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martedì 4 settembre 2012

Intervista a P. Balestriere di N. Pardini


Intervista
A
PASQUALE BALESTRIERE
A CURA DI
 NAZARIO PARDINI

                                                        
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?

P. B.  Le occasioni della vita sottese  alla mia produzione letteraria sono quelle che hanno generato emozioni tanto forti da pretendere, per quanto mi riguarda, sfogo e visibilità. Scrivere in versi è stato dunque per me un atto necessario, inevitabile. La prosa, ancora oggi, mi attrae di meno. Occorre però aggiungere che le “occasioni” non sempre si sono tramutate con immediatezza in segno scritto, anche per la mia natura poco propensa all’esplosione sentimentale, ma invece tesa alla ricerca di una misura che componga in un unicum i diversi lacerti della vita. Tuttavia la portata emozionale, anche se frenata, riemerge, magari a distanza di tempo, e reclama luce e voce. Molto mi aiuta, in questo mio dialogo con la poesia, un rapporto decisamente intimo con la natura e con la campagna, lo scorrere delle stagioni, la fugacità del tempo e la precarietà di questa nostra breve storia. Perciò nei miei versi c’è molto di autobiografico che però travalica i confini del mio io e si colloca in una dimensione più ampia e meno personale. Sicché, con Terenzio, posso dire: “ Homo sum: humani nihil a me alienum puto”.
Poesia lirica e poesia d’impegno: certo, c’è differenza. Eppure, in questo apparente binomio, non facciamo fatica a scoprire la sostanza del monomio, sottolineata dal termine comune “poesia”. ”Lirica” e “impegnata” sono aggettivi, cioè qualcosa di aggiunto al termine principale per precisarne una qualità o una determinazione; proprio come la sostanza e l’accidente nel linguaggio filosofico.  Intendo affermare che occorre innanzitutto e soprattutto, al di là di qualsiasi caratterizzazione o etichetta, creare o produrre e far vivere la POESIA. È questa l’esigenza fondamentale, perché la poesia è l’atto comunicativo (insieme a scultura, pittura, musica, ecc.) più alto e nobile, in barba all’affermazione montaliana, che peraltro ritengo provocatoria, in occasione del Nobel conferitogli, appunto, per le sue qualità poetiche: “ Io sono qui perché ho  scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo…”


N. P.: Essendo uno degli interpreti più conosciuti della poesia e della cultura contemporanea, la sua poetica è in gran parte nota attraverso le recensioni, le prefazioni, o le note critiche che la riguardano. Ce la vuole illustrare lei direttamente?

P. B. Lasciando a lei la responsabilità del giudizio di valore espresso nelle prime due righe e rispondendo alla domanda dico che, nel corso del tempo,  ho maturato la convinzione che la poesia esista di per sé, indipendentemente dai singoli (ma non dall’uomo in generale, senza il quale si estinguerebbe); essendo una delle potenzialità umane, essa vive di vita non visibile e si manifesta nell’atto interpretativo di uno spirito - faber o poietès -  capace di percepirla e di darle vita reale e più o meno piena.  Il poeta, però, oltre a possedere sensibilità acutissima e capacità di emozionarsi, deve essere padrone degli strumenti espressivi, veri e propri ferri del mestiere, senza i quali la poesia continuerebbe a vivere di vita virtuale. Il vero momento creativo si ha quando la sostanza poetica s’incarna in una forma con la quale, proprio per questo processo, fa tutt’uno. E c’è anche un’età della vita dell’uomo in cui, più che in altre, ci si scopre poeti o si pongono solide premesse per diventarlo: è l’età preadolescenziale o adolescenziale, quando l’individuo è chiamato a fare i conti con cambiamenti radicali e repentini tipici di quella condizione. La capacità di emozionarsi di cui ho parlato prima si potenzia, si esalta, si affina e si radica in lui, lo pone nella condizione di vedere e di sentire ciò che altri non vedono e non sentono, di scorgere l’inedito nella quotidianità. A volte penso addirittura che il poeta faccia solo da cassa di risonanza della poesia, abbia un  semplice, pur se eletto, ruolo medianico.
Di conseguenza, il mio mondo interiore si esprime ogni volta che un’occasione glielo consenta o glielo richieda. Non appartengo -non so se per fortuna o sfortuna- alla schiera di  quelli che scrivono versi (magari  graziosi ed  eleganti) su qualsiasi futilità o frivolezza. Credo che il mondo dell’arte, e della poesia in particolare, meriti rispetto e non debba essere massificato o biecamente commercializzato.
Quanto a me, non riesco a rimanere indifferente di fronte al male della vita, alla precarietà della condizione umana, alla fugacità del tempo e alla caducità delle cose. Percepisco la vita  come un momento di passaggio destinato a risolversi oltre le categorie di spazio e tempo, in un’immensità senza confini. Salvo -magari- eventuali orfiche rinascite.


