Lettura della Silloge inedita La
distanza è sempre la stessa di Ninny Di Stefano Busà
La
geometria della parola in Ninny Di Stefano Busà
La distanza è sempre la stessa,
le due sponde non toccano
al principio, forse neppure il corpo
delle cose, (di tutte le cose).
E pausata appare questa storia
di versificazioni innaturali,
forme senza fisionomia chiara,
forse un po’ dilatate da uno scardinamento
universale, imitazione o deturpazione
di opachi, inagibili intrusioni.
Una sola matrice, un pensiero atonale,
aritmico, modulato a ritmi di sangue
e di morsure, di quieti infingimenti,
in andature che mordono il vuoto,
lo trasferiscono altrove, forse
poco distante da noi.
La nuova silloge di Ninny Di Stefano Busà trae il
titolo dalla poesia eponima sopra citata. E mi piace iniziare il discorso da un
riferimento testuale che, poi, contiene il nocciolo della questione poetica
della Nostra: intimità, parola, meditazione, prosodia, percezione di distanze
immutabili, (forse fra cielo e uomo, fra
essere e cielo, fra sentire e dire, fra sponde che non si toccano, fra canoni etico-esistenziali e realtà, fra cose e
cose). Ed è nelle corde umane tentare di ridurre certe distanze, distanze che
ci separano dal tutto, dai contatti, da quel processo inarrivabile a cui
ambisce la nostra natura; distanze che separano corpi da corpi, materia da
materia, spiriti da spiriti, creando vuoti indicibili, e, seppur trasferiti
altrove, pur sempre vicini a noi:
andature che mordono il vuoto,
lo trasferiscono altrove, forse
poco distante da noi.
In più di
una recensione sulla poesia della Nostra ho avuto occasione di mettere in
evidenza il valore della funzione verbale, della espansione del termine,
ricercata con puntiglio e puntualità. E pur rischiando di cadere nella
monotonia tematica, esegetica, devo ripetermi su questo aspetto della sua poetica:
la parola. Sì!, la parola, il sintagma, gli accostamenti, le funzioni logiche e
intellettive di un diorama mai conclusivo né concluso. Il verbo, qui, è sempre propenso
ad una apertura sia interpretativa che emotiva. E così deve essere. Mai dire
tutto nella poesia. Ma lasciare spazi al fruitore a che se la possa cucire
addosso, e la possa vivere con sinergie adatte
a slanci personali come fosse lui stesso a immaginarla. Barthes auspicava che la poesia
moderna dovesse suggerire un campo di risposte emotive e concettuali legate
alla sensibilità del singolo. Al lettore va lasciata una parola che contenga
simultaneamente tutte le accezioni (motivo ripreso da U. Eco). Se dovessimo
cercare etimo-incastri di uso non comune, usi terminologici di portata
lessicale non solo innovativa, ma anche, e, soprattutto, creativa, la lista si
farebbe incalcolabile. Atonale, morsure,
infingimenti, mordere il vuoto per limitarci solo alla poesia incipiale dell’opera. E questo è
dovuto all’abbondanza d’interiorità che è tutta tesa a trovare abiti adatti a
vestire immagini e suggestioni sempre nuove, motivazioni che svincolino dal troppo
umano, dallo scandalo delle sue contraddizioni. Motivazioni anche memoriali, ma
mai passatistiche. Motivazioni già vissute, anche, e già espresse in altre
occasioni, ma ri/lucidate e rinfrescate da operazioni linguistico-sensoriali in
cui hanno una grande portata la ragione, oltre che, naturalmente, un’anima
pronta a sorprendersi e a sorprendere colle sue scalate verso il rinnovamento.
D’altronde per un autore è cosa difficile creare perfette equivalenze fra il
patrimonio intimo-memoriale e il corpo che lo deve fasciare, dacché immenso è
il pozzo dell’anima, e mortali i suoni a disposizione dell’uomo. E ciò che più
affanna l’autrice è questo tentativo di annullare sponde fra cose, momenti, frangenti di vita che possano
contenere il vuoto. Sì, perché il vuoto è non vita ed è azzeramento. E
l’azzeramento si avvicina alla fine, alla morte. E non alla fine di un viaggio.
Ma alla fine di un inizio, di una narrazione, di una ricerca speculativa:
Una sola matrice, un pensiero atonale,
aritmico, modulato a ritmi di sangue
e di morsure, di quieti infingimenti,
in andature che mordono il vuoto,
lo trasferiscono altrove, forse
poco distante da noi.
E trasferire il vuoto in un supposto immaginifico
forse non lontano da noi non equivale a un tentativo di assegnare alla poesia
quel senso di plenitudine a cui l’artista stessa ambisce per farla vita,
spiritualità, tonalità in un mondo zeppo di stonature?
