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venerdì 6 luglio 2012

Nazario Pardini: Lettura di "Ver sacrum", di Franco Campegiani



Franco Campegiani. Ver sacrum. Edizioni Tracce. Pescara. 2012. Pp. 64. Euro 11

Oggi 5 luglio 2012 mi è giunta una gradita sorpresa: il libro di poesie di Franco Campegiani dal titolo Ver sacrum. E con grande entusiasmo,  voracità interpretativa, e curiosità, cercando, anche,  affinità elettive, ho iniziato dal palparlo, gustando lo sfrigolìo delle pagine avorio saporose di stampa, valutandone la veste grafica, l’impaginatura e le finezze editoriali, adeguate a tanta scrittura estetico-filosofica come quella del Nostro. Così ho cominciato a divorare gli etimi, intento a carpirne il filo conduttore,  l’organicità che da un filosofo ci si aspetta. E se il filosofo intende trasferire la sua rielaborazione di vita e ultra/vita, i suoi concetti plurimi di storicismo-esistenziale in lampi di poesia; di poesia, dico, che si nutre essenzialmente di frammenti d’anima antecedenti alla ragione; di substantia  recondita che si traduce in visioni supportate da figure stilistiche e significanti metrici di grande impatto lirico; di poesia che inavvertitamente fa rivivere, dandogli corpo, inaspettate figure decantate da anni e per questo vive più del reale, perché fattesi immagini. E, dunque, se per poesia s’intende sentimento, immaginazione, sogno, ragione anche, a patto che sia zuppata nel pozzo infinito e misterioso dell’inconscio umano; e se poesia è attacco di note pucciniane su uno spartito che fa dell’armonia il sottofondo indispensabile del poiein; per il filosofo può diventare arduo il lavoro di coniugazione, a meno che faccia della parola quell’avventura di traslati, e di slanci iperbolici che vadano oltre il pensiero scientifico, che vadano oltre insomma. E venendo al sodo, la prima cosa a colpirmi, dopo le due letture, è stata la narrazione dell’uomo che parla di sé, come essere sociale in conflitto, con impeto e riflessione, (ossimorica dicotomia che si farà teoria dei simbiotici contrasti in Campegiani) con l’intenzione di circoscrivere al suo ego il male di esistere, il taedium vitae, e fare di sé il componente involontario di una società in fallimento: “pro tempore i diritti umani/ sono scesi dall’alto. / Non farne squallide parole, / giornali ingialliti, / comizi, manifesti, / bla-bla-bla-bla.” (Civiltà pirata).  Ma il suo dettato è talmente e soggettivamente sentito che da ragione si somatizza in spirito universale, in messaggio forte di condanna e di speranza. Ver sacrum, quindi, come visione di una novella primavera che riporti l’uomo a ritrovare se stesso, la sua umanità, alla ricostruzione ancestrale di un tessuto sociale: “Ma non si sfalda quest’atomo pianeta, / anche se la terra trema / e i mari imputridiscono / e si snervano i cieli / ai lampi nucleari. / Tutto tornerà al suo posto, vedrai. / Non può distruggere l’uomo, / né costruire, altri che se stesso”(Nel segreto degli abissi). Ver sacrum, quale messianico annuncio, mitopoiesi di un’età dell’oro, preannuncio di terre feconde, di soli splendenti e di connubi rinnovati fra l’uomo e l’essere che è dentro di sé: “Erranti raggi / di quel vivido sole, / non sapevamo / di averlo nel sangue, quel sole, / una luce che rideva e giocava / disfacendo le viscere umane /… / Oggi uccidiamo il re tiranno / nella selva votata alla dea Diana, nella radura sacra alle nascite / e ai nuovi albori”. (Ver sacrum). Un mondo che si è allontanato sempre più dalla spiritualità, per naufragare in un materialismo che disconosce “il valore intrinseco della valorizzazione umana” (dalla prefazione di Ninnj Di Stefano Busà). Si prega Usuni, dio di un nuovo mito: “Da dove viene Usuni? / E’ forse sceso dal graffito / o da una grotta d’africana terra / … ?