N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?

P. B. Ho sempre amato molto la lettura, con qualche esasperazione dai tredici anni in su. Leggevo anche di notte, a letto e, per non essere rimproverato, sparivo completamente sotto le coperte e illuminavo il testo con una lucettina, dandomi con gioia  all’avventura del lettore, aperto a nuovi mondi, perso tra le storie di Salgàri, Scott, Verne, Swift,  Melville, Twain, Dickens, Defoe,ecc. Poi, anche per motivi scolastici, l’incontro con Manzoni, Verga e Hugo e, sul filo del romanzo, con  i grandi russi e francesi dell’Ottocento. Al liceo  la rivelazione della grande poesia dantesca da un lato, e dall’altro la progressiva conoscenza di poeti e scrittori della letteratura italiana ed europea, specialmente dell’Ottocento e del Novecento. Con la letteratura di quest’ultimo secolo, appena alle nostre spalle, ho avuto un impatto non del tutto positivo, soprattutto laddove emergeva l’immagine di un essere umano considerato come un’inutile e assurda appendice di un universo caotico e illogico e di una società nemica e senz’anima; di un essere irrimediabilmente sconfitto alla nascita, per il semplice fatto di essere venuto alla luce. E quindi autori pur eminenti, come Kafka, Musil, Brecht, Joyce, Proust, giusto per citarne alcuni, mi hanno lasciato sempre un filo d’amaro in bocca, benché fossi consapevole che quella visione della vita, pur negativa, non era priva di elementi di verità.
Oggi le mie preferenze, quanto alla lettura, vanno ancora ai romanzi e, naturalmente, a opere di poesia. Amo anche la biografia (mi interessa l’avventura umana), la saggistica e la critica letteraria.
I libri che prediligo sono “antichi” ed “epici”: Iliade, Odissea, Eneide, Divina Commedia, Orlando Furioso, i Canti di Leopardi, I Promessi Sposi. Ma mi hanno profondamente attratto, per un verso o per l’altro, tante opere di validissimi autori, antichi, moderni e anche contemporanei, sicché mi è difficile esprimere delle preferenze.


N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?

P. B.  Lo scrittore, che non è fuori dal mondo e che deve fare i conti con la realtà che lo circonda, è un laboratorio perenne, dove tutto è sempre in fieri; è un campo di battaglia di opposti sentimenti e passioni; è anche il luogo in cui s’incontrano, attraverso la lettura e le altre forme di comunicazione, esperienze diverse e talora conflittuali. Ma poi, dopo un processo di riflessione e di sedimentazione, lo scrittore conserva  -degli stimoli esterni- solo ciò che si addice al suo modo di essere e che ormai è stato trasformato in un possesso perenne. Questo vale anche per lo stile di un autore, che si forma nel (lungo) tempo e che non può essere influenzato tanto facilmente. Se ciò accadesse, specialmente se in misura rilevante, significherebbe che costui non solo non  ha personalità artistica ma è ancora in fase di formazione, oppure è assolutamente immaturo, essendosi instaurata la dipendenza da un modello.
Certo, i grandi autori fanno scuola, possono insegnare tante cose. Ma una cosa è l’apprendimento critico, misurato, prudente; altra cosa è l’accettazione passiva, l’ipse dixit e la semplice imitazione, che generano poi uno stile contaminato.


N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta  ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?

