AVANTI
C’È POSTO
Percorso
della memoria
di
Paolo
Bassani
AVANTI C’E’ POSTO
Il caro vecchio tram della linea Chiappa era arrivato
alla pensione. Era quello il suo ultimo viaggio. Anch’io, bambino, ero andato a
salutarlo con i compagni al capolinea di Via Cesare Bertagnini. Un vago senso
di malinconia sentivo, quello che si prova per ogni cosa che ci lascia. C’era
qualcosa nel mio inconscio che mi legava al tram. Le rotaie, gli scambi, lo
sferragliare delle grosse ruote d’acciaio, la sua stessa forma, mi ricordavano il treno. Già, il treno
faceva parte, in qualche modo, della mia famiglia: mio padre era ferroviere,
come i suoi fratelli e quasi tutti i nostri parenti. Ma, per noi bambini della Chiappa, il treno
era lontano: per vederlo dovevamo andare a Gaggiola. Il tram, invece, era
sempre tra noi; una presenza che si legava alla vita d’ogni giorno. Forse, per
questo, con lui (lasciatemi passare questo “lui”) avevamo fatto presto amicizia
e preso confidenza. Invero, qualche compagno più grande e un po’ discolo
qualche volta se n’approfittava. Ad agosto, per esempio, nei giorni che
precedevano la festa del quartiere (San Bernardo), sistemava sulle rotaie
mucchietti di polvere esplosiva (una miscela di clorato di potassio comprato in
farmacia e zolfo) e, così, al passaggio del tram era tutto un crepitare di
spari come una battaglia vera. Qualche volta il tranviere scendeva a “bonificare”
la linea.
Con la scomparsa del tram si chiudeva una
pagina di storia del quartiere e con essa andavano in pensione abitudini,
locuzioni e vocaboli (“attàccati al tranvai”, “il solito tran tran”
“tranviere” e così via; sempre rigorosamente con le “n”). Ma per ogni
pagina che si chiude un’altra se ne apre: ancora tutta da scrivere. Quella
nuova pagina aveva come suo protagonista il filobus che avrebbe, in un certo
senso, portato a cambiamenti d’abitudini e di mentalità. La vita, in fondo, è
tutta un’abitudine. Ogni novità, inevitabilmente, comporta sempre qualche
problema di adattamento e di comportamento. Perfino il lessico non ne rimane
immune. Mi ricordo, per esempio, la difficoltà di trovare per gli addetti al
filobus un vocabolo appropriato che li catalogasse. Se era stato facile coniare
“tranviere” (da tram) non lo era altrettanto, adesso, davanti a quel
nuovo composito vocabolo “filo-bus”. Come si doveva chiamare l’operatore
del filobus? Forse “filibustiere”? No! Non era necessario essere un
linguista per sentire che quel vocabolo strideva alquanto, dando l’idea non di
un alacre operatore del trasporto ma, piuttosto, di un tipo per niente
raccomandabile. Qualcuno cercò allora, senza fortuna, di coniare qualche altro
termine: “filobusere” “filobusista”. Ma, come si sa, la fortuna
gioca un ruolo importante anche nel dare una patente alla parola. Quei vocaboli
non ebbero fortuna e, così, il guidatore del filobus rimase genericamente
autista e l’altro, addetto a riscuotere il pedaggio, bigliettaio.
Il filobus, rispetto al tram, rappresentava
certamente un passo avanti nel campo del trasporto degli utenti: era più
dinamico, scorrevole e meno rumoroso. Era, insomma, più moderno, in linea con i
tempi. Ma anche la modernità ha bisogno di un certo tempo per imporsi e
stabilizzarsi. Ogni novità va messa alla prova dei fatti e richiede spesso
qualche aggiustamento. Mi ricordo, per esempio, che in certi tratti della
filovia, dalle mie parti, le aste del filobus “scarrucolavano”
frequentemente costringendo l’autista a pazienti esercizi di ricollocazione
(non piacevoli, soprattutto sotto la pioggia). D’altra parte, anche i
viaggiatori dovevano prendere confidenza con il nuovo mezzo. All’inizio avevano
un certo timore delle porte automatiche: la paura di rimanere chiusi tra esse,
magari quando il filobus riprendeva la sua corsa. Già, la corsa! Mentre il tram
aveva ben definito il suo percorso, il filobus no, diventava qualche volta
imprevedibile. Perdere l’equilibrio, per una svolta o una frenata inattesa,
voleva dire spintonare e, a volte, trovarsi quasi abbracciati a qualche altro
utente (non sempre entusiasta dell’incontro). Mi ricordo che il bigliettaio
(non era ancora entrata in funzione la biglietteria automatica) immancabilmente
rivolgeva il suo invito: “Prego…avanti c’è posto”. Io non mi facevo
certo pregare: di solito, preferivo collocarmi a ridosso dell’autista. Mi
piaceva vedere il percorso e la strumentazione del cruscotto: il voltmetro,
l’amperometro e tutte quelle spie luminescenti (verdi, rosse, gialle, a volte
lampeggianti): magia multicolore del quadro di comando. E, poi, mi interessava
vedere l’autista al suo lavoro: alle prese col volante, col rubinetto per
l’apertura delle porte, col pedale dell’acceleratore e il freno. Già, proprio
il pedale del freno guardavo con una sorta di timore, quando il filobus
percorreva in velocità la ripida discesa dei Fossitermi. Mi ricordavo la scena
di un camion che, per un guasto ai freni, era finito contro il muro.
