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sabato 27 ottobre 2012

Un racconto di Antonio Sartor

Antonio   Sartor

 

FRAMMENTI
di
FANTASIA
 
 
Racconti
 
con prefazione di Carmelo Ciccia
 

GRUPPO “AMICI DI DANTE” - CONEGLIANO

 
 
© TUTTI I DIRITTI RISERVATI ALL’AUTORE
 

In copertina: Franco Panzieri, Piave verso Sernaglia
(olio su tela)

PREFAZIONE
 
Coi racconti e romanzi già pubblicati Antonio Sartor in questi ultimi anni s’è qualificato come un narratore colto, sapido e accessibile a tutti i lettori. La sua cultura traspare dai temi affrontati e dalle frequenti citazioni e/o indicazioni bibliografiche, a volte in epigrafe o in nota, fra cui un posto di riguardo ha Dante, che particolarmente l’affascina. La sapidità è in lui pregnanza di contenuti, ma anche uso d’espressioni intrise di fine ironia. L’accessibilità consiste nel suo stile piano e scorrevole, a cui s’aggiunge l’icastica costruzione di personaggi e vicende che sanno coinvolgere i lettori, interessandoli fino a conclusione. E poi non è da sottovalutarsi il fatto che nella narrativa del Sartor confluiscono elementi dei suoi numerosi viaggi per il mondo.
Attraverso personaggi animati o inanimati, ma che egli sa rendere umani, vivi e partecipi – l’autore approfitta per osservare fenomeni naturali e comportamentali, spesso introducendo la sua opinione: ed è qui che la sapidità diventa monito, dando un’impronta didascalica al tessuto narrativo.
Questa raccolta, che nel titolo riprende la precedente intitolata Briciole di fantasia del 2008, contiene dieci racconti, in parte già pubblicati e ora riproposti sia pure con qualche variante.
 In “Acque senza tempo nel fiume della storia” e “Leggende tiberine” due molecole d’acqua nelle loro trasmigrazioni e conversazioni discutono di guerra e di storia; in “Dove il tempo sembra essersi fermato” è un passero d’ascendenza leopardiana che dà all’autore l’occasione per dissertare di sacro e profano, religione e superstizione; in “Il viaggio di ritorno” l’epoca delle crociate e delle pestilenze fornisce un personaggio che si trasforma in eroe fiabesco; in “Come in un teatro” e “La vendemmia” sono la vite e il vino a fare da tramite per vicende umane e sociali; in “Il sopravvissuto” è un proiettile della prima guerra mondiale a fare da guida e maestro contro le guerre; in “Sarò padre” l’autore affronta problemi d’ereditarietà; mentre in “L’ultimo gesto” egli preannuncia un suo nuovo romanzo, basato sulla lettera d’un malato terminale indirizzata alla donna da cui alcuni anni prima ha avuto un figlio, il quale – in assenza della madre – s’occuperà del padre moribondo. E in certi racconti a volte ritornano spunti presenti nel romanzo Mi chiamo Huca del 2009, mentre in tutta la raccolta sono presenti sottili analisi psicologiche.
Dopo questi racconti brevi l’autore ripropone quello lungo intitolato “Mater sempre certa est…”, già premiato e pubblicato nel 2007, il quale ora occupa la metà di questo libro e perciò merita una considerazione particolare.
Questo prende il titolo dal noto adagio latino “Mater semper certa est, pater nunquam” (= “La madre è sempre certa, il padre mai”); e, grazie alla chiarezza e scorrevolezza, nonostante qualche parola troppo cruda, nonché grazie ad una certa ironia qua e là serpeggiante, si snoda con tale agilità che il lettore non vede l’ora di giungere alla fine per venire a capo dell’intrigo. In sostanza si tratta d’un quasi “giallo”, di cui, specialmente nella seconda parte, il racconto ha la tecnica e il tono.
         Sembra incredibile che una secolare legatoria dismessa possa trasformarsi in archivio di segreti familiari a causa dei libri dimenticati o abbandonati in essa: eppure è così, perché dentro certi libri ci sono sì annotazioni e appunti, ma anche fiori, fotografie, biglietti e perfino una lettera-testamento autografa. Ed è partendo da questi elementi che Antonio Sartor costruisce il suo “miniromanzo”. Nella concisione del racconto egli evita ridondanze, divagazioni e fronzoli, puntando alla necessaria essenzialità.
Nell’invenzione artistica dell’autore il protagonista, Paolo, in principio sembra avere per i libri giacenti nella legatoria di suo padre un interesse di pura e semplice curiosità o di bibliofilia finalizzata anche alla didattica (visto ch’egli era insegnante e giornalista): infatti per caso egli aveva trovato riportati una lettera d’Alessandro Manzoni a Emilio Broglio del 19.7.1868, un articolo con interviste di Luigi Barzini sul terremoto di Messina, apparso nel “Corriere della sera” del 15.1.1909, e uno scritto di Leonardo da Vinci su “Che cosa è l’arco”; quindi, andando al di là di ciò, egli diventa investigatore e s’assume l’onere di cercare e far conoscere il padre naturale d’un orfano di guerra che di fatto aveva un padre solamente anagrafico; e sta per riuscirvi con l’aiuto d’un vecchio sacerdote e d’un’altra superstite di quella guerra, quando il suo intento fallisce per un colpo di scena finale.
Carmelo Ciccia
 
