PRESENTAZIONE VER SACRUM
DI FRANCO CAMPEGIANI
Un
cordiale saluto ai convenuti e un sentito ringraziamento a chi ci ospita. Il
piacere di essere qui, questa sera, è in me amplificato dall’amicizia e dalla
concordanza di pensiero con l’autore, la cui opera mi accingo a presentare.
Ver sacrum - questo il titolo della
raccolta che Franco Campegiani dà alle stampe, per i tipi delle Edizioni
Tracce, nella collana “Magister” diretta da Ninnj Di Stefano Busà - è un testo
poetico che definirei sui generis, con nessuna intenzione però - tengo a
precisarlo - d’ordine sistematico, bensì per mettere in luce quella che, a mio
parere, va considerata la sua prerogativa: trasmettere al lettore, con l’aiuto
dei versi, il processo, in atto, della ricerca interiore di una propria,
originale e realistica visione del mondo.
Ritengo
dunque opportuno, prima ancora di dire la mia e fiducioso di fornirvi la
migliore premessa, lasciare la parola alla poesia e, più precisamente, alla
lirica che - ne sono convinto - non a caso Franco ha voluto in apertura come
suo, inconfondibile biglietto da visita:
(Lettura integrale di Autocritica)
Bene: come
si presenta il poeta? Facendo autocritica: che non vuol dire accusare se stesso
ma neppure discolparsi; significa, invece, prendere coscienza di come stanno le
cose e, soprattutto, consapevolezza del duro, ma necessario e affascinante,
viaggio della sfida esistenziale.
Sul suo
biglietto da visita non troveremo, allora, epiteti altisonanti: al contrario,
vi scopriremo “il nome di Nessuno” (con l’iniziale maiuscola: come si evince
dalla lettura di pag. 26), di quell’ “eterno combattente” che “destato da un
sogno vanaglorioso”, fa tornare in mente Ulisse e la sua fuga verso la libertà.
C’è da
chiedersi, tuttavia: da cosa vuole affrancarsi il nostro umile condottiero? La
risposta non tarda ad arrivare: “dalle illusioni . . . / di queste craniche
prigioni”, scrive in chiusura della pagina suddetta, intendendo con ciò la più
subdola delle schiavitù: quella che fa dipendere l’indipendenza dell’uomo
dall’arbitrio della ragione; oggi più che mai - è sotto gli occhi di tutti -
assurta a ruolo di dea ed erroneamente identificata (vedi l’esasperazione della
tecnologia) in una straordinaria ed irripetibile occasione d’emancipazione.
Forse -
sembra dirci Campegiani - sarebbe utile rivedere queste posizioni: senza
demonizzare, però, per non finire (come spesso è accaduto nella storia
dell’umanità) con il cadere nel medesimo equivoco che si vuole superare.
Parafrasandolo: se non imparerà a farsi crescere le ali, ogni cielo risulterà
troppo alto per il volo dell’uomo.
Così,
bisogna apprendere a volare. Ma resteranno profondamente delusi coloro che
crederanno di trovare fra queste pagine la formula risolutiva; per un
semplicissimo motivo: quella formula non c’è, non esiste. C’è, piuttosto, una
più vera e più grande prospettiva; e saranno ancora i versi, non io, a darne la
riprova. Da Disse la madre al figlio:
“Questo mondo non è come speravi. / . . . . / Fa’ scorta, bimbo mio, della tua
fede, / del gioco costruttivo / e cresci nel mistero da cui vieni, /
nell’azzurro di quel mondo / che hai goduto finora a piene mani . . .”, ai
quali voglio aggiungere soltanto un breve ma significativo pensiero tratto
dalle riflessioni postfative di Aldo Onorati: “il mistero da cui l’uomo
proviene ordina categoricamente di crescere in esso per essere in esso
vivamente assorbito . . .”.
A me
sembra che l’ottica sia totalmente rovesciata: più che il bimbo, è la madre a
cercare nel figlio quel coraggio che, come Natura vuole, gli restituirà con il
proprio amore. Perché ciò avvenga è necessario tuttavia che, prima, s’adempia
l’invocazione che il Nostro - in un verso memorabile - mette in bocca alla
genitrice: “E colma questo grembo dei tuoi cieli”, dice la mamma alla sua
creatura.
È maturato
il momento di capire in quale terreno affonda le radici questa poetica e,
dunque, la fede di Franco Campegiani, “una fede non urlata, ma palese, non
ecclesiale né ecumenica ma generatrice - scrive la Busà - di un pensiero
dell’oltre . . .”.
Di nuovo,
è il poeta stesso a fare chiarezza: “E’ un fuoco di terra il mio dio. / Dalla
caverna mi chiama / con scosse telluriche, / . . . . // E sta con la vergine
luna, / colmo il calice / dell’argenteo suo sangue.”. Già dagli incipit delle
prime due strofe di Duende (da cui
sono tratti i versi citati) è possibile calarsi nella dimensione di un credo
che esula, però, e parimenti, sia dal dogmatismo che dal panteismo per
appropriarsi, meglio, riappropriarsi della sua integrità, della sua interezza.
