Cantavamo
Cantavamo, paese, se affogavi
nel giallo dei granturchi.
Cantavamo sui pavimenti
dove si stagliava la luce del
camino.
Cantavamo sopra gli alari
arroventati dalle pire delle
potature
(la loro colpa era quella di
avere chiuso la stagione).
Cantavamo romanze,
i cui eroi vincevano
battaglie
che noi perdevamo ogni
giorno, ogni ora
(cavalli bianchi, cavalieri e
palafrenieri incorruttibili dal tempo).
Anche le madri cantavano già
vecchie trentenni
e muovevano le mani
gesticolando sui ritmi.
Mani tumide per le umide
terre delle prode.
Eppure ogni anno la natura si
sacrificava paganamente
sui roghi, nei forni e sulle
corti,
per consegnarci i suoi
profumi
(profumi che io conobbi
sempre eguali
e che sembravano non soggetti
a mutamenti).
Cantavamo romanze e stornelli
coi vinelli freschi del
novembre.
Quando le botti ci
accompagnavano
coi loro vocalizzi profumati,
rossi e iterati come gli
strappi delle roncole.
I padri coi riti tramandati
dagli aruspici etruschi
roteavano il primo liquido
nel vetro predicente
per misurarne il corpo. Era
la festa delle cantine,
la stessa festa che più volte
presso gli antichi
avrà veduto Bacco e Cupido
aggirarsi divertiti
al suono di zufoli e
litofoni.
Cantavamo preghiere che Pan
ci ispirava di ringraziamento
pei fulvi grani, pei pampini
rossicci o pei vermigli frutti;
preghiere che i pagani
consegnarono pietosi nelle
mani
dei cristiani facendosi
santi.
Cantavamo senza perché la
madre eterna
potesse anche essere
ingiusta.
La pregavamo sulle strisce
d’oro dei tramonti;
se esplodeva nei protervi
affollamenti estivi;
se cadeva stanca meritandosi
la morte;
o se riposava sotto i diluvi
e le gelate.
E sembrava persino ringraziarci
o chiederci perdono
per le siccità, per le
carestie o le morti precoci;
lo faceva turgida coi
crisantemi e gli asfodeli
sui suoi cimiteri
aperti al cielo colle loro
croci.
(Da Radici. Edizioni
Giuseppe Laterza. Bari. 2000)
Giù per i sassi
Giù per i sassi
e in mezzo alle rovine
zoppica il piede incerto e
vacillante;
la mente torna
su templi e mura ardite,
su donne della Caria
di forme trasparenti,
prospicienti i fianchi.
Bianchi uccelli
stendono le ali
sopra i viali di una tarda
sera
e passeri su lastre di millenni
beccano insetti su scavati
solchi
da carri tusci di antenati
antichi.
Vacilla il piede sopra sassi
austeri
e l’animo si turba
se la vista si rivolge al
cielo,
al giorno che termina la
sera.
Sassi di marmo
crepuscoli di fuoco
vita leggera satura di morte:
corte le strade della nostra
gente
drizzano templi
sopra verdi mari
immensi altari per i loro dèi.
(Da Le voci della
sera. L’Autore Libri Firenze. 1995)
La fuga
Il rumore del popolo vaniva
allo strèpere del treno. Le
madri,
i padri con i figli si
accalcavano
alle barche. Non c’era più
timore
tra di loro; bramavano
soltanto
penetrare sulle luride
zattere
adatte per i porci. Si
pestavano.
L’umanità spariva. I genitori
premevano le braccia sopra i
corpi
indifesi dei figli. Dalle
bocche
usciva un po' grigiastro (
come quando
si agita il vento nelle forre
e porta
in alto il turbinio) un fumo
denso.
E si era aperto il mare. Là
accalcati
gemiti umani defilati ai
venti
zuppati di salmastri e di
miraggi.
Era il fiottìo dell’onde
ormai affidato
alle mani grecali. La
speranza
era la fuga. Si pensava di
certo
ad un paese nuovo
che offrisse quel motivo
sacrosanto
di vivere di pace e di
lavoro.
Lasciavano alle spalle quei
natali
d’odio e d’eccidio di anni in
cui il regime
aveva reso vano ogni pur
minimo
valore di esistenza. Più la
patria,
più la terra degli avi o un
solo lembo
di cielo, d’orto, o di
giardino che
ricordasse qualcosa della
verde
giovinezza o della veneranda
vecchiaia, permaneva. Solo
brama
di fuga. Solamente antiche
voglie
di rinverdire libertà sognate
anche a rischio di morte o
peggio ancora
di morte della prole, li
spingevano
su quel mare turbato dalle grida
di speranza, di dolore e di
sgomento
su fuscelli di legno. E venne
terra.