P. B. La poesia è, per sua natura, creazione, e dunque esperimento, prova, ricerca, innovazione, vicissitudine sentimentale, intellettuale e verbale. Chi scrive versi si sforza di tradurre la sua interiorità in forme e modalità  per lui soddisfacenti e inedite. Lo sperimentalismo linguistico puro e semplice ha dentro di sé il suo limite, in quanto l’atto creativo è tutto sbilanciato sul versante formale, trascurando l’aspetto emozionale, senza il quale non esisterebbe al mondo alcuna opera d’arte. Per questa strada si arriva all’artificio più sofisticato, all’intellettualismo più angusto e onanistico, alla preziosità elitaria e quasi esoterica. Penso, per il passato, al Gruppo ’63; e, per il presente, al gruppo che fa capo alla rivista Anterem.  
Certo, il “ ritorno al passato” non può essere uno sterile riecheggiamento di modi, forme, aspetti di un periodo magari esemplare sotto vari profili artistico-culturali, come, per esempio, quello classico greco e latino. Un solo aggettivo si addice pienamente al passato: necessario. Al presente e al futuro. Cioè alla vita. Se ciò è vero, ogni tentativo di scrollarselo di dosso è destinato al fallimento. Si voglia o no, il passato “è” nel presente da cui è inscindibile. Ma sarebbe altresí un grave errore attribuire al passato una funzione normativa e paradigmatica. Rifiutare l’endecasillabo si può, ma non è lecito scrivere versi in libertà, non rispettare alcuna norma e limitarsi a seguire un  presunto ritmo interiore  che spesso nasconde solo incapacità di scrittura metrica,  indispensabile invece, nel suo senso più ampio e complessivo,  alla poesia. E, già che ci siamo, vorrei obbiettare qualcosa a coloro che chiedono la condanna a morte della metafora e di altre figure retoriche, ritenendole responsabili di chissà quali misfatti: esse sono in realtà  strumenti poetici dei quali talvolta si è fatto abuso. Ma, a parte il fatto che “abusus non tollit usum”, le figure retoriche non sono il “male”ma il “sale”della poesia, in quanto le danno forza e bellezza, segnano uno scarto dalla prosa (pur se non mancano anche in questa forma espressiva che privilegia l’analisi, mentre la poesia ha il taglio della sintesi). Tali figure, però, devono essere parte integrante del processo creativo e non inutile orpello e aggiunto abbellimento, come oggi frequentemente accade.
 Per gli antichi il poeta era un “sacerdos Musarum”, con tutta la sacralità che ne discende.  A me basta che il poeta sia veramente tale, perché la poesia è arte seria (anzi severa), ma  bella e vera. E merita rispetto, sicché  non ha certo bisogno né di mestieranti né di improvvisatori.


N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di Case Editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?

P. B. L’editoria italiana ha lo stesso comportamento delle banche, nel senso che la sua azione è esclusivamente volta a fini di lucro. La cosa non sarebbe di per sé condannabile se non fosse che l’editoria è anche servizio per i cittadini, e quindi dovrebbe offrire  prodotti sempre all’altezza. Invece accade troppo spesso che ci vengono proposte opere assolutamente scadenti, firmate da politici, attori, sportivi, insomma da personaggi noti al “grosso pubblico” che, proprio per questo, garantiscono all’editore sostanziosi ritorni economici. Le case editrici medio-piccole si adeguano, naturalmente su scala ridotta, con qualche rara lodevole eccezione. Il risultato complessivo è che autori meritevoli rimangono semisconosciuti  o ignorati del tutto, mentre trionfa l’editoria della banalità, dell’ovvietà, della superficialità. Quanto agli innumerevoli premi letterari sparsi sul suolo italico, dopo aver premesso che io ne sono discreto frequentatore, mi sento di confermare che sono davvero troppi (diverse migliaia!); e  di aggiungere che spesso sono inadeguati per una serie di motivi, primo fra tutti la composizione delle commissioni giudicatrici in cui abbondano individui di dubbia competenza o che addirittura non sanno distinguere un rigo da un verso; poi la dotazione economica, spesso assolutamente inadeguata o inesistente:  non si può pretendere che un autore si sposti dalla Sicilia per andare a ritirare una targa, poniamo, in Toscana, in Emilia o in Lombardia, senza alcuna copertura finanziaria. Esistono però premi seri,  che guardano a questi e ad altri aspetti organizzativi (ospitalità) con grande attenzione. E perciò sono molto frequentati. Voglio citarne uno per tutti: il “Città di Quarrata”, al quale partecipa la stragrande maggioranza dei poeti italiani che frequentano i concorsi letterari. Senza contare che, in occasione delle cerimonie di premiazione, gli scrittori si conoscono o si ritrovano, si stabiliscono amicizie più o meno profonde e durature, si vivono esperienze altrimenti impossibili.


N. P.: Certamente sarà legato ad una sua opera in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e della funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?

