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domenica 1 settembre 2013

N. PARDINI: DA "I SIMBOLI DEL MITO"

DA "I SIMBOLI DEL MITO", 
SILLOGE VINCITRICE DEL PREMIO POMEZIA-NOTIZIE 
CON PUBBLICAZIONE SUI QUADERNI LETTERARI


Restano gli dèi

Cala il sole
tra le mèssi e i frutti
e s’aggrappa il rosso
all’intonaco del pozzo,
alla parete stanca.
Le mete strette
della nostra terra
vanno a finire.

Restano gli dèi
sul viale,
tra le foglie spazzate
dalle brezze;
si ergono le ombre
di giganti statue
sulla vita dell’acqua,
durature
sul chiudersi del giorno,
brillanti nella notte
di raggi di luna
sulla stessa fortuna
degli uomini alla sera.

Bianche di gesso,
logore di tempo,
restano sui viali
e vedono morire
ogni stagione
vite di giada bagnate
dal pianto del sereno
di rugiada.                                






Nazario Pardini non rispolvera figure mitologiche - come Ifigenia (“Mori i capelli/sulle bianche guance”), Bacco, Giove, Semele, Edipo, Ulisse eccetera; ma anche storiche, come Giovanna D’Arco - solo per il gusto della classicità, o per amore tout court verso il passato; egli le innesta al nostro tempo ed è nel sorpassare “la Storia” che consiste la sua vera novità, nello stimolarci, attraverso vicende e personaggi, a non arrenderci alle difficoltà e accendendo in noi “il desiderio/di sfidare il destino”.
Le parole dei morti “ai bordi dei sepolcri” non sono un soliloquio scaturito da nostalgia transeunte e fine a se stessa, ma la necessità che gli “affetti” continuino a lievitare il vivere collettivo, siano, cioè, un medicamento all’aridità e alla troppo spinta individualità dell’uomo moderno.
La suggestione dell’opera deriva dalla miscela di mito e di modernità, ma anche dallo stile, dal linguaggio, dal verso quasi sempre chiaro, privo di retorica e di affettata solennità. Tutto è piano nella poesia di Pardini e il suo colloquio familiare ci conquista e ci fa accettare anche qualche oscurità, mitigata comunque dal ritmo, dal naturale pentagramma e da una Natura - purtroppo sempre meno “acerba” ai nostri giorni - presente ora nel dare risalto al dramma (il “cielo rosso” del sacrificio di Ifigenia), ora nel sottolineare l’arcano (lo stridere delle cicale, il saltare del rospo, il volare della libellula nel rilassante flautare del pastore), ora, infine, nel ricordarci semplicemente il rinascere della vita attraverso il verdeggiare delle “foglie nuove”.
I simboli del mito, allora, anche per contenuto è opera impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle, perché Pardini, risalendo dal passato, canta la stagione che anche ai nostri giorni ingentilisce gli aspri “stecchi”; il lauro; il fiume; le “rocce dal volto rossiccio/e levigato”, che sfidano il tempo e sono testimoni di tante vicende; il Meridione d’Italia che ancora strega con le sue vestigia e il contrastante “sapor di zagare e limoni”. Un’opera affabulante, insomma, e solare. 

                                          Domenico Defelice



1 commento:

  1. Un incantevole e delicato tuffo a Leucade genera un ampio respiro mitologico che richiede, come e' gia stato commentato, 'impegno sensibilita' e studio.
    Il prof. Pardini lavora cosi' da molti anni e le sue poesie si uniscono a questo passaggio di stili e umanistica cultura.
    Concordo con il commento, che ho modo di leggere, da lontano, complimenti a De Felice anche per la rivista.
    Un gradito saluto e buon lavoro.
    Miriam

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