Terra amara di scogli dove le
onde
divelsero le mani abbarbicate
alle livide sponde. Dove i
flutti,
con irruenza, spesso si
prendevano
solo i corpi di carne. Ormai
gli spiriti
avevano di già varcato i
limiti
tra sogno e realtà, tra
turbamento
e pace. Dai relitti
si vide uscire un volo di
falcate.
Saranno stati angeli.
Ma forse solamente dei
gabbiani
nelle sembianze uguali a
stormi d’anime.
(Da Si aggirava nei
boschi una fanciulla. Casa Editrice ETS. Pisa. 2000)
Carso
Sopra i suoli innevati dei
declivi
del Carso, ci apparve poi una
donna
novantenne, coi fiori nelle
mani
tremolanti e insicure. Tra la
neve
(rossa neve di morte fu il
suo dire
del quale noi restammo assai
perplessi
e certamente avvinti)
rovistava
per dissodare un varco. Poi
si aprì
ai nostri occhi una voragine
di un
cunicolo di monte. Sono
tipiche,
in quei pianori carsici, le
foibe.
Pochi i raggi di sole
incastonati
in quei tepali brevi di
stagione
tra la neve macchiata dal livore
delle rocce supreme. Con la
voce
rotta dall’emozione volse
l’occhio
al nascosto strapiombo:
“Inverne fosse
che contenete i resti di mio
figlio
in fondo al ventre buio,
ricevete
questi colori memori di luce.
Fate che questi sprazzi di
giardino
che vide i nudi piedi
barcollanti
di lui che fu bambino, gli
ricoprano
i resti mescolati assieme a
tanti
di cui conosco i nomi. Il
solo cippo
al quale posso dire una
preghiera
è questa nuda pietra,
silenziosa
compagna di due legni messi
in croce
che solo io conobbi e solo io
ne eressi l’esistenza. Troppe
voci
non si udirono più, troppo
potere
si scordò di quel sangue”. La
mia anima
si rivolse alla donna che in
silenzio
chiedeva solamente
rispetto del dolore. Ripeteva
le solite parole un po'
sconnesse
tra di sé. “Coi camion, mi
dicevano,
li portano al lavoro.
Camion zeppi di giovani e di
vecchi.
Ma tornavano vuoti.
E vuoti ritornavano dai
lividi
sentieri. Mi dicevano che i
camion
li avrebbero portati sul
lavoro
in cima al monte. E muti
ritornavano,
ritornarono vuoti verso il
piano”.
(Da Si aggirava nei
boschi una fanciulla. Casa Editrice ETS. Pisa. 2000)
DA “Il canto di Saffo”
*
* *
[…]
Vorrei vedere di Elena il barbaglio
sopra il suo viso chiaro, vorrei
scorgere
di Elena il portamento, il femminile
incedere. Di ciò sono bramosa,
di questa libertà che provo anch’io
nel fondo del mio seno. E questo è
umano,
è divino ed eccelso. Quest’amore
che strugge il mio sentire, la mia
carne.
Cola sudore, un tremito mi preda,
mi faccio verde, più verde dell’erba
mi vedo, che la morte così tanto
lontana poi non pare. Ed il tuo trono
è vario e le tue trame sono subdole
Afrodite. Raggiungimi, raggiungimi.
Già un’altra volta ti giunse la mia
voce distante. Tu l’esaudisti.
Avevi messo al giogo del tuo carro
passeri lievi. Ed eri trascinata
sopra la terra bruna dal frullio
folto dell’ali. È questo il carro d’oro
che strugge la mia anima e dattorno
alita canti, suoni e incantamenti;
non di certo lo fanno i carri lidi,
o il greve stridere bronzeo dei fanti,
od il nitrire tetro delle guerre. -
(Da Il
Canto di Saffo in Alla volta di Leucade. Baroni Editore. Viareggio. 1997)
Ignoto
verso il mare
Il cielo è terso e il bianco della luna
quasi inneva i miei campi. I passerotti
rapinano il tepore delle piume
sui rami che sperano dal cielo
nuove buttate da donare ai nidi.
È febbraio. Non vedi per i campi
traccia di paesani; tutto è fermo.
