che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?
P. B. Ho sempre amato molto la lettura, con qualche esasperazione
dai tredici anni in su. Leggevo anche di notte, a letto e, per non essere
rimproverato, sparivo completamente sotto le coperte e illuminavo il testo con
una lucettina, dandomi con gioia all’avventura
del lettore, aperto a nuovi mondi, perso tra le storie di Salgàri, Scott,
Verne, Swift, Melville, Twain, Dickens,
Defoe,ecc. Poi, anche per motivi scolastici, l’incontro con Manzoni, Verga e
Hugo e, sul filo del romanzo, con i
grandi russi e francesi dell’Ottocento. Al liceo la rivelazione della grande poesia dantesca da
un lato, e dall’altro la progressiva conoscenza di poeti e scrittori della
letteratura italiana ed europea, specialmente dell’Ottocento e del Novecento.
Con la letteratura di quest’ultimo secolo, appena alle nostre spalle, ho avuto
un impatto non del tutto positivo, soprattutto laddove emergeva l’immagine di
un essere umano considerato come un’inutile e assurda appendice di un universo caotico
e illogico e di una società nemica e senz’anima; di un essere irrimediabilmente
sconfitto alla nascita, per il semplice fatto di essere venuto alla luce. E
quindi autori pur eminenti, come Kafka, Musil, Brecht, Joyce, Proust, giusto
per citarne alcuni, mi hanno lasciato sempre un filo d’amaro in bocca, benché
fossi consapevole che quella visione della vita, pur negativa, non era priva di
elementi di verità.
Oggi le mie preferenze, quanto
alla lettura, vanno ancora ai romanzi e, naturalmente, a opere di poesia. Amo
anche la biografia (mi interessa l’avventura umana), la saggistica e la critica
letteraria.
I libri che prediligo sono
“antichi” ed “epici”: Iliade, Odissea, Eneide, Divina Commedia, Orlando Furioso,
i Canti di Leopardi, I Promessi Sposi. Ma mi hanno profondamente attratto, per
un verso o per l’altro, tante opere di validissimi autori, antichi, moderni e anche
contemporanei, sicché mi è difficile esprimere delle preferenze.
N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare
uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?
P. B. Lo scrittore, che non è fuori dal mondo e che
deve fare i conti con la realtà che lo circonda, è un laboratorio perenne, dove
tutto è sempre in fieri; è un campo di battaglia di opposti sentimenti e
passioni; è anche il luogo in cui s’incontrano, attraverso la lettura e le
altre forme di comunicazione, esperienze diverse e talora conflittuali. Ma poi,
dopo un processo di riflessione e di sedimentazione, lo scrittore conserva -degli stimoli esterni- solo ciò che si
addice al suo modo di essere e che ormai è stato trasformato in un possesso
perenne. Questo vale anche per lo stile di un autore, che si forma nel (lungo)
tempo e che non può essere influenzato tanto facilmente. Se ciò accadesse,
specialmente se in misura rilevante, significherebbe che costui non solo non ha personalità artistica ma è ancora in fase
di formazione, oppure è assolutamente immaturo, essendosi instaurata la
dipendenza da un modello.
Certo, i grandi autori fanno
scuola, possono insegnare tante cose. Ma una cosa è l’apprendimento critico,
misurato, prudente; altra cosa è l’accettazione passiva, l’ipse dixit e la
semplice imitazione, che generano poi uno stile contaminato.
N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta
sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta ogni ritorno al passato? o, per meglio
intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o
a misure dettate da una rigida metrica?
