Prefazione
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
XXIII EDIZIONE
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE
CITTÀ DI POMEZIA 2013
“I simboli del mito”, si tratta qui dell’ennesima raccolta di versi del poeta Pardini,
(vincitore del Premio Pomezia), che espone un lavoro di bulino, una scansione
ritmica perfetta, esperita su una poeticità sostanziale, fisiognomica, in grado
di dare al lettore il solito impianto classico, nel quale e attraverso il
quale, s’insinuano le immagini verbali e i tratti storico/simbolisti di una
distensiva scrittura.
Qui è il mito ad essere inteso nella tessitura
filosofica del poeta, che ne fa quasi
una colloquiale accensione di stati d’animo, redatti in
un’orchestrazione compositiva di particolare
ispirazione.
Una sollecitazione metrico/sintattica che è
preminente e dominante nel docente scrittore e poeta Nazario Pardini.
Vi si riscontrano ancora, come nel tempo passato,
(ho stilato altre prefazioni sulla sua poesia), le caratteristiche precipue
della sua oggettivazione poetica, il suo reticolato linguistico, la sua
naturale vocazione a far riemergere dai primordi della storia le figure mitiche
rappresentative della classicità, come ad es. Ifigenia e poi Semele, Giove,
Dioniso, Apollo, Edipo, Saffo, Calipso etc. Mettono in risalto la sua tendenza
a scrivere versi con un corpo e un’anima, ma sempre con intensità espressiva da
terzo millennio, seppure i miti, le simbologie inneggino al passato, gli esiti
felicemente raggiunti appartengono alla postmodernità senza fregole, senza falsificazioni,
senza orpelli, né eccessi di stampo “modernistico d’assalto” come avviene in
molti autori contemporanei che respingono <tout court> la classicità del
passato senza proporre modelli nuovi, solo per il gusto di respingere l’antico.
II lato preminentemente fantastico è scandito con
un’intensa sollecitazione mnemorica, vi appare intenso il dettato lessicale per
sensibilità e stile e si prefigura il risultato compiutamente raggiunto,
attraverso stilemi e sinergie di varia natura. Si evincono con nitore: la
forma, l’equilibrio, la misura, la partecipazione alla ragione morale di una
poesia contemporanea, pure se ne indica le carenze dell’uomo moderno, la sua
incapacità a rendersi partecipe di quel mito, di quell’antico, che restano in
disuso.
Così termini come l’Ade, i nostri morti, i viventi
prendono forma in una cornice foscoliana di affetti e di ricordi, s’incontrano
i trapassati in un andirivieni osmotico
di anime vaganti:
“Escono
dai marmi freddi
sulla
loro terra
e
tra l’odore di cera
e
il fumo della notte,
tra
l’esalare di rose,
di
gigli ed orchidee,
parlano
di affetti e di ricordi
ai
bordi dei sepolcri;
li
puoi vedere:
ecco
mio padre con mia madre
ed
ecco mio fratello
che
sorridente
per
l’agognato arrivo
vola
di gioia. “ (pag.19)
Costantemente alta resta la sua parola, sorretta da una profonda cultura
e da una religiosità cosmica, appassionata, incentrata su temi universali,
sorprendentemente in simbiosi tra solennità neoclassica e modernismo:
“Restano
le anime
fino
a notte fonda,
non
odi parole di spiriti,
ma
vedi l’aria che vibra,
l’aria
che tocca le fronde,
le
lievi foglie
alle
soglie dei sepolcri.
“ (pag. 19)
Poesia colta intessuta di dolente esperienza (trentennale), rivisitata in
chiave “pensosa”. Ricordiamo che Aldo Capasso
si era fatto promotore e interprete di un Realismo lirico che aveva contagiato la metà del Novecento
letterario.
Pardini ne è un emulo molto disciplinato e onesto. Il suo verso si
orienta alla rivisitazione del passato senza celebrazione, è quel che si dice
una forma lirica che si può definire classico-moderna, sempre disposta a farsi
suggestionare da immagini limpide, reperti chiari e musicalmente ben
orchestrati, ben proporzionati all’impianto stilistico, scevro da ismi di mestiere, e tanto meno da
ermetismi pseudointellettuali e devianti.