Persino lo svolare
attende l’ora calda. Mi
soffermo
sul prato più vicino a casa mia,
calpesto il suolo,
e il piede batte fesso sul tostato.
Ma è il mese che si avvia
a prometterci speranze; la mimosa
staglia il suo giallo sopra la campagna
e ricorda il colore di ginestra
che gonfierà l’estate. A te mi dono
mese di nostalgie! Di quando a sera
ci si accostava al fuoco con un animo
già pronto ad incontrare primavera:
il piede scalzo, le corse fra le vigne,
la sorpresa di un nido tra i filari.
E ti rivivo,
seppur la mia speranza
non cova rami in fiore;
e anche se negli spasimi
di due colombi sopra la grondaia
me la ricordo lesta,
ora è la voglia d’altro
che mi riporta a un fiume
e mi trascina ignoto verso il mare.
(Da L’azzardo dei confini. BookSprint
Edizioni. Salerno. 2011
Non
il rimpianto di una umanità più buona e autentica, quando la "natura si
sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti, per consegnarci i
suoi profumi", non la denuncia più o meno velata di ingiustizie, delle
eterne ingiustizie che sconquassano il tessuto sacro della pace e della
collaborazione: ma un più veemente e vibrante canto, sebbene controllato con
poetica maestria, che possa costituire memoria fondamentale e patrimonio
culturale per proseguire consapevoli e giusti sulla strada evolutiva della
storia. Questo, in sintesi, è quello che si può trarre dai testi di Nazario
Pardini, che qui di seguito offriamo alla lettura attenta degli amici che ci seguono.
Si tratta di una poesia matura, forte, icastica, che si snoda con tonalità
altamente musicali, e che riverberano nell'animo del lettore affezioni e
sensazioni veramente intense. La poesia di Nazario Pardini, con la sua
musicalità e i suoi richiami, è senz'altro punto di partenza per ulteriori
scandagli nei nostri cuori e nelle vicende del nostro mondo attuale. (G.
Vetromile)
Stupende poesie, di solida costruzione artigianale, come ogni vero
poetare, capaci di spunti e aperture notevoli. Come sempre, grazie all'autore e
a Pino Vetromile. Stelvio Di Spigno.
Leggendo queste poesie di Nazario Pardini in certi istanti il
tempo si elveva a destino per l'umanità ".... Cantavamo senza perché la
madre eterna potesse anche essere ingiusta. La pregavamo sulle strisce d’oro
dei tramonti... E sembrava persino ringraziarci o chiederci perdono; (dalla
poesia - Cantavamo - N. Pardini) qui, tutte le forze soccorritrici oserei dire
- materne - si liberano dal passato e fanno corpo con il nostro presente Grazie
anche a Giuseppe Vetromile favorevolmente seguirò questo passaggio sul blog
"TRANSITI POETICI" . Miriam Binda
Anche le madri cantavano già vecchie
trentenni...eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente sui roghi,
nei forni e sulle corti,per consegnarci i suoi profumi"
Nostalgia, tempi che 'forse' non torneranno più.
Il cuore di -Cantavamo- mi ha trasmesso tanta dolcezza. GRAZIE! (Rina Accardo)
Nostalgia, tempi che 'forse' non torneranno più.
