Gianni Rescigno: IL SOLDATO GIOVANNI. Genesi Editrice. Torino. 2011. Pp.112. € 14,50
RESCIGNO E IL ROMANZO:
QUANDO LA PROSA INCONTRA
LA POESIA
Risulta insolito ma stimolante a chi, con
una certa assiduità, si è occupato della sua poesia, trovarsi di fronte ad
un’opera che vede il Nostro in veste di narratore. Inconsueta e non per questo
disorientante l’impressione, se è vero - come è vero - quanto si arguisce dalle
parole prefative di Giorgio Barberi Squarotti che così si esprime sul testo e
in proposito: “Rescigno molto efficacemente mette in bocca a Giovanni,
novantenne e oltre, il racconto della sua vita, e ne viene fuori una grandiosa
epopea popolare in forza di un linguaggio saporoso, agile, alacre, spiritoso,
che ha la rapidità e la verità del parlato, ma dietro bene si avverte la
strategia del poeta”.
Questa acuta considerazione del critico e
prefatore per eccellenza di un percorso creativo sempre intenso e vitale, quale
quello dello scrittore cilentano, apre le porte - a nostro modo di vedere - ad
un’interpretazione certamente più ampia e corretta del romanzo. Il soldato Giovanni, questa “storia di
un uomo del popolo, ossia di mio padre che visse tra due secoli” - come
l’autore stesso dice nella nota introduttiva al volume - è davvero il racconto
spietatamente reale e, al contempo, misericordiosamente poetico di una vita
difficile e sofferta, tesa come un arco sullo svolgersi e sulla diretta
partecipazione a tre diversi conflitti bellici: la contesa italo-turca in Libia
del 1911 e le due grandi guerre mondiali.
L’incipit dell’opera si fa subito
riconoscere per il piglio deciso ed una forza descrittiva che - senza fronzoli
- punta diritta allo scopo: quello di presentare il personaggio nella sua nuda
verità. Leggiamone, insieme, almeno gli episodi e la parte finale: “La terza
moglie di mio nonno si chiamava Giuseppa. Una matrona, vedova del custode del
camposanto, con mammelle sovrabbondanti, dai muscoli virili . . . Dedita al
vino fin dalla giovane età passava le giornate dividendosi tra casa, campagna e
cimitero . . .”. E’ già un bel biglietto da visita ma - saltando qualche pagina
(tra l’altro significativa per il procedere narrativo) - ci trasferiamo ai
momenti che tracciano i segni della sua dipartita: “Giuseppa prima di spirare
volle Giovanni al suo capezzale. - A te il mio campo Giovanni . . . Mai passerà
ad altre mani . . . Giuralo. - Lo giuro, ‘mammella’. - Dì al prete che non
suoni la campana . . . Nessun prete . . . il Padreterno sa tutto di me . . .”
e, infine, “ - Un desiderio dottore; via le medicine! Datemi una brocca di vino
. . . Il vino m’ha aiutato a campare, m’aiuterà a morire.”.
Così, in modo quasi disinvolto, nel
naturale avvicendamento della morte con la vita, il testimone passa al
protagonista, la descrizione del quale è, di nuovo, asciutta, forse ancor più
di quella precedente, come se lo scrittore - e qui viene fuori il poeta - si
voti ad una concisione sempre più concentrata via via che i personaggi
acquistano spessore e rilevanza.
Giovanni, dunque, è dipinto con pochi,
essenziali tratti; subito calato nell’azione, egli è un soldato, un combattente
sia nella guerra che nella vita. Non dissimile l’abbozzo di un’altra
figura-chiave: Nicola il “ferracavalli”, l’amico fidato, il compagno d’armi che
odia l’ingiustizia, il dissidio, la prevaricazione dell’uomo sull’uomo.
Imponente anche se umile questo “attore”, tanto da sostenere una parte
fondamentale nella “sceneggiatura” del romanzo: è lui l’antieroe, ed è sempre
lui l’alter ego di Giovanni; è Nicola che - a nostro avviso - rappresenta il
legno morbido e delicato che si nasconde sotto l’apparente ruvida corteccia di
“Giovanni senza paura”.
Come non ripensare ai bisticci - vere e
proprie dichiarazioni d’amicizia - tra i due commilitoni: “ - Non mi va
Giovanni, il tuo modo di ragionare. Non mi va, però ti voglio bene come a un
fratello . . .” e ancora “Spara! Spara Nicola a questi imbecilli bastardi,
figli di . . . - E torna, torna a ripetere che sono bastardi! . . . Difendono
la propria terra. Basta Giovanni! Mi hai rotto . . .”. E come, come non
soffermarsi su uno, forse il più alto, dei momenti elegiaci e carichi di pathos
dell’intero libro, quando Rescigno mette in bocca al maniscalco in fin di vita
queste sagge parole: “Tutti gli uomini tirano acqua al loro mulino.
T’imbrogliano talmente le carte in tavola fino a che . . . non vedi qual è la
cosa buona e quella cattiva. Non distingui chi ha torto e chi ha ragione.”, non
cogliere l’assoluta poesia del passo immediatamente successivo allo spirare
dell’amico: “Spinse lo sguardo in alto: nella notte. Oltre ciò che si possa
immaginare. E lì vide due ombre. Leggere, impalpabili, trasparenti. Cavalcavano
un destriero: una dama (la sua Bettina) e un cavaliere oltre il filo spinato
verso le giogaie.”.