Pardini predilige la suggestione che si apre alle
vene, alla coscienza, al pensiero e in quest’aprirsi a raggiera con tutte le
note che compongono il dettato, registra vibrazioni, enunciazioni,
pronunciamenti emozionali.
Il seme germinale
pardiniano si tuffa nel mondo felice della giovinezza, predilige i toni aulici
della maturità, si fa saggezza che allevia dalla sofferenza. Il suo tessuto
lirico è talmente incarnato al motivo etico e simbolista, agli ideali di un
genere letterario classico che ne risulta un fervore catartico per tutti gli
emblemi della Storia, i miti, le ascendenze, le libertà dell’uomo “novus”.
Sfilano superbe le sue pagine naturalistiche, poiché come pochi sa interpretare
gli echi terragni, i miti, la rassegnata tristezza che coglie di sorpresa gli
atteggiamenti vani dell’uomo, il suo involucro fragile e l’indecifrabile
mistero della terra. È dotato il poeta di spiccato barlume di coscienza nei
riguardi del mondo, della frattura tra cielo e terra, che ogni sua opera
s’impregna del declino inevitabile del “guerriero”stanco, la lotta è ìmpari, il
fine metafisico spesso irrangiungibile, e allora, si lascia andare per lidi di
speranza il poeta e, coglie la catarsi fenomenica, ontologica della specie, in
un empito di amore universale, di lirismo alto, ma senza celebrazioni
enfatiche, con la capacità di provare stupore per le cose del passato. E i
versi si snodano in atmosfere profonde di abbandono, di desiderio di pace, di
sentimenti “buoni”. Certo in certi tratti la scrittura non è agevole, occorre
essere iniziati alla poesia, perché il dettato è in buona parte nutrito di una
cultura alta, feconda di spunti che sedimentano in un territorio di scavo che
non è di tutti e per tutti i gusti, ma la poesia c’è, è poderosa, salda,
possente, matura, orientata ad orizzonti che a volte disorientano per la
perizia e il lessico consumato e smaliziato. Un linguismo che non perde mai di
vista l’insieme, si ferma alle stazioni giuste per non perdere coincidenze con
altre destinazioni, con altri riti, sempre vigile agli oscuramenti, alle frane
e alle rovine umane.
Il tono non è mai
sapienziale, ma dotto, tutt’altro che enfatico, perché la grandiosità del poeta
sta nell’etica di pensiero, in unità di fondo tra verità e dubbio, tra chiaro e
scuro, tra la vita e la morte. Infine, la meditazione intensa e la magìa
surreale, la vitalità e l’autenticità delle emozioni che si avvalgono di calzanti
e pertinenti similitudini sono testimonianza di questo notevole poeta.
Milano, 19 luglio 2013 Ninnj
Di Stefano Busà
Postfazione
Nazario Pardini non rispolvera figure mitologiche - come Ifigenia (“Mori
i capelli/sulle bionde guance”), Bacco, Giove, Semele, Edipo, Ulisse
eccetera; ma anche storiche, come Giovanna D’Arco - solo per il gusto della
classicità, o per amore tout court verso il passato; egli le innesta al nostro
tempo ed è nel sorpassare “la Storia” che consiste la sua vera novità,
nello stimolarci, attraverso vicende e personaggi, a non arrenderci alle
difficoltà e accendendo in noi “il desiderio/di sfidare il destino”.
Le parole dei morti “ai bordi dei sepolcri” non sono un soliloquio
scaturito da nostalgia transeunte e fine a se stessa, ma la necessità che gli “affetti”
continuino a lievitare il vivere collettivo, siano, cioè, un medicamento
all’aridità e alla troppo spinta individualità dell’uomo moderno.