P. B. La poesia è, per sua
natura, creazione, e dunque esperimento, prova, ricerca, innovazione,
vicissitudine sentimentale, intellettuale e verbale. Chi scrive versi si sforza
di tradurre la sua interiorità in forme e modalità per lui soddisfacenti e inedite. Lo
sperimentalismo linguistico puro e semplice ha dentro di sé il suo limite, in
quanto l’atto creativo è tutto sbilanciato sul versante formale, trascurando
l’aspetto emozionale, senza il quale non esisterebbe al mondo alcuna opera
d’arte. Per questa strada si arriva all’artificio più sofisticato, all’intellettualismo
più angusto e onanistico, alla preziosità elitaria e quasi esoterica. Penso,
per il passato, al Gruppo ’63; e, per il presente, al gruppo che fa capo alla
rivista Anterem.
Certo, il “ ritorno al passato”
non può essere uno sterile riecheggiamento di modi, forme, aspetti di un
periodo magari esemplare sotto vari profili artistico-culturali, come, per
esempio, quello classico greco e latino. Un solo aggettivo si addice pienamente
al passato: necessario. Al presente e al futuro. Cioè alla vita. Se ciò
è vero, ogni tentativo di scrollarselo di dosso è destinato al fallimento. Si
voglia o no, il passato “è” nel presente da cui è inscindibile. Ma sarebbe altresí
un grave errore attribuire al passato una funzione normativa e paradigmatica.
Rifiutare l’endecasillabo si può, ma non è lecito scrivere versi in libertà, non
rispettare alcuna norma e limitarsi a seguire un presunto ritmo interiore che spesso nasconde solo incapacità di
scrittura metrica, indispensabile invece,
nel suo senso più ampio e complessivo,
alla poesia. E, già che ci siamo, vorrei obbiettare qualcosa a coloro
che chiedono la condanna a morte della metafora e di altre figure retoriche, ritenendole
responsabili di chissà quali misfatti: esse sono in realtà strumenti poetici dei quali talvolta si è
fatto abuso. Ma, a parte il fatto che “abusus non tollit usum”, le figure
retoriche non sono il “male”ma il “sale”della poesia, in quanto le danno forza
e bellezza, segnano uno scarto dalla prosa (pur se non mancano anche in questa
forma espressiva che privilegia l’analisi, mentre la poesia ha il taglio della
sintesi). Tali figure, però, devono essere parte integrante del processo
creativo e non inutile orpello e aggiunto abbellimento, come oggi
frequentemente accade.
Per gli antichi il poeta era un “sacerdos
Musarum”, con tutta la sacralità che ne discende. A me basta che il poeta sia veramente tale,
perché la poesia è arte seria (anzi severa), ma
bella e vera. E merita rispetto, sicché
non ha certo bisogno né di mestieranti né di improvvisatori.
N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a
partorire antologie frutto di selezioni di Case Editrici? di questi
innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?
P. B. L’editoria italiana ha lo
stesso comportamento delle banche, nel senso che la sua azione è esclusivamente
volta a fini di lucro. La cosa non sarebbe di per sé condannabile se non fosse
che l’editoria è anche servizio per i cittadini, e quindi dovrebbe offrire prodotti sempre all’altezza. Invece accade
troppo spesso che ci vengono proposte opere assolutamente scadenti, firmate da
politici, attori, sportivi, insomma da personaggi noti al “grosso pubblico”
che, proprio per questo, garantiscono all’editore sostanziosi ritorni economici.