Sì, perché è innegabile che
La residuale forza grida alle perdute forme,
al bene e al male oppone resistenza:
si fa fuscello in preda all’uragano.
Ed è proprio quella resistenza che tentiamo di
fronte alla meditazione sul bene e sul male del nostro esistere, che si fa
fuscello in preda all’uragano. Siamo tutti fuscelli in preda all’uragano, nei
nostri tentativi umani e sovrumani; tutti fuscelli nel nostro essere in balìa
della ragione, in balìa delle nostre ristrettezze, delle nostre distanze di
fronte all’immensità che ci sovrasta.
Può sembrare anche ostica la poesie della Busà,
visto che richiede un’attenzione particolare, un’applicazione mentale ed
emotiva che va oltre la parola. In certi suoi momenti poetici vi è anche una
voluta disposizione affatto musicale a creare inciampi alla lettura. A non
facilitare l’accostamento del lettore ad una affinità sentimentale. Ma tutto è
dovuto alla grande maturità dell’artista, ad una poesia che non è frutto del
solo tempo in cui l’autrice l’ha composta, ma di tutta una storia di vita e di
ricerca. Ad una nutrita esperienza di invenzioni espositive che sanno tenere
altalenante l’ondulazione dei moduli linguistici, perché gli impulsi interiori
non sono mai piatti come l’acqua di uno stagno, ma, semmai, movimentati come la
bàttima inquieta e inappagata dei giochi di un mare che tanto si avvicinano
all’eterno. E da qui lo slargo estremo
di intuizioni neologiche e metriche. E quando ti capita di leggere versi come:
… come falena brucia alla sua fiamma,
tutto depreda il fuoco e la sua vampa,
perché dal nulla l’anima si oscura.
La danza della sera
ancora serra una fronte di luce
che misura il sonno dei mattini,
il fiore che smuore negli accenti
sempreverdi dell’erba,
quando il mondo tace o s’inabissa
nel suo letargo,
come un feto dentro la madre.
Ogni fragore poi si rasserena,
come onda che all’onda si concilia
e si fa suono, rassegnato silenzio
che stride al filo d’erba, alla conchiglia.
ancora di più si fa viva la funzione di grande
armonia di certi segmenti poetici, proprio perché è lì che la poetessa incide,
dopo rattenute, per mettere in chiaro la sua insoluzione di fronte a un mondo
esageratamente rapinatore, o per evidenziare un suo momento di edenico riposo,
quando Ogni fragore poi si rasserena.
E vivere il terreno con tanta emozione. Fare della
vita e dei suoi giochi il pane della poesia. Disunirsi da un ensemble fortemente umano, per
protendersi, con punte di insofferenza di spazi, all’oltre; all’oltre del
tempo, dei luoghi, degli orizzonti ristretti, è l’intimo nutrimento di questa
poesia. Perché la poetessa ambisce assaporare il rischio di un azzardo oltre le
ombre, tentare di giocarsi tutte le carte per squarciare il mistero
dell’esistere. Ed è per questo che la sua forza è tutta protesa oltre il senso
della parola.
Ed il mestiere del critico? È tutto qui: non è certo
quello di dire bello o brutto, elegante o magnifico, superbo od altro. Ma
quello di scoprire i nessi giusti che valorizzano la poesia. Dimostrare. Saper leggere in che modo un artista riesca a fare
della parola un tatuaggio dell’anima. È proprio qui. È questa la sua funzione.
Ricercare l’analogia fra le inquietudini e i corpi che le avviluppano. Perché è
allora, appunto, che, pour cause, il
discorso del poeta si compone, si scompone, si altera, si fa superbo, dolce,
neologico, asintattico in questo arduo compito che gli spetta. Non sempre è
facile farselo amico e disponibile. O pretendere che quel suono combaci
esattamente coi sobbalzi interiori. E tanto meno credere che sia sufficiente la
semplice spontaneità. Semmai un lavoro
attento e assiduo, meditato e composito, esperto di studi e di fattive
operazioni filologiche, come quello della Nostra. Poi le tematiche possono
essere erotiche, religiose, morali, bucoliche… Ma è estremamente necessario che
attraversino le vene della vita e che si trasmettano in suoni sapidi di un
impossibile modo possibile di dire.
Questo poi è il limite, l’assunto
appena orbato di pensiero,
una canzone stonata che urta come ferri vecchi.
Tu annotti con la rosa, ti schiudi alla rugiada.
Talvolta è un artificio di sintassi,
una parola oscura, fuori rotta
che ostinatamente insegue il suo silenzio.
Quello
deve essere il mestiere del critico: leggere
e dimostrare; leggere significati, significanti, grafemi, parole e geometrie
per tessere la tela. E non è detto che non possa essere di aiuto alla stessa poesia.
Nazario Pardini 08/09/2012
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