P. B. No, non sono più legato a un’opera piuttosto che a un’altra. Proprio come mi accade con i figli, le amo tutte, con i loro pregi e  difetti. A volte qualche singola lirica  sembra attrarmi un po’ di più di altre. Ma questo capita subito dopo la composizione, poi l’effetto passa.
L’impulso a scrivere mi arriva all’improvviso, da un evento, un odore, un sapore, un colore, un suono, un pensiero. Dalle cose più diverse, insomma. Getto giù il testo, magari in furia, magari alzandomi di notte dal letto, nel timore di perderlo. Poi lo lascio lí, per giorni, mesi o anni, fino a quando non giunge la seconda fase dell’atto creativo che determina il testo nella sua compiutezza (la quale non è mai finale, nonostante un severo lavoro di lima).
Relativamente alla funzione della memoria in poesia, visto che noi siamo ciò che ricordiamo, sostengo che non si può impunemente togliere spazio alla memoria senza togliere spazio alla vita stessa. E d’altronde, come tutti sanno, non a caso il grande Leopardi attribuiva una insostituibile funzione all’aspetto memoriale nella  poesia.  Tutto sta, poi, nel fare autentica poesia “nella” o “della” ricordanza .
L’ultima domanda mi riporta alle contrapposizioni della filosofia idealistica tra l’io e il non-io, tra lo spirito e la materia o al dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Il fatto certo è che la realtà è termine necessario di confronto per il mondo interiore di un individuo che non intenda chiudersi alla vita circostante; ma è anche un limite e spesso un ostacolo da superare o addirittura insuperabile, come dimostrano le opere di Svevo e Pirandello.



N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a che punto l’interesse per la poesia può incidere su questo disorientamento morale (ammesso che lei veda questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben altro di fronte ad una carente cultura politica per questi problemi?

P. B. Premesso che questa nostra epoca è scossa e travolta da una crisi generale davvero preoccupante per il ripudio di valori fondamentali e che tale crisi si mostra con evidenza anche nel mondo artistico, a me pare che la  nostra letteratura contemporanea, a parte alcuni nomi validi – alludo anche ad autori viventi -, lasci molto a desiderare,  pure perché le case editrici importanti, intendendo trarre il massimo vantaggio economico da ogni pubblicazione, stampano solo opere (scadenti) di personaggi letterariamente insignificanti, ma, come ho precedentemente affermato, ben noti al pubblico (che spende); o di autori immeritevoli, giunti al traguardo della pubblicazione non si sa per quali “torti sentieri”.
Non credo di avere un quadro abbastanza chiaro dell’editoria e della letteratura straniere  ma, dagli elementi in mio possesso, la situazione complessiva  appare migliore della nostra, con editori più “illuminati”e più disposti ad investire e a scommettere su qualche nome emergente.
I grandi premi letterari sono generalmente circoli esclusivi, dove o per compiacenza o per interesse o per amicizia ,  le giurie premiano  i soliti noti, nell’eterno gioco del do ut des. Solo raramente il successo corrisponde al merito.
Quanto al rapporto tra poesia e società, non mi pare che esso sia solido, e neppure diffuso e consueto. Ciò avviene sia perché l’uomo d’oggi rincorre affannosamente il benessere materiale e spesso è costretto a lottare addirittura per la sopravvivenza, sia perché dal Decadentismo in poi ( e forse già da prima) si è approfondita sempre più la frattura tra poeti e pubblico, fino a sfiorare l’incomunicabilità; alla quale si è giunti un po’ perché i poeti hanno adottato tecniche e mezzi espressivi più eletti e peregrini,  e perciò meno comprensibili, un po’ perché il pubblico, con un interesse nei confronti della poesia già diminuito, ha trovato difficoltà a comprendere e a interpretare.   Con queste premesse, la mia opinione è che la poesia possa incidere  davvero poco  sull’attuale situazione di  crisi e di disorientamento morale. Occorrerebbe, per una rinascita complessiva e globale, che riacquistassero il proprio ruolo e la propria dignità la famiglia e la scuola. A questo punto, però,  il discorso si fa ampio e complesso e non mi pare questa la sede giusta per continuarlo.



N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?

P. B. Mi piacerebbe che nel mondo dell’arte  emergesse il merito, che fossero spazzate via conventicole, camarille e combriccole letterarie e artistiche, che i critici svolgessero onestamente la propria funzione, che sparissero invidiuzze e gelosie; e, infine, che il pubblico fosse degnamente preparato (dalla scuola e dai mezzi di comunicazione) ad accogliere il messaggio di un poeta o di un pittore.
Se l’arte non cambia il mondo, è quasi esclusivamente per difetto di comunicazione.

E, naturalmente, lunga vita alla poesia, quella vera!



La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog Alla volta di Leucade blog.


La ringrazio per la sua disponibilità.

Nazario Pardini                                                                                                        28/06/2012


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