Le case editrici medio-piccole si adeguano, naturalmente su scala ridotta, con
qualche rara lodevole eccezione. Il risultato complessivo è che autori
meritevoli rimangono semisconosciuti o
ignorati del tutto, mentre trionfa l’editoria della banalità, dell’ovvietà,
della superficialità. Quanto agli innumerevoli premi letterari sparsi sul suolo
italico, dopo aver premesso che io ne sono discreto frequentatore, mi sento di
confermare che sono davvero troppi (diverse migliaia!); e di aggiungere che spesso sono inadeguati per
una serie di motivi, primo fra tutti la composizione delle commissioni
giudicatrici in cui abbondano individui di dubbia competenza o che addirittura
non sanno distinguere un rigo da un verso; poi la dotazione economica, spesso
assolutamente inadeguata o inesistente:
non si può pretendere che un autore si sposti dalla Sicilia per andare a
ritirare una targa, poniamo, in Toscana, in Emilia o in Lombardia, senza alcuna
copertura finanziaria. Esistono però premi seri, che guardano a questi e ad altri aspetti
organizzativi (ospitalità) con grande attenzione. E perciò sono molto
frequentati. Voglio citarne uno per tutti: il “Città di Quarrata”, al quale
partecipa la stragrande maggioranza dei poeti italiani che frequentano i
concorsi letterari. Senza contare che, in occasione delle cerimonie di
premiazione, gli scrittori si conoscono o si ritrovano, si stabiliscono
amicizie più o meno profonde e durature, si vivono esperienze altrimenti
impossibili.
N. P.: Certamente sarà legato ad una sua opera in particolare. Ne
parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di scrittura, alla
scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della
funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e della funzione della realtà
nei confronti di un’analisi interiore?
P. B. No, non sono più legato a
un’opera piuttosto che a un’altra. Proprio come mi accade con i figli, le amo
tutte, con i loro pregi e difetti. A
volte qualche singola lirica sembra
attrarmi un po’ di più di altre. Ma questo capita subito dopo la composizione,
poi l’effetto passa.
L’impulso a scrivere mi arriva
all’improvviso, da un evento, un odore, un sapore, un colore, un suono, un
pensiero. Dalle cose più diverse, insomma. Getto giù il testo, magari in furia,
magari alzandomi di notte dal letto, nel timore di perderlo. Poi lo lascio lí,
per giorni, mesi o anni, fino a quando non giunge la seconda fase dell’atto
creativo che determina il testo nella sua compiutezza (la quale non è mai
finale, nonostante un severo lavoro di lima).
Relativamente alla funzione della
memoria in poesia, visto che noi siamo ciò che ricordiamo, sostengo che non si
può impunemente togliere spazio alla memoria senza togliere spazio alla vita
stessa. E d’altronde, come tutti sanno, non a caso il grande Leopardi
attribuiva una insostituibile funzione all’aspetto memoriale nella poesia. Tutto sta, poi, nel fare autentica poesia
“nella” o “della” ricordanza .
L’ultima domanda mi riporta alle
contrapposizioni della filosofia idealistica tra l’io e il non-io, tra lo
spirito e la materia o al dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa.
Il fatto certo è che la realtà è termine necessario di confronto per il mondo
interiore di un individuo che non intenda chiudersi alla vita circostante; ma è
anche un limite e spesso un ostacolo da superare o addirittura insuperabile,
come dimostrano le opere di Svevo e Pirandello.
N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata
magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il
Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a che punto l’interesse per
la poesia può incidere su questo disorientamento morale (ammesso che lei veda
questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben altro di fronte ad una
carente cultura politica per questi problemi?
P. B. Premesso che questa nostra
epoca è scossa e travolta da una crisi generale davvero preoccupante per il
ripudio di valori fondamentali e che tale crisi si mostra con evidenza anche
nel mondo artistico, a me pare che la nostra letteratura contemporanea, a parte
alcuni nomi validi – alludo anche ad autori viventi -, lasci molto a
desiderare, pure perché le case editrici
importanti, intendendo trarre il massimo vantaggio economico da ogni
pubblicazione, stampano solo opere (scadenti) di personaggi letterariamente
insignificanti, ma, come ho precedentemente affermato, ben noti al pubblico
(che spende); o di autori immeritevoli, giunti al traguardo della pubblicazione
non si sa per quali “torti sentieri”.
Non credo di avere un quadro
abbastanza chiaro dell’editoria e della letteratura straniere ma, dagli elementi in mio possesso, la
situazione complessiva appare migliore
della nostra, con editori più “illuminati”e più disposti ad investire e a
scommettere su qualche nome emergente.