La suggestione dell’opera deriva dalla miscela di mito e di modernità, ma
anche dallo stile, dal linguaggio, dal verso quasi sempre chiaro, privo di
retorica e di affettata solennità. Tutto è piano nella poesia di Pardini e il
suo colloquio familiare ci conquista e ci fa accettare anche qualche oscurità,
mitigata comunque dal ritmo, dal naturale pentagramma e da una Natura -
purtroppo sempre meno “acerba” ai nostri giorni - presente ora nel dare
risalto al dramma (il “cielo rosso” del sacrificio di Ifigenia), ora nel
sottolineare l’arcano (lo stridere delle cicale, il saltare del rospo, il
volare della libellula nel rilassante flautare del pastore), ora, infine, nel
ricordarci semplicemente il rinascere della vita attraverso il verdeggiare
delle “foglie nuove”.
I simboli del mito, allora, anche per contenuto è opera
impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle,
perché Pardini, risalendo dal passato, canta la stagione che anche ai nostri
giorni ingentilisce gli aspri “stecchi”; il lauro; il fiume; le “rocce
dal volto rossiccio/e levigato”, che sfidano il tempo e sono testimoni di
tante vicende; il Meridione d’Italia che ancora strega con le sue vestigia e il
contrastante “sapor di zagare e limoni”. Un’opera affabulante, insomma,
e solare.
Domenico Defelice
I
SIMBOLI DEL MITO
1990-1994
Et
maestum simul ante aras adstare parentem
sensit, et hunc propter ferrum celare
ministros,
aspectuque suo lacrimas effundere cives,
muta metu terram genibus summissa petebat.
…
Tantum
religio potuit suadere
malorum.
(Il
sacrificio di Ifigenia in Aulide)
(T. L. Carus)
…Come la vergine vide
innanzi all’ara il genitore addolorato
e attorno a lui nascondere il ferro
i sacerdoti e alla vista in lacrime
sciogliersi i cittadini, umile a terra
piegava i ginocchi muta di terrore.
…
Poteva
di cotanto male convincere la fede.
(Liberamente
tradotto)
Tantum religio potuit suadere malorum
Mori i
capelli
sulle bionde guance
arance vellutate al fin dei
cieli.
I fremiti dell’onde
sulle selvagge sponde
sciacquavano le barche
a infauste soglie.
Seppure il re chiamasti padre,
ti presero gli eroi:
tremavano i ginocchi
di rosa tondeggianti
scoperti al cielo rosso.
Impallidir ti videro
innocente,
quando impietoso il ferro
tinse di corallo
lo spaurito sguardo
sopra l’ara.
Amara svenava
la tua vita, Ifigenia,
per propiziare l’armata degli
Achei.
Poteva
di cotanto male
convincere la fede!
Note di mito
Sul
colle
ingiallito dal sole
richiamano cicale
arie tremanti,
e la calura
annega i suoni,
ed il greto
salta il rospo,
e la libellula
cerca l’acqua
nell’asciutto fosso.
La
balla uggia il montone.
Tra il
caldo che respiro
e l’odore di pecore
dal campo disseccato
note mi giungono di mito.
Un flauto arieggia note,
o arie da una lira
o forse la mano di un pastore
che intaglia tocchi
sopra il suo bastone.
Indifferenti ci guardano gli dèi
Non sperare perdono,
solo lo scherno
proviene dall’alto
e indifferenti ci guardano gli
dèi.
Tra i campi ed i vigneti
Bacco vagava
e tradiva la sua stirpe
tra ninfe e satiri,
canti festosi, amori;
gioiva paradisi
invisi agli astri dei cieli.
E tu
Semele
attratta da falsi lucenti,
desti il tuo seno,
non meno il corpo
che l’anima tua pura.
Spirava la radura
fra nebbie pallide
zeffiri divini
a ingannare fanciulle
e sotto vesti la luce
traspariva le forme
che tu donasti inconscia
alla bellezza eterna
che sovrastava Giove.
Ma l’amore è divino,
eterno è l’amore,
quando non scherno
si gioca degli umani
e tra gli umani resta.
Grande è il potere degli dèi
e provano ira
e a terra solo i sassi
e putti di fontane
vane immagini gli sono.
Ti
fulminò la luce
e cenere restasti.
Visse Dioniso tra i piaceri,
e amò degli uomini il divino:
le schiere di Apollo e delle
muse;
s’allontanò dai cieli
che stendono dei veli sui
mortali.