 
 
 
La felicità di chi scrive
è il pensiero che riesce a diventare sentimento,
 è il sentimento che riesce a diventare pensiero.

Thomas Mann

 
 
 
 
         (Il primo raracconto del testo)                                                                  
                                                                                                       
ACQUE  SENZA  TEMPO  NEL  FIUME  DELLA  STORIA[1]

 



Laudato si’, mi Signore, per sor’acqua,

la quale è molto utile, et humele, et preziosa e casta.

Francesco d’Assisi

 

ALLA e ZALLA, due molecole d’acqua, si conobbero un giorno di maggio dello scorso anno sul tratto della Piave che tocca la città di Belluno. Il leggero ondeggiare le aveva fatte emergere come mammiferi marini presi dalla necessità di respirare.
Prima di addentrarsi nella conoscenza delle reciproche generazioni, timide nei loro iniziali desideri, si lasciarono attrarre da quella parte di città che si affaccia sul fiume: avevano le Alpi sullo sfondo e ai lati, sopra gli argini, quinte di case di cui l’acqua increspata specchiandole, rendeva molli le linee e sfuggenti i particolari come tende svolazzanti. Nel piacevole imbarazzo della posizione, arguirono che qualcuno le avesse ingaggiate a loro insaputa come comparse di uno spettacolo folcloristico per immortalare la Città. Quando mai, durante la loro esistenza, si erano trovate a vivere un’analoga esperienza?
Mosse dall’aria, si erano trovate faccia a faccia da non potersi ignorare. E l’inevitabile buongiorno, più che un atto di pura cortesia, fu una mossa spontanea fatta con piacere, con convinzione e, non di meno, con reciproca curiosità: ALLA era un’anziana con tutti i suoi millenni ben portati; l’altra, ZALLA, una giovane e prosperosa che poteva essere una lontana nipote.
Nella vegliarda era vivo l’interesse verso le generazioni moderne, oggetto della tecnologia dell’uomo. Da parte sua, la giovane era rimasta colpita dalla presenza di quella nonna, più ava che nonna, che doveva avere molto da raccontare di sé.
“Cara nipote, so cosa desideri. Storie di vita ne ho a iosa: devo solo sforzarmi di ricordare, anche se ho preferito dimenticare una lunga parte di me. Fu il periodo durante il quale rimasi immersa non so quanto tempo nel lago della Quiete. In quei tempi per noi era un altro vivere, difficile da spiegarti: nulla di quanto vedi ora esisteva. C’erano vulcani dappertutto, enormi animali diversi dagli attuali, zone tranquille e altre di fuoco. Nella mia lunga vita ho avuto per amici solo animali; e, se non fosse stato per uno di essi, un  Sauro, a farmi uscire dal lago, chissà quanto altro tempo sarei rimasta a bagno. Era assetato: si accostò all’acqua e mi ingurgitò; per fortuna poco tempo dopo mi fece ritrovare libera da un’altra parte da dove ricominciò la mia avventura. Ti confesso di aver corso un serio pericolo: se non fossi riuscita a liberarmi, avrei rischiato di rimanere intrappolata dentro il suo corpo smisurato e forse oggi sarei una molecola fossile, un pezzo da museo con la storia sua e non mia, senza più avventure. Ora sarei là, in una vetrina, in mostra, costretta ad ascoltare le insulsaggini dei visitatori. Dall’ultima glaciazione sono rimasta di casa fra le rocce di queste montagne: sembra che il destino mi abbia assegnato i cieli e le terre del Veneto. Ora sono qui da alcuni giorni e mi piacerebbe restarvi. Tu, piuttosto, tu sei figlia di un altro tempo e certi pericoli non li hai corsi: lo si vede”.
“Sì, ma solo per l’età; quanto al resto, la fortunata sei tu vissuta fra la natura incontaminata. Io, purtroppo, sono figlia della peggiore tecnologia: quella della guerra. L’età è sì quella che vedi, ma non farti illusioni. La mia è stata una nascita contro natura: successe quasi novant’anni fa, alla fine del 1917, su questo stesso fiume, più in basso, verso Sernaglia”.