I grandi premi letterari sono
generalmente circoli esclusivi, dove o per compiacenza o per interesse o per
amicizia , le giurie premiano i soliti noti, nell’eterno gioco del do ut des. Solo raramente il successo
corrisponde al merito.
Quanto al rapporto tra poesia e
società, non mi pare che esso sia solido, e neppure diffuso e consueto. Ciò
avviene sia perché l’uomo d’oggi rincorre affannosamente il benessere materiale
e spesso è costretto a lottare addirittura per la sopravvivenza, sia perché dal
Decadentismo in poi ( e forse già da prima) si è approfondita sempre più la
frattura tra poeti e pubblico, fino a sfiorare l’incomunicabilità; alla quale
si è giunti un po’ perché i poeti hanno adottato tecniche e mezzi espressivi
più eletti e peregrini, e perciò meno
comprensibili, un po’ perché il pubblico, con un interesse nei confronti della
poesia già diminuito, ha trovato difficoltà a comprendere e a
interpretare. Con queste premesse, la mia opinione è che la
poesia possa incidere davvero poco sull’attuale situazione di crisi e di disorientamento morale. Occorrerebbe,
per una rinascita complessiva e globale, che riacquistassero il proprio ruolo e
la propria dignità la famiglia e la scuola. A questo punto, però, il discorso si fa ampio e complesso e non mi
pare questa la sede giusta per continuarlo.
N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o dell’arte
in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe
invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?
P. B. Mi
piacerebbe che nel mondo dell’arte
emergesse il merito, che fossero spazzate via conventicole, camarille e
combriccole letterarie e artistiche, che i critici svolgessero onestamente la
propria funzione, che sparissero invidiuzze e gelosie; e, infine, che il
pubblico fosse degnamente preparato (dalla scuola e dai mezzi di comunicazione)
ad accogliere il messaggio di un poeta o di un pittore.
Se l’arte non
cambia il mondo, è quasi esclusivamente per difetto di comunicazione.
E,
naturalmente, lunga vita alla poesia, quella vera!
La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog
Alla volta di Leucade blog.
La ringrazio per la sua disponibilità.
Nazario Pardini 28/06/2012
Con Pasquale Balestriere ho la fortuna e il piacere di condividere moltissime cose sull'argomento "poesia", avendo un percorso alquanto parallelo che ci accomuna e che favorisce i nostri incontri, davvero frequenti, sia in occasione di premi letterari, e sia in convegni, eventi, letture di poesia, ecc. La sua esperienza poetica è notevolissima, e direi che pochi, come lui, affrontano il difficile e "spinoso" mondo della Poesia con consapevole competenza e impegno nella ricerca.
RispondiEliminaQuesta intervista, condotta magistralmente dall'amico Nazario Pardini, non fa che confermare, a mio avviso, quanto già espresso circa il Balestriere-poeta, che è tutt'uno con il Balestriere-persona, in quanto è impossibile scindere l'attività poetica (come se fosse un lavoro qualsiasi!...) dall'essere persona creativa e che crea però con intelligenza e studio applicativo.
Sono d'accordo con lui su tutte le riflessioni esposte nell'intervista, in modo particolare sul tema dei concorsi letterari e sull'editoria.
In un mondo davvero così frastagliato e banalizzato (e banalizzante!...), anche nell'arte creativa, c'è bisogno di punti fermi, di punti di assoluto spessore. E Pasquale Balestriere è uno di questi "punti", senza dubbio.
Complimenti e un caro saluto!