E beve
Bacco sorsi di rubro sangue
che sforano dai greti
quando langue il suo spirito;
e canta e danza, o ninfe,
tra l’Olimpo ed il piano.
Indifferenti
ci guardano gli dèi
e invano gli porgiamo gli
occhi,
quando tocchi superbi
ci rapiscono l’animo;
cova l’eterno sopra sassi e
marmi,
sopra statue immortali
tra flebili luci di passi di
luna.
Soles occidere e redire possunt
Ti
puoi immaginare Edipo
mentre muto, gli occhi forati,
conserva lacrime indisciolte
nell’animo impietrito.
Lo puoi immaginare
su una natura acerba
o su una dolce,
o su acque silenziose
a terminare mete.
Ti
puoi immaginare Saffo
ispida in volto
quale natura in crini
attorcigliati.
Saffo con animo esile
che cerca morte ovunque
sia un effetto contrario
al suo sentire.
La puoi pensare
mentre sul vasto mare
attende tempeste
e creste d’onde
giungere ai suoi piedi
sprezzante di vita
sui lidi abbandonati dagli
dèi.
Ti
puoi immaginare dolori
grandi, smisurati
che la Storia ripete
su spazi che si perdono nel
tempo.
Ti prende il desiderio
di sfidare il destino,
su coste selvagge,
su spiagge ostili,
su pendii che franano in
dirupi.
Ma che
gli amori ripudino i pudori!
Soles occidere et redire possunt
nobis cum semel occidit brevis lux
nox est perpetua una dormienda.
nobis cum semel occidit brevis lux
nox est perpetua una dormienda.
A Domnery sui Vosgi
A
Domnery sui Vosgi
la casa di Giovanna
dalle pareti d’intonaco
arricciato
è in piedi;
chiedi alla gente se conosce
i D’Arco, prestigio di Lorena;
ma la memoria vaga,
resta per sentito dire.
Si conosce la storia
che si pose alla testa
d’armati
ed Orleans libera fu
e come eretica
vide le fiamme
in tenera età per i Francesi.
Quanti
anni
che bruciò questa ragazza!
Restano quattro mura
un po’ a dispetto
che vanno oltre gli eroi,
sorpassano la Storia
e vincono la vita.
Foglie nuove
Stecchi
fino a ieri
magri nel cielo,
su panieri di rami finiti,
dentro tronchi
dall’arida scorza,
una forza covava.
Foglie nuove,
prova di voglia,
minuscole, quasi verdi,
tante che ti perdi
a mirarle sui ceppi,
su punte di dita
ficcate nell’aria.
Foglie
nuove
tra garruli voli,
in un sorso di sera
che ténere vibrano
e sfidano il vento
già verdi al primo tramonto.
Con Ulisse
Siamo
andati sui mari
a cercare nuovi lidi,
abbiamo visto perire
eroi arsi ed arditi
nati
per conoscere mondi;
abbiamo sfidato gli dèi
per avversi sentieri,
persi compagni
divorati
da mostri o prodigi.
Turbini di grigi cieli,
scogli di sirene,
amene voci di malie,
nostalgie su labili gusci di
bosco.
Alla sera
ora miro
il giro del sole,
l’astro che uccide un nuovo
giorno
adorno di ceneri sparse,
di veneri arse,
di rubori stracci.
Il ritorno dei nostri
pericoli,
Omero,
mi avvolge severo l’intorno.
Appena ricordo
il suo volto contratto,
ma il canto non giunse
a forare le cere
che opprimevano dolci chimere
e mi lasciasti solo
su un molo deserto
quando Feaci ospitali
lo sottrassero
a sconosciuti destini.
Da Itaca gli orizzonti
mirasti, Ulisse,
io giunsi in ritardo,
lo sguardo proteso ai fondali
a memoria di quei marinai
che alle tue rive
non approdarono mai.
Ti ho
ripreso sovente
la mente rivolta a Calipso,
ti ho chiesto pensieri,
quando sguardi tendevi
da mari lontani
a Telemaco il figlio
o a Penelope sola.