/ Ora danza tra clacson impazziti / nel nero smog con Erba Viva e Muta, / …/ O Grande Spirito, cerulea Voce, / possano i tuoi figli senza storia / - loro, radici senza fusto, / noi, pianta senza più radici - / riportarci nel vento degli angeli, /…/ noi avulsi dal cielo e dalla terra / e fuggiti dall’edenico coro, / spettri evasi in dedali nebbiosi / ricchi di storia e senza canti.” (Preghiera). È l’universo intero, la società nel suo complesso, la Storia da che è Storia a partorire quel male e quel bene che non sono poi antitetici, ma insiemi simbiotici di una dialettica eraclitea che - erroneamente intesa - produce il fallimento dell’essere in quanto componente stesso di una totalità denutrita di ideali fondanti: “Ti scandalizzi / per l’ipocrisia degli altri, / per l’idiozia degli altri / e non t’accorgi / che sei solo un borghese rovesciato. / La vita è brutta perché è bella. / Questo non capiscono i cittadini.” (A Sartre, borghese rovesciato). “Mai mi dicesti / che c’è un male che fa bene, / ma lo capivo dai tuoi gesti, / padre contadino, / dall’urlo muto / delle viti che potavi, / dal sudore vivo della fronte, / dalle doglie della terra partoriente / che con amore coccolavi, / affinché tutto risorgesse / nuovo e bello dalle brume invernali.” (Il male di oggi). Versi brevi, concisi, lucidi, mirati al messaggio polposo di filosofia di vita. L’autore va al sodo senza preamboli né orpelli di abbellimento, abbandonandosi a versi di un lirismo sconcertante, puro ed armonioso che scuote le corde dell’anima. È qui il poeta Campegiani. Nella sua grande storia di un uomo che ha perso identità in un mondo labilmente umano e fortemente disumano. Metamorfosi riuscita, dunque. L’arte, categoria dello spirito antecedente alla funzione della ragione, si fa tale, se interviene con forza suasiva tutta l’esplosione dell’anima, tutto l’afflato del sentire, tutto il potere immaginifico, e il corale supporto dell’ambiente con le sue lune, le sue colline, il suo mare, le sue albe e la sua sera, con il vento che accende il mattino, o coi filari dove l’alba verserà quel suo fresco vino turchese  a nutrire una teoria filosofica. E non è certo peccato se la ragione si fa ancella dei sentimenti per tramutarsi in vertigini liriche: “Donnaluna, faro del cosmo, / bianca gemina / dell’impervia roccia apuana, / tu, madre del cielo / e signora della terra, / freddo argenteo notturno mistero, / ora qui, clonata nel mio letto,/ calda amante e struggente / femmina regale…”  (Luna apuana). Sta in questa simbiosi di brutto e bello, di Caino e Abele, di male e bene, di luce e buio, sta in questo scandalo della contraddizione la vita dell’uomo. E il tutto è umano, troppo umano.  La Poesia del Nostro sta tutta nel saper rovesciare sul foglio un teorema filosofico (lui filosofo) ritmandolo, però, con l’alternarsi di battiti cardiaci a seconda dell’indignatio, della ribellione, della constatazione, della  partecipazione, ma, anche, e soprattutto, della speranza. Sì!, perché la poesia è ragione, è morale, è vita, è sofferenza, è coscienza di esistere in uno spazio ristretto, è taedium, ma è soprattutto cuore, cuore che abbraccia e lega tutti gli elementi ispirativi in una fusione sine tempore, alla ricerca, mai appagante, di sintattiche invenzioni, e corpi sintagmatici per dare loro concretezza. E se i riferimenti panici sono tanti, e se a volte sembra che l’autore si abbandoni ad una partecipazione naturistica di ispirato connubio lirico, non ci lasciamo ingannare; tutto è impiegato a esemplificare il suo progetto; ed ogni riferimento naturale (stupende le liriche: Terra,  Saremo, Condurrà il gregge, Sotto il monte nevoso) è uno dei tanti tasselli di una costruzione logico-esistenziale lineare, organica e risolutiva. Ma è in queste liriche che l’autore dà il meglio di sé, sbrigliandosi un po’ dalla visione di una società che vive di bene e di male, di questo dualismo storico e dove l’uomo può distruggere solo e soltanto se stesso.  