“Ho capito bene? Hai detto Sernaglia 1917? Se è così ti ho vista nascere, perché già prima che  iniziasse il conflitto, da quelle parti c’ero anch’io e ti confesso che ne avrei fatto volentieri a meno. Nella mia millenaria esistenza non mi era mai successo di assistere a massacri come quelli cui mi hanno costretta, neanche quando l’uomo viveva nelle caverne. Già, allora certa tecnologia ancora non c’era. Accidenti a me che sono malata di modernismo! Ritrovatami aerea, stavo dicendo, una corrente ascensionale mi portò in quota e come un satellite mi capitò di osservare dall’alto tutto ciò che stava avvenendo sotto, in quella «aiuola che ci fa tanto feroci»[2], dove gli uomini si dilaniano per contendersi il potere. Fu così che assistetti lungo tutto il percorso di questo fiume alle fasi più cruente di quella che è stata giustamente definita «l’inutile strage»[3]. Ma come hai potuto nascere nel regno dei morti? Mi sento i brividi solo a riparlarne”.
“Non siamo noi a decidere se, dove e quando nascere. I miei componenti chimici, contenuti nelle viscere di un proiettile, esplosero in una trincea facendo una carneficina. Da quel giorno di anni ne sono trascorsi novanta. Ora dimmi tu se è il caso di festeggiare. Solo il «pensier (mi) rinnova la paura»[4].
“Novanta? E prima?”
“Nulla! Sono stata ingoiata da una successiva esplosione e poco alla volta entrata nelle cavità del terreno. La mia libertà è recente. Se tu hai visto il mondo dall’alto, io invece l’ho visto dal basso, da dentro, dalle radici, e posso dirti che anno dopo anno mi sono trovata in un ambiente sempre più inquinato. Un tempo la terra era il nostro filtro: ora non più. Se non guardi dove metti i piedi, esci più inquinata di quando sei entrata. Gioventù perduta, la mia”.
“Lascia quindi che continui a parlartene io, in fretta, perché l’acqua ricomincia a correre. In quasi un secolo, la storia intorno alla Piave ormai è stata scritta tutta. Resta poco da raccontare che già non si sappia, ma non per i giovani, soprattutto per particolari che noi anziani testimoni non possiamo dimenticare, come il fatto della notte dell’undici giugno.
Dall’alto, da dov’ero rimasta durante l’intero periodo, ricordo di aver seguito la traiettoria di un proiettile italiano. Fra i tanti, quello in particolare si infilò attraverso la finestra di una camera nel centro di Conegliano. Lì stava dormendo il monsignor Sebastiano Dall’Anese, già sindaco durante l’occupazione. Inutile dire che passò dal sonno terreno a quello eterno. L’impressione fra la gente del luogo fu enorme. Della singolarità dell’episodio – la finestra, appunto – le poche donne testimoni non sfollate ne parlarono a lungo, mischiando realtà a superstizione.
Cara nipote, se scendendo riusciamo a stare vicine, potrai constatare che questo fiume non finisce mai di stupire. Lo scorso anno, verso Vidor, vidi due giovani distinti camminare curiosi fra i sassi e guardare intorno come a cercare cose che sembravano non trovare.
«Desideravo vedere il Piave, e vederlo da qui, dai sassi» disse uno.
«Un fiume come tanti – rispose l’altro – protagonista di un pezzo di storia d’Italia, ma da quel tempo di acqua sotto i ponti sai quanta ne è passata. Ora ci sei, guardalo! » 
«Non so esattamente da quale, ma da uno di questi paesi nel 1917 arrivò sfollata in Sicilia mia nonna paterna ancora bambina. Del suo fiume me ne parlò fino all’ultimo come di una divinità. Ora sono qui io.»
Vidi il siciliano raccogliere tre piccoli sassi: «Li porterò sulla tomba della nonna – lo sentii dire – come segno di devozione di alcune popolazioni verso i propri defunti in luogo dei fiori. A lei piacerà avere con sé una parte del suo fiume. Li farò incastonare come diamanti nella sua lapide.»
Incuriosita li seguii. Li vidi intrattenersi fra i sassi guardandosi intorno, prendendo atto in silenzio di quanto la nonna avesse avuto ragione.
Raggiunta la riva, per loro non era finita. Aiutandosi l’un l’altro, ho capito che essi volevano trovare un’immagine di novant’anni prima e ricostruire con la fantasia la vita di una famiglia fra quei sassi, così come la descriveva la nonna. Ma a parte i sassi, i cespugli e gli arbusti, certamente simili a quelli di sempre nonostante l’acqua passata, il resto appariva del tutto sovvertito: rigogliosi campi di mais grazie all’irrigazione, case ospitali e pulite con le automobili in cortile e vari uomini al lavoro con macchine moderne a conferma che di quei tempi non resta che il ricordo degli avi.”
Chissà cosa si sarebbero dette ancora le due molecole d’acqua se un mulinello non le avesse separate.  