Di vaghe immagini in anima
ti avvolgeva la sera;
si stendeva la notte
a coprire i bei manti,
ma tanti facevano mucchio
nel risucchio dei gorghi
già persi.
Inventasti compagni
sul suolo tuo amico,
ti fingesti mendico,
avesti la sposa,
la cosa sublime,
il bene del figlio.
Ma il cipiglio tuo schietto
sognava i tramonti
alle fonti del mondo.
Il destino ti volle
al di là di colonne
a dispetto di pace,
di lari fecondi.
Io
restai su quei lidi
e ti vidi sparire;
ti chiesi all’istante
se scopristi il mistero,
le soglie del vero:
non udii la tua voce;
ricoperta alla foce
dai venti di mare,
non ti udii più parlare.
Sui greti del mio fiume
Sui
greti del mio fiume
segreti si nascondono i
messaggi;
si levano
ai raggi della sera,
poi volano alle golene,
alle schiene degli argini
e vanno dove le acque
gorgogliano alle secche.
Le
mecche dei messaggi
sono al mare:
ma non trovano nessuno;
il raduno è là
dove si apre il cielo
per incontrare il blu,
dove non scorgi il fine,
dove il canto disumano
del silenzio
nasconde le sponde
e il senso dei messaggi
ai greti del mio fiume.
Rocce possenti
Rocce possenti,
divini templi
di percorsi antichi
videro armenti
brucare sulle cime
quando pastori
di popoli passati,
armati di archi e di bastoni,
uccidevano falchi,
faine
o lupi predatori,
divoratori di capri,
scempiatori di greggi.
Leggi severe
là sulle cime
reggevano genti
e gli scontenti
a brutta fine
volgevano il capo.
Passava
il tempo lento
tra zufoli intarsiati,
note pastorali
e litofoni lustrali.
Le
rocce dal volto rossiccio
e levigato
guardano il cielo,
riparate dal verde
dei pini e degli abeti;
nascondono segreti
sotto folti pruni,
raduni di tribù passate;
giganti massicci
si ergono solenni sopra il
piano,
sugli umani destini
e annullano cammini,
vecchi tratturi,
muri di confine
coi continui ritorni
dei tramonti.
Oltre quel muro
La
notte
ai flebili lumi
e fra le stelle
belle le mie anime
sul prato al cimitero;
all’ora tarda,
quando i viventi
sono nei giacigli,
s’incontrano tra i tigli
ed i cipressi.
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l’odore di cera
e il fumo della notte,
tra l’esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di
ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l’agognato arrivo
vola di gioia.
Restano
le anime
fino a notte fonda,
non odi parole di spiriti,
ma vedi l’aria che vibra,
l’aria che tocca le fronde,
le lievi foglie
alle soglie dei sepolcri.
La vita, la morte,
le corte strade,
le rade immagini dei viventi,
gli spenti visi del passato:
tutto è beato ora.
Il
regno dei morti
vive di nuovo,
sorge alla penombra
e si anima nel tardi;
se guardi sotto l’ombre
dei cipressi,
i tramonti attendono l’oscuro,
il puro regno
oltre quel muro
dei nostri cimiteri.
Ti attendo là
Ti
attendo là
dove il mio libro
pone fine a parole
che restano sole
inespresse
tra una mèsse di ricordi
chiuse
ancora in gola.
Restano gli dèi
Cala
il sole
tra le mèssi e i frutti
e s’aggrappa il rosso
all’intonaco del pozzo,
alla parete stanca.
Le mete strette
della nostra terra
vanno a finire.
Restano
gli dèi
sul viale,
tra le foglie spazzate
dalle brezze;
si ergono le ombre
di giganti statue
sulla vita dell’acqua,
durature
sul chiudersi del giorno,
brillanti nella notte
di raggi di luna
sulla stessa fortuna
degli uomini alla sera.
Bianche di gesso,
logore di tempo,
restano sui viali
e vedono morire
ogni stagione
vite di giada bagnate
dal pianto del sereno
di rugiada.
Meridione
Sotto
i cieli imbiancati e sopra guglie
mi abbagliano le scaglie del
tuo mare
anni solcato
da indomiti velieri
di Mori guerrieri
Normanni ed Angioini.