Ed è qui che “…Era il sole una ferita nel cielo, / un passaggio di sangue, un’osmosi / nel cielo, tra i due mondi. / Senza indugi tu mi portasti / alle sante radici, alle ragioni / ultime e prime del big-bang, / dolenti scaturigini festose della vita…” (Sotto il monte nevoso). Ed è qui che “E saremo un unico / molteplice divino, / una sola fraterna nazione / dall’uno all’altro mare, / nell’essenza dei cuori, / lontani dal vampiro ammaliatore” (Saremo). Ed è qui che “Puntuale e copiosa, mia terra, / nell’ossequio sacrale elargisci / le tue mèssi a me contadino” (Terra).
Cercare in Leopardi il filosofo è un errore commesso più volte. In Leopardi ha valore quel progetto speculativo, tutt’altro che pessimistico, che ha nome poetica. Perché in lui vince il sentimento sulla ragione e la ragione stessa è disposta a favorire il più possibile l’espandersi dell’atto poetico. E in Campegiani tutto si risolve in Poesia: la parola si arrotonda, si contorce, si dilata, si amplifica, si smorza o si affievolisce in quell’azione desanctissiana di farsi unica responsabile della riuscita estetica. Perché parola non è solo suono, ma contenitore mai umanamente sufficiente a coprire le esigenze dell’anima. E anche se “Il male d’oggi è chiuso in un recinto / di plastificate muraglie, / ghetto refrattario in una cupola / agli spiragli di luce” in Campegiani sembra primeggiare la speranza di un dio fatto di uomini fratelli e di terre rinnovate per vincere il re tiranno dove “Prenderemo il suo posto, nuove leve, e nei boschi dell’anima / metteremo gemme e radici. / Fedeli al ver sacrum, / ci cresceranno le ali e chissà / se saremo all’altezza dell’amore” (Ver sacrum). E dove “Grata la terra partorirà / primizie e mèssi a non finire. / Gli azzurri mari canteranno / la vita che viene dal profondo / e le vette immacolate, / mute ascolteranno / il grido selvaggio e vivido dei cieli” (Saremo). E se tutto è immutabile e tutto è in mutazione, e se il bene e il male fanno parte delle vicissitudini storiche dell’uomo in quanto essere umanamente umano con aspirazioni all’oltre, anche il poeta, in quanto uomo, ragiona sulla vita, sulle possibilità dell’essere e dell’esistere, sulla morte e la perpetuità, azzardando lo sguardo oltre i limiti dei confini, oltre l’irrealtà del reale, oltre la possibilità dell’impossibile, perché  “la vita sarebbe virtuale se non ne tentassimo un’uscita”. D’altronde la Poesia è quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile.      
        
          Nazario Pardini                                                                   07/07/2012

1 commento:

  1. Davvero difficilissimo commentare una simile recensione. E' l'essenza della teoria filosofica del mio Amico Franco ed è il cuore della sua natura poetica. Nazario da finissimo cultore delle parole ha infranto ogni limite e ha scovato il sublime, il sacro, il taedium vitae, il senso altissimo del 'sole che srge nuovo ogni giorno'.
    Conosco da anni il Poeta, filosofo, critico letterario Franco Campegiani, ho letto e metabolizzato la sua rivoluzionaria "Teoria autocentrica", sono profondamente innamorata di ogni sua lirica, ma avrei voluto saper esprimere i concetti che sedimentano sul greto del mio fiume interiore con termini simili a quelli usati dal caro Nazario.
    Oggi so che non saprò MAI recensire!
    Esprimo la mia profonda ammirazione per il mio amico antico e per Lei, Amico nuovo, che mi stordisce.... Maria Rizzi

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