DA "I SIMBOLI DEL MITO",
SILLOGE VINCITRICE DEL PREMIO POMEZIA-NOTIZIE
CON PUBBLICAZIONE SUI QUADERNI LETTERARI
Restano gli dèi
Cala
il sole
tra le mèssi e i frutti
e s’aggrappa il rosso
all’intonaco del pozzo,
alla parete stanca.
Le mete strette
della nostra terra
vanno a finire.
Restano
gli dèi
sul viale,
tra le foglie spazzate
dalle brezze;
si ergono le ombre
di giganti statue
sulla vita dell’acqua,
durature
sul chiudersi del giorno,
brillanti nella notte
di raggi di luna
sulla stessa fortuna
degli uomini alla sera.
Bianche di gesso,
logore di tempo,
restano sui viali
e vedono morire
ogni stagione
vite di giada bagnate
dal pianto del sereno
di rugiada.
Nazario Pardini non rispolvera figure mitologiche - come Ifigenia (“Mori
i capelli/sulle bianche guance”), Bacco, Giove, Semele, Edipo, Ulisse
eccetera; ma anche storiche, come Giovanna D’Arco - solo per il gusto della
classicità, o per amore tout court verso il passato; egli le innesta al nostro
tempo ed è nel sorpassare “la Storia” che consiste la sua vera novità,
nello stimolarci, attraverso vicende e personaggi, a non arrenderci alle
difficoltà e accendendo in noi “il desiderio/di sfidare il destino”.
Le parole dei morti “ai bordi dei sepolcri” non sono un soliloquio
scaturito da nostalgia transeunte e fine a se stessa, ma la necessità che gli “affetti”
continuino a lievitare il vivere collettivo, siano, cioè, un medicamento
all’aridità e alla troppo spinta individualità dell’uomo moderno.
La suggestione dell’opera deriva dalla miscela di mito e di modernità, ma
anche dallo stile, dal linguaggio, dal verso quasi sempre chiaro, privo di
retorica e di affettata solennità. Tutto è piano nella poesia di Pardini e il
suo colloquio familiare ci conquista e ci fa accettare anche qualche oscurità,
mitigata comunque dal ritmo, dal naturale pentagramma e da una Natura -
purtroppo sempre meno “acerba” ai nostri giorni - presente ora nel dare
risalto al dramma (il “cielo rosso” del sacrificio di Ifigenia), ora nel
sottolineare l’arcano (lo stridere delle cicale, il saltare del rospo, il
volare della libellula nel rilassante flautare del pastore), ora, infine, nel
ricordarci semplicemente il rinascere della vita attraverso il verdeggiare
delle “foglie nuove”.
I simboli del mito, allora, anche per contenuto è opera
impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle,
perché Pardini, risalendo dal passato, canta la stagione che anche ai nostri
giorni ingentilisce gli aspri “stecchi”; il lauro; il fiume; le “rocce
dal volto rossiccio/e levigato”, che sfidano il tempo e sono testimoni di
tante vicende; il Meridione d’Italia che ancora strega con le sue vestigia e il
contrastante “sapor di zagare e limoni”. Un’opera affabulante, insomma,
e solare.
Domenico Defelice
Un incantevole e delicato tuffo a Leucade genera un ampio respiro mitologico che richiede, come e' gia stato commentato, 'impegno sensibilita' e studio.
RispondiEliminaIl prof. Pardini lavora cosi' da molti anni e le sue poesie si uniscono a questo passaggio di stili e umanistica cultura.
Concordo con il commento, che ho modo di leggere, da lontano, complimenti a De Felice anche per la rivista.
Un gradito saluto e buon lavoro.
Miriam