All’ombra dei torrioni
e mura ardite,
tra i soli rifrangenti
eburnei tetti
guardo la piana
rianimando versi
di Scuola Siciliana
fiorente al fuoco
di disadorni vani
di un laico imperatore.
Dall’alto del balcone
dei templi sui salmastri,
su mura di castelli
sguarnite di ricami
vola un falcone
sui rami imbiondati di
ginestre
tra spine di fichi
ed il sapor di zagare e
limoni.
Strette finestre
ricordano gli intrighi
che Dante memorò
nei righi noti
di quelli che sprezzarono la
vita.
Continuano le brezze del
Salento,
il primo sonetto del Lentini,
oh donna D’Odo,
ai piedi della Storia.
Vaga la memoria,
acuti i tuoi profumi
che barlumi di liquidi
salmastri
inviano alle lande
coi soffi dei marosi.
Al
lauro
Racconta al sole il luccicante
lauro
storie d’amore dedicate a un
dio
che nei soggiorni tessali
inventò
lo strumento falcato. Ed io mi
accosto
per respirare ancora profumato
il verde verginale delle
guance.
Freme la bocca tra le foglie
tumide
dalle parvenze d’occhi a
rimirare
ritorni sulla terra. In
quell’esilio
-mi
dice- l’incontrò primieramente
amore. Pudibonda lo fuggì
né riconobbe in lui il volto
divino
che arse di affetti. In lauro
il suo splendore
fu vòlto sulle sponde che
mirarono
rallegrare sia petali che
sterpi.
Odo ancora i barbagli tra le
siepi:
-Dafne mio amore, torna!,
io sono qui che vago tra i
pineti
irti di rovi e sapidi di pini
grondanti ragie. Cerco sui
sentieri
i passi rosa che arsero il mio
animo
nei lucidi riflessi
dell’alloro.
Questa parvenza tenera, che
cresce
sulle spiagge spiranti i
giovanili
tuoi palpiti, recido per
forgiarne
una ghirlanda. La dirà il poeta
fronda
peneia. Ma io mi struggerò,
sapendoti vicina in arboscelli
viridiscenti che mi sono
attorno,
di te senza ch’io t’ami. È il
mio soffrire.
Oltre la terra la virtù che
serbo
al tuo potere vada e che gli
umani
salvi dall’ira siano dei
cieli.
E tu mia cara Dafne, mostrerai,
quando terrò i tuoi tepali con
me
sotto le coltri, il volto
tanto amato.
Disciolto dal timore svelerà
il vero amore che fugò la
vita.
L’ultimo dono
E ti
rivivo
accanto nel mio banco
mentre indecisa
tenevi la tua mano nella mia.
Procedeva Orfeo
tra i flebili lamenti
di spenti antri;
procedeva in silenzio
e il lento incedere vedeva
del nuziale corteo.
Già filtravano i raggi
dentro l’Ade
e già l’uscita
apriva grande luce.
Ma il tempo non avesti, Orfeo,
di gridare Euridice
che l’immagine svanì
nella caverna.
Solo
nel giorno
steso in mezzo al prato
per due volte la morte
ti aveva condannato.
La
mano ancor più stretta
mi tenesti, o primo amore,
porgendo sguardi teneri
al mio viso,
ed un sorriso di pianto,
è l’ultimo dono che mi resta
tra i simboli dei miti
che uniti noi ascoltammo
fulgenti di bellezza.
Con Ulisse ed il mito un interessante viaggio a conferma di un significato poetico che si concentra sugli aspetti più remoti del vivere collettivo, che De Felice ha anticipato, leggendo il suo commento al testo in postfazione, qui di seguito , nel blog. Il mito anche a mio giudizio è parte della vicenda umana ed è poetico il suo versante ignoto..
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Poesie che lasciano affiorare il senso dell'onestà e della fratellanza. Un vero poeta, come Pardini entrare liberamente nelle questioni più segrete dell'animo umano e ripercorre un sentiero spirituale che io intendo soprattutto in queste parole: Oltre la terra la virtù che serbo / al tuo potere vada e che gli umani / salvi dall'ira siano salvi.
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