Il cuore di -Cantavamo- mi ha trasmesso tanta dolcezza. GRAZIE! (Rina Accardo)
Tutte le poesie che ho letto sono dotate
di una potenza descrittiva di cose e sentimenti che ricordano da vicino alcuni
grandi del passato (tanto per fare un solo esempio Carducci) senza peraltro
perdere la originalità che ne costituisce il fascino principale. Come canti
omerici, o virgiliani descrivono, abbracciano, investono di situazioni
affascinanti in cui si colgono non marginalmente i sentimenti dei protagonisti
altrettanto bene di quelli dell'autore. Il sentimento del poeta emerge
continuamente e fa di lui un autore per il quale situazioni più o meno antiche
acquistano un valore attuale e completamente moderno. Nevio Nigro
Una poetica di vero spessore quella di
Nazario Pardini, mi sono lasciata incantare dalla bellezza delle immagini e
dalle atmosfere particolari che il poeta ha saputo magistralmente proporre. La
natura è presenza costante, domina il verso, nel rispetto di antiche sonorità
metriche. (Michela Zanarella)
Il "canto" riecheggia nel
"tempo" . Tempo di memorie e di riflessioni, tempo ormai trascorso e
per il quale vorremmo che si rinnovasse l'illusione. Difficile tratteggiare la
poesia, perché essa ci sostiene nel pensiero e corrode le nostre
circonvoluzioni cerebrali per fulminare idee e pensieri. Nazario Pardini riesce
a incidere versi nel ritmo colorato della musica. La sua "speranza"
riesce a raggiungere le bianche colombe per librarsi nel volo indefinibile e
indefinito... (Antonio Spagnuolo)
La scelta
dei testi operata, per "Transiti poetici", dall'amico Nazario è molto
oculata. Lo affermo perché ho avuto il piacere e la fortuna di leggere tutti i
libri da cui sono tratte le liriche, e credo di poter dire - con una certa
sicurezza - che le poesie selezionate offrono uno spaccato significativo e non
parziale della sua poetica. La musa è e resterà sempre, per lui, la Natura - è
manifesto anche attraverso questa lettura - ma, qui, egli ha voluto umanizzarla
in modo davvero "vibrante" (come Giuseppe, che saluto, ha
sottolineato). E penso, in particolare, alla chiusa de "La fuga", che
tanto mi ha fatto ricordare uno dei miei poeti preferiti: il Rilke delle
"Elegie duinesi"; alle foibe del Carso ed alla richiesta di
"rispetto del dolore" di una madre; a quella stessa "voglia
d'altro" che "ignoto", ma mai privo di speranze, lo trascina al
mare.
Naturalmente sono solo riflessioni ma in queste sei poesie ho visto molto, proprio molto di quell'animo puro che conosco.
Un caro saluto a lui e a Giuseppe, che ricorderà qualche nostro lontano incontro.
Sandro Angelucci
Naturalmente sono solo riflessioni ma in queste sei poesie ho visto molto, proprio molto di quell'animo puro che conosco.
Un caro saluto a lui e a Giuseppe, che ricorderà qualche nostro lontano incontro.
Sandro Angelucci
"L’azzardo dei confini” o “la voglia d’altro” che trascina verso un mare ignoto, “l’amore che strugge la carne” e alita “suoni e incantamenti” oltre il grido “tetro delle guerre”. Suoli assolati o innevati declivi evocano nuove mani tremolanti e insicure di fanciulle che si aggirano in insidiosi boschi metropolitani, altre voragini di padri e madri con i figli accalcati ai barconi, umanità disperata che fugge con croci da sradicare in miraggi di cieli aperti.
Poesia fortemente lirica e partecipe, questa di Nazario Pardini, che da storie e sentimenti di un tempo della memoria rimanda echi di attuali disastri, immagini quotidiane dei telegiornali di esodi in cerca di approdi e speranze per riaffermare la vita oltre la tragedia di conflitti iniqui e carestie. Un canto appassionato, dunque, che non dimentica, e che si fa consapevole condivisione a immagine e somiglianza con le diversità del nostro millennio.
Complimenti vivissimi
Daniela Quieti
Daniela Raimondi
E il poeta canta (in "Cantavamo" e in "Ignoto verso il mare") non solo un mondo che non c'è più ma, soprattutto, un atteggiamento, una predisposizione dell'animo che noi uomini del "terzo millennio" non abbiamo più, abbiamo irrimediabilmente perso; e il poeta con rimpianto ci mostra come i nostri avi, che a noi sembrano quasi sempliciotti da compatire, riuscivano, al contrario di noi, ad apprezzare i veri valori, quelli rappresentati dalle cose semplici e quotidiane; pur tuttavia, la poesia non rimane confinata ad un mondo, del poeta e nostro, passato, ché nei bellissimi versi "preghiere che i pagani consegnarono pietosi nelle mani dei cristiani facendosi santi", con poche parole, l'autore riassume il drammatico passaggio dal paganesimo al cristianesimo. E la poesia assume, quindi, un respiro universale. Il tutto come in un canto melanconico, eppure ricco di immagini così vivide che ci sembra quasi di essere anche noi davanti al camino col vino novello nel bicchiere. E prepotente, forte, passionale, viene fuori l'amore per la natura, per la "madre terra", alla quale sempre si elevavano inni di ringraziamento anche quando essa era, o sembrava,"ingiusta", come farebbero dei bravi figli verso una madre che è sempre e comunque fonte di vita.
E in "Giù per i sassi", dolcissimo, struggente, trasuda l'amore nostalgico per le civiltà passate fino al "turbamento dell'animo quando si rivolge al cielo, al giorno che termina la sera". E cos'è questa sera per l'autore? E' quella della sua vita o, forse, quella dell'umanità tutta e dei suoi valori? O forse entrambe?