 

 

 



[1]Questo racconto e i due che seguono hanno partecipato ad altrettanti concorsi letterari a tema del settimanale L’AZIONE di Vittorio Veneto, rispettivamente negli anni 2008-2009-2010. Il tema di questo primo racconto era: “LA PIAVE, fiume di guerra e di pace”.
[2] Dante, Paradiso, canto XXII, v. 151.
[3] Conclusione dell’appello fatto il 1° Agosto 1917 da Benedetto XV agli opposti belligeran-ti.
[4] Dante, Inferno , canto I, v. 6.











Sintetico curriculum dell’Autore

Antonio Sartor nasce a Conegliano dove risiede e lavora.
Si diploma in Statistica presso l’Università di Padova. E’ il 1963.  
Conseguito il Diploma, passa a Milano. Qui lavora per due anni presso l’ufficio Studi di un’Associazione di categoria. In seguito, e fino alla pensione, è nel Marketing di un’azienda multinazionale. Nella sua lunga carriera ha imparato a capire, soprattutto a capire. Si è così formata e maturata in lui una vasta esperienza che gli permette di esprimere sensazioni e stati d’animo sempre improntati a sobrio pragmatismo. Nelle Aziende in cui ha lavorato, oltre a dare i numeri in quanto statistico, si è dedicato alla stesura di saggi monografici e alla collaborazione a riviste di categoria con articoli concernenti l’attività professionale del momento. Da anni partecipa a concorsi letterari con romanzi e racconti.

Ha all’attivo quattro romanzi:
- APPUNTI PER UN ROMANZO
- MI CHIAMO HUCA
- TRE SENZA DUE
- DOPO L’ALTRA GENERAZIONE (attualmente nei concorsi)
 - (il quinto dal titolo provvisorio, IL FRATELLO CHE NON C’E’, è in lavorazione).
        
 I Racconti sono oltre una trentina. Sono stati pubblicati in varie antologie e raccolti in due volumi.
 - BRICIOLE DI FANTASIA
 - FRAMMENTI DI FANTASIA
 - (il terzo volume verrà dato alle stampe il prossimo anno)
 



 

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