Provo a
spiegarmi: il dio (questa volta con la minuscola), al quale viene fatto
riferimento, non è né un principio indiscutibile né una verità rivelata:
classificazioni, queste, che ricondurrebbero inevitabilmente all’angolazione di
un punto di vista fazioso e deleterio; no - mi ripeto - il dio, di cui qui si
parla, è un’entità comunque spirituale ma complessivamente considerata.
“L’Essere
è duale sempre - si legge nel risvolto di prima di copertina -. Non c’è nero
senza bianco, né notte senza giorno, né estate senza inverno.”, e ancora: “La
negazione dell’Essere è la zolla in cui si radica la sua stessa affermazione. E
viceversa.”.
L’ontologia, sottesa al pensiero appena espresso, merita un approfondimento
particolare in quanto fondamento dello stesso Ver sacrum in cui viene riposta l’ultima ma immortale speranza. È
la legge dell’equilibrio universale: quell’armonia dei contrari nella quale -
lo abbiamo ascoltato - tutto rientra, e l’opposto di tutto; l’assoluto come il
relativo. Non solo, ma fuori dallo stato naturale (permettetemi di usare
l’aggettivo che meglio, forse, lo identifica), fuori da quella condizione -
dicevo - nascono le anomalie, le problematiche, le contraddizioni individuali e,
di conseguenza, collettive che assillano le società di ogni luogo e di ogni
tempo.
L’albero
del bene e del male, dai frutti “non ancora divisi”, quando Adamo dimorava “con
un piede nell’eden . . . / e un altro fuori” entrando, così, nell’unico modo
possibile, ad essere parte dell’armonico caos della vita; quell’albero proibito
perché non fosse mai spezzata la giusta proporzione, diviene simbolo di sanità
e dunque di salvezza. “Ora Adamo sta uscendo / anche con l’altro piede” -
scrive Franco a pag. 19 - e non stringe più nel pugno il seme fecondo con cui
curare le “ferite dei solchi d’amore” da lui stesso aperte nel seno della terra
ma quello “nero / della sua follia razionale”.
Si badi,
però, “anche la decadenza ha un ruolo da svolgere: (esorto il lettore a
riflettere ancora su ciò che si dice nel sopraccitato risvolto) quello di
preparare nel suo notturno grembo le future stagioni aurorali dell’uomo e del
mito.”.
E vi
chiedo: siete davvero a conoscenza di una fede più profonda di questa? Io me lo
sono domandato, e mi sono risposto di no. Poi, conscio di vivere il tempo delle
tenebre, ho voluto unire la mia speranza ad un’umile preghiera: quella che -
con una richiesta di condanna e, insieme, di perdono - il caro amico rivolge
alla Terra concludendo l’opera: “Non avere pietà / di questo tuo traditore. /
Morirò straziato / con tutti i miei simili, / a loro appartengo ed è loro /
questo sangue di figlio degenere / . . . . / Luminosa dea non avere pietà, / tu
che azzurra in eterno vivrai.”.
Prendo commiato tentando di colmare una
lacuna: non ho parlato dell’aspetto formale perché ritenevo essenziali i
contenuti, la novità del messaggio di questa poesia; nondimeno, però, vi invito
caldamente a soffermarvi su Il male
d’oggi (pag. 16): estrema sintesi tematico-stilistica di un autentico
capolavoro.
Grazie a
tutti per l’attenzione.
Sandro Angelucci
Sono profondamente grato all’amico Sandro Angelucci per questa interpretazione sorprendente del mio “Ver sacrum”, che la dice lunga sulla nostra sintonia di vedute e sull’affinità elettiva di cui lui stesso parla e che trova in me avallo pieno. Lui giustamente sottolinea la “visione realistica del mondo” della mia poesia (ma io aggiungerei anche della mia filosofia) che si svolge e si sviluppa sotto i fari di un irrazionalismo misterico-armonico in grado di cancellare le illusioni dell’intelletto razionale, chiuse, come lui giustamente evidenzia citandomi, nelle “craniche prigioni”.
RispondiEliminaNon voglio approfittare di questa occasione, di questo sentito e dovuto ringraziamento all’amico fraterno per parlare di me stesso e della mia poesia. Tuttavia non credo di esagerare in narcisismo sottoscrivendo quanto Sandro dice a proposito del realismo di una visione che considera il mistero come “il nostro mistero”, il mistero che noi stessi siamo e che ci chiede di allinearci ad esso sul piano esistenziale. Esiste l’uomo ed esiste l’essere dell’uomo: assoluto e relativo, facce opposte di un’identica medaglia. Sta qui l’equilibrio universale, “quell’armonia dei contrari nella quale tutto rientra, e l’opposto di tutto”. Ed ecco l’Eden, la comunione del Bene e del Male non ancora divisi.
La decadenza, tuttavia, come ricorda Sandro, ha anch'essa un ruolo da svolgere, perché non si può assaporare la grazia se non si attraversa la disgrazia che ad essa si oppone. Non c’è bianco senza nero, né primavera senza autunno, né giorno senza notte, né maschile senza femminile. Né umano senza divino. Tutto, in questa visione realistico-misterica, è Relazione. Tutto: l’umano come e quanto il divino.
Franco Campegiani