Toccante, particolare, dolcissima e amara al contempo, per l'uso di termini "duri" è "La fuga". E come non pensare ai migranti che vengono a morire sulle nostre coste per la stessa "brama di fuga" che "rinverdisca libertà sognate" degli italiani di un tempo? Ed ecco che l'autore ha universalizzato il dramma dell'emigrazione che nei secoli continua a ripetersi in luoghi diversi ma con la stessa, dolorosa, immutata e quasi immutabile, direi, drammaticità. Sento moltissimo questo tema avendo io, nel mio piccolo, scritto molto sui migranti.
E in "Carso", il poeta ci fa rivivere la tragedia delle foibe, ma che è anche la tragedia dei campi di concentramento, è il dramma delle pulizie etniche delle contemporanee vicende storiche a cui noi abbiamo assistito e assistiamo quasi quotidianamente. E lo fa con un'immagine classica, quella della madre che piange il figlio strappatole, eppure nuova, perché rivisitata, perché vista con "gli occhi della sua anima". Entrambe sono "poesie di denuncia" eppure sono liriche che fanno vibrare le corde del cuore del lettore perché è il sentire del poeta che grida la denuncia con la forza dei suoi sentimenti!
E' un poetare a 360° quello del professor Pardini, per argomenti e periodi storici cantati; è un poetare che è capace di struggersi di malinconia e di vibrare di indignazione, di esprimere profonda e sincera compassione. E' un poetare che non lascia indifferente il lettore, quindi è vera poesia.
Ester Cecere
Liriche molto belle e
sentite. L'Autore, a mio avviso, canta la nostalgia per un Mondo forse passato
se confrontato alla vita frenetica e povera di valori attuale. Questo, sempre
secondo il mio modesto punto di vista, è forse il compito del -Poeta-: far
rivivere il tempo andato e non solo per farlo conoscere ed apprezzare ma per
soffermarsi e fare un confronto, proprio come se ammirassimo un quadro nei suoi
colori e nelle sue rappresentazioni. L'Autore ci riesce perfettamente. Sandra
Carresi
La poesia dell'amico
Pardini mi ha sempre dato emozioni, il formidabile fremito che solo il canto di
qualità sa dare. Rileggo versi che già conoscevo, e che per strana magia
(nonostante lo scorrere del tempo) trovo straordinariamente più belli.
Luciano Nota
Luciano Nota
Antonella Ronzulli
1.
Una poesia suggestiva,
questa di Nazario Pardini, con un ritmo incalzante e particolarissimo,
un’alternanza del verso lungo con quello breve. C’è una continuità precisa
dello stile e dell’uso della parola e della sua potenza armonica, nel corso del
tempo. Il poeta delinea ed evoca momenti salienti della nostra storia: la
guerra, la lenta rinascita che segue al suo terminare. Ma lo fa dipingendo
quadri di storia umana, persone, ambienti e sapori e odori della terra. Che
sembra di vedere leggendo. Mi ha colpito la figura della madre nella poesia
“Carso”. Questa poesia dipinge i luoghi e i sentimenti al di là del tempo e
della storia, suggerisce e fa vivere valori profondi del vivere umano: “……,/ora
è la voglia d’altro/ che mi riporta a un fiume/e mi trascina ignoto verso il
mare//. “ Sandra Evangelistiho avuto la fortuna di leggerla e il cuore ha perso colpi. Si sono spalancati universi ancestrali, edenici, lontani eppure vicinissimi. Le ho ascoltate 'le mamme che cantavano'... la forza della lotta interiore contro gli urti quotidiani, la dolcezza rabbiosa dei perdenti, che vincono ogni giorno, che non svendono mai il rispetto per se stessi, la dignità, il diritto ai sogni.
La sua mi è apparsa sì lirica della 'natura', ma anche e soprattutto affresco in note... melodiose le assonanze, i giochi di consonanti che vibrano tra i versi... del tempo che è stato e del bagaglio che ha lasciato. Lirica della valigia che è stata deposta sui binari del nostro vivere.
Lei invita a sollevarla, a trarre dal 'pozzo' del passato il
coraggio per salire sul treno e iniziare il delicato viaggio verso il domani.
Straordinaria la sua unicità. E' un Artista di Spessore altissimo!
La ringrazio per avermi concesso tanto dono. Maria Rizzi