La memoria mi riconduce adesso al 28 gennaio 19 51:
il giorno dell’inaugurazione della linea filoviaria; nel mio caso
Chiappa-Ospedale. Anche noi, quella domenica, eravamo scesi in strada ad
attendere quel primo filobus, coscienti di vivere un momento storico. E
l’attesa non andò delusa. Anzi, ben cinque filobus apparvero in sequenza, tutti
infioccati di nastri tricolore, pieni di autorità e di invitati. Quel primo
filobus, contrassegnato con il n° 210, che apriva la sfilata, dava inizio ad
una nuova era nei trasporti cittadini, entrando trionfalmente nella comunità e
nella nostra vita di tutti i giorni.
Ma, anche noi, popolo comune, sentivamo il desiderio di fare il
nostro viaggio inaugurale. Mia madre ed io lo facemmo la domenica seguente
partendo dal capolinea del Negrao, naturalmente pagando il biglietto. Ci
rendemmo subito conto della fortuna che avevamo, abitando vicino al capolinea!
Voleva dire avere sempre il posto a sedere assicurato. Quel primo viaggio
inaugurale, per noi, non ebbe soste (e non poteva essere altrimenti); seguì il
percorso andata e ritorno per intero: Chiappa-Ospedale-Chiappa.
Più di mezzo secolo è ormai passato da quel
primo viaggio. Anch’io, come tanti spezzini, ho un debito di riconoscenza, di
affetto, verso il filobus. Anzi, vorrei dire che forse gli devo qualcosa in
più. Sì, confesso: ho anche qualcosa di cui farmi perdonare. Per carità, non pensate
troppo male! Non ho mai scritto sulle pareti e sui sedili, né viaggiato in
clandestinità. Soltanto una volta non pagai il biglietto, ma senza premeditazione.
Quando me ne accorsi ero ormai giunto a due passi dall’uscita. Rischiai. E se
mi avesse fermato il controllore? Che figura miserabile! davanti a tutti! Che
vergogna! Una cosa però va detta a mia discolpa: il giorno dopo quel viaggio “franco”
presi carta e penna e scrissi alla Fitram. Inviai l’importo del biglietto non
pagato.
C’è, però, ancora qualcosa che devo farmi perdonare. Ora,
vestendo il ruolo del pentito, sento di dovere le mie scuse ad un ignoto
autista del filobus, a diversi utenti e alla FITRAM: per una vecchia storia di
tanti anni fa. Come detto, io abitavo alla Chiappa in via Genova, sul lato
destro della strada verso la Foce. Qui era l’ultima fermata del filobus, prima
del capolinea del Negrao. Ma, forse, è meglio che spieghi per filo e per segno
tutta la vicenda. Avevo acquistato da poco tempo un grosso registratore audio a
nastro, meraviglia delle meraviglie per quei tempi. Ero giovane allora e, come
ogni giovane, sentivo anch’io una scanzonata propensione per lo scherzo. E così un giorno, senza pensarci troppo,
decisi di giocare un tiro all’autista del filobus che si fermava proprio
davanti alla mia finestra (a pianterreno). Erano circa le 12,50 quando arrivò
il mezzo. Come al solito si aprirono le porte e i viaggiatori incominciarono a
scendere. Fu allora che, a tutto volume, misi in funzione il registratore che
scandì il segnale orario delle ore 13, registrato il giorno precedente dalla radio.
Ho qui, stampata nella mente, la scena che seguì. L’autista, estratto
l’orologio dal taschino, visionò l’ora.
Rimase un attimo indeciso, poi, aggiornate le lancette, riparti come una
saetta. Quel giorno il filobus non sostò al capolinea del Negrao in attesa
delle ore 13. Partì innanzi tempo lasciando a terra, lungo il suo percorso, non
so quanti passeggeri. Non voglio pensare a quante imprecazioni volarono
all’indirizzo di quell’ignaro autista e della FITRAM. Chissà se vive ancora
questo autista. Vorrei incontrarlo per stringerlo con un fraterno abbraccio.
Paolo Bassani
Racconto premiato nel concorso letterario "Storie di quartiere" e pubblicato nell'omonimo volume edito a cura del Comune della Spezia.
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