Giuseppe Vetromile
Mi sembra una lucidissima analisi di ciò che oggi la poesia conta e fa, testimoniata da un poeta serio e volitivo che non oscura la ragione per le passioni e parla in modo chiaro per tutti noi. Stelvio Di Spigno
RispondiEliminaLa prima cosa che colpisce di questa intervista è il linguaggio. E’ la parola. E’ sconcertante la facilità con cui Balestriere trasmette contenuti estetico-letterari di una certa valenza propositiva. Dimostra di possedere una ricchezza verbale talmente calzante e personale da invitare ad una rilettura, tanto è il fascino che ne emana. Il tutto è frutto, certamente, di una ricerca assidua e puntigliosa che il Nostro effettua nel campo della poesia: una poesia senza confini fra lirica, civile, epica, o mitologica, perché tutto scaturisce da un sentire intenso e partecipativo che si fa valore aggiunto nella sua produzione e che rende ogni argomento Arte, e basta!, solo e soltanto Arte. E Balestriere è uno dei poeti più validi in campo nazionale. Lo dimostrano gli innumerevoli ed importanti Premi vinti. Le sue opere sono zeppe di motivazioni umane controllate da un dire classicamente equilibrato ed avvincente per la verniciatura di nuovo che sa dare loro: risultato di una lunga storia culturale. E come non concordare con le sue idee sulla editoria, sulle commissioni dei Premi Letterari, sulla poesia lirica e d’impegno. Scaturiscono, i suoi convincimenti, oltre che dall’animo del poeta, dal Balestriere persona. Generoso, ama la terra e non per modo di dire, o con accezione panico-idilliaca, la ama coltivandola, zuppandola di sudore. E la sua fatica si traduce agilmente in poema di grande fattura umana ed ultra/umana. Sa andare alle radici dell’umanità e da là ripartire per costruire la sua storia che porta sulle spalle il peso di tutti noi, tanto è oggettivo il messaggio. Schietto, sincero, capace di amare gli amici come pochi altri, ma anche di lottare per le proprie idee con interventi critici, propositivi, e costruttivi, al bisogno. E in questa intervista vi è tutta la sua schiettezza: "pane al pane vino al vino", si dice in Toscana. Non so se anche nelle altri parti d’Italia.
RispondiEliminaQui la sua poetica:
"Per gli antichi il poeta era un “sacerdos Musarum”, con tutta la sacralità che ne discende. A me basta che il poeta sia veramente tale, perché la poesia è arte seria (anzi severa), ma bella e vera. E merita rispetto, sicché non ha certo bisogno né di mestieranti né di improvvisatori."
"... Percepisco la vita come un momento di passaggio destinato a risolversi oltre le categorie di spazio e tempo, in un’immensità senza confini. Salvo -magari- eventuali orfiche rinascite."
Qui la sua schiettezza:
"Quanto agli innumerevoli premi letterari sparsi sul suolo italico, dopo aver premesso che io ne sono discreto frequentatore, mi sento di confermare che sono davvero troppi (diverse migliaia!); e di aggiungere che spesso sono inadeguati per una serie di motivi, primo fra tutti la composizione delle commissioni giudicatrici in cui abbondano individui di dubbia competenza o che addirittura non sanno distinguere un rigo da un verso; poi la dotazione economica, spesso assolutamente inadeguata o inesistente: non si può pretendere che un autore si sposti dalla Sicilia per andare a ritirare una targa, poniamo, in Toscana, in Emilia o in Lombardia, senza alcuna copertura finanziaria..."
Qui la sua cultura e la sua filosofia:
"L’ultima domanda mi riporta alle contrapposizioni della filosofia idealistica tra l’io e il non-io, tra lo spirito e la materia o al dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Il fatto certo è che la realtà è termine necessario di confronto per il mondo interiore di un individuo che non intenda chiudersi alla vita circostante; ma è anche un limite e spesso un ostacolo da superare o addirittura insuperabile, come dimostrano le opere di Svevo e Pirandello."
Insomma direi tutto: l’uomo, il poeta, il professore, perché no, quel professore che con un contatto di anni ed anni coi suoi ragazzi, ha continuamente rinnovato, rinnovandosi, quel seme innato che è in lui di generosità e di poiein.
E noi ti ringraziamo Pasquale.
Nazario Pardini