Nicola (il suo spirito) tornerà spesso a
far visita a Giovanni; soprattutto negli attimi più critici e difficili della
sua esperienza militare la sua voce gli impedirà di uccidere il nemico, di dare
sfogo all’impulso irrefrenabile di vendicarlo.
La storia prosegue, fra alterne vicende,
fino al termine del primo conflitto mondiale cui segue un periodo
d’allontanamento dalla guerra ma non certo dai tanti problemi, di varia natura,
che la vita pone di fronte al protagonista: è questo il tempo anche dell’amore
(“Sisina era bella, bassina, rotondetta, con un sorriso di simpatia sulla bocca”),
della tragica esperienza della morte del primo figlio (“Gioacchino, così si
doveva chiamare . . . nacque senza strillare, già cianotico, senza respiro,
mozzatogli in gola cdall’inesperienza della levatrice”), della nascita di
Gianni, l’autore, affidato, “essendo infetto il sangue della madre . . . “agli
enormi seni di Lella”, la puerpera con tanto latte “da poter sfamare due
bocche”: così almeno, lei stessa, per necessità, sosteneva; in realtà i fatti
vanno diversamente: i neonati entrano in lotta per la sopravvivenza e Gianni,
“per natura caparbio e tristo”, riesce “a spuntarla su Tonino” che poco a poco
si spegne per denutrizione.
Scoppia la seconda grande guerra e “il
soldato Giovanni” riceve la “cartolina”: sono ancora anni di sangue e di
povertà (“In paese le cose andavano di male in peggio. Lo spettro della fame
s’insinuava . . . nell’animo di tutti”). Il Nostro ne delinea le vicissitudini
con il consueto, lucido realismo, tanto che ci è difficile non pensare ad una
scrittura d’impronta verista senza, per questo, essere necessariamente
riduttivi. D’altro canto, ci sembra che lo stile narrativo di Rescigno non
possa prescindere da questa connotazione, votato com’è ad una rappresentazione
disadorna, spoglia di ogni superfluità, di ogni commento - sia pure parziale -
che lasci intendere un’intrusione, una forzatura soggettiva nel contesto della
narrazione. Persino nei passaggi più leggeri e scherzosi (si pensi all’episodio
che vede don Pacifico pisciarsi sotto dalla paura) non viene mai meno questa attenta
considerazione del vero, della sua concretezza, del suo attecchire tra le
povere cose di una quotidianità soventemente dimenticata.
Ecco: questa inclinazione all’oggettività
conferisce al romanzo una nota di modernità che non guasta e bene si addice
alla forma, caratterizzata da un periodare breve se non, a volte, lapidario. Si
tratta, tuttavia, di una modernità tutta personale perché Rescigno non ama quel
genere di scrittura - oggi in voga - che aggredisce il lettore costringendolo a
seguire strade che, non sempre, si presentano lineari e comprensibili.
“Termino qui - scrive con naturalezza sul
chiudersi dell’opera - la storia del soldato Giovanni” sorprendendoci con un
finale degno della sua inconfondibile poesia: “Se gli (a Giovanni) domandate di
Nicola e Bettina vi risponderà che non sono mai esistiti. Mi parlò di loro in
un momento di debolezza e, quando, s’accorse d’aver tradito un segreto
impostosi, così m’apostrofò: Non raccontare mai a nessuno questa fesseria. Me
la sono inventata io. Capito?”.
Senza nulla aggiungere, termina qui anche
questa disamina.
Sandro Angelucci
Nel suo stile letterario inconfondibile, profondo e appassionato ad un tempo, Sandro Angelucci propone una quanto mai sorprendente lettura del poeta Gianni Rescigno nell’insolita veste di narratore. Citando l’autore, egli rammenta che, se al soldato Giovanni “domandate di Nicola e di Bettina vi risponderà che non sono mai esistiti”…. Non raccontare a nessuno questa fesseria. Me la sono inventata io”. Il critico si arresta qui, lasciandoci con il fiato in gola, ma io non posso evitare di tradurre con mie annotazioni il brivido che lascia questa misteriosa sospensione. Ritengo che il paradosso di Giovanni possa spiegarsi con la sdrammatizzazione. Al bando ogni retorica. Bisogna raccontare gli eventi senza magnificazione alcuna. Nulla deve esserci di esaltante nel mito, nulla di avulso dalla realtà, dalla vita. Sta nel realismo mitico la forza della scrittura rescignana. Nella fusione ossia della realtà con il mito, destinati entrambi a perdere smalto quando si tenta di separarli tra di loro. Stimolante è il confronto con Nicola, commilitone idealista che, morente sul campo, dice a Giovanni: “Tutti gli uomini tirano acqua al proprio mulino. T’imbrogliano talmente le carte in tavola fino a che non sai più che pensare … E non distingui chi ha torto e chi ha ragione”. Un idealista così ha davvero tanto realismo da insegnare! Angelucci, che ha recentemente concluso un imponente ricognizione critica sull’opera rescignana, sa bene che la visione del mondo dello scrittore salernitano sta tutta nell’unione fra cielo e terra, fra mare e terra; nell’incrocio, ossia, di verticalità ed orizzontalità, nelle sottili trame d’amore fra assoluto e relativo. Una poetica spiccatamente mediterranea, la sua, pagana e cristiana nello stesso tempo, oserei dire. Un vero e proprio “terrestrismo edenico”, amo definirlo io.
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