Nazario Pardini. I simboli del mito. Il Croco - Pomezia-Notizie. Ottobre 2013.
Sandro Angelucci
I SIMBOLI DEL MITO:
“L’ARIA
CHE VIBRA” SFIORANDO I SEPOLCRI
C’è una lirica, tra quelle contenute
nell’opera vincitrice del “Città di Pomezia, 2013” , che fornisce - a mio
parere - la chiave di lettura migliore per entrare nel vivo di una fatica
letteraria tutt’altro che agevole. Intendo riferirmi al testo di pagina 12, A Domnery sui Vosgi, nel quale Pardini
compie un’operazione difficilmente eguagliabile, unica se presa in
considerazione sotto l’aspetto creativo. Proprio così: perché, immergendosi
completamente nell’evolversi di questi versi, è possibile assistere “in
diretta” (mi si passi il termine televisivo) ad una nuova nascita, al
(ri)sorgere di Giovanna dalle sue stesse ceneri: novella araba fenice, non
riproposta però, bensì reinventata.
È la mitopoiesi: siamo di fronte alla
parola che crea, non a quella che ripete, ripete e ripete fino all’esaurimento
del sogno che incarna, molto spesso portandolo all’annichilimento come si
svuota del sangue un’arteria. Ecco, insistendo sull’allegoria, qui si verifica
l’esatto contrario: un cuore prende a pulsare e irrora le vene; qui,
incredibilmente - ma è vero - si capovolge la storia: il rogo che bruciò quelle
giovani carni, ora, sta incendiando la pelle aggrinzita, ormai disidratata, del
corso degli eventi.
Ed eccoli quei battiti: “Quanti anni /
che bruciò questa ragazza!” - canta, illuminato, il poeta -; sono queste le
palpitazioni autentiche, quelle soltanto attutite dal crepitio della legna che
arse realmente e che adesso sovrastano ogni altra risonanza, ogni tragico
rumore proveniente dal passato: “vanno oltre gli eroi”, oltre l’idolatria,
“vincono la vita” perché sono più forti della morte.
Non è la mitologia che conta, è il mito:
di più, non è neppure il mito ma la sua simbologia. “La memoria vaga, / resta
per sentito dire” ma la metafora è immortale, permane come una forza che cova
“dentro i tronchi” degli alberi che innalzano magri “stecchi” verso il cielo; è
il simbolo la foglia nuova, “prova di voglia” a sfidare i venti per un’altra
primavera. Sono note, Note di mito, quelle
che si ascoltano leggendo, e provengono da strumenti che fanno parte
dell’orchestra sinfonica della natura: è tramite il suo concerto che si propaga
l’armonia, anima del sogno e del futuro.
Nella prova di cui si sta parlando gli
elementi naturali - sempre presenti e fonte prima d’ispirazione per l’intera
poetica del Nostro - assurgono ad un ruolo determinante: s’incaricano di
trasmettere l’energia primordiale dei miti divenendone essi stessi simboli; in
questo modo la leggenda è messa a nudo e si rivela al mondo come se fosse la
prima volta. Ne deriva un racconto che non può che essere perennemente attuale
- I simboli del mito, allora,
(sostiene a ragione Domenico Defelice) anche per contenuto è opera impostata
più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle. . .” -;
l’antichità classica, cui si ricorre, è motivo di spinta dinamica e non di
statico ristagno. Per questo, ‘i segreti’ sono affidati alle Rocce possenti, i “divini templi” della
Terra, in grado non solo di custodirli ma, cosa ancora più importante, di
ridisegnarne i contorni o, meglio, di tenerli in vita demolendoli e facendoli
rinascere nello stesso momento.
Oltre
quel muro - a mio avviso, vetta più alta della plaquette - è esemplare al
riguardo: non sono defunti quelli che “escono dai marmi freddi”, sono persone
reali; ma come possono, come fanno a risorgere? È molto semplice: perché sono
morti per chi altro non sa percepire che “parole di spiriti”; non lo sono - di
certo - per chi coglie la beatitudine della vita e della morte nell’“aria che
vibra”, “che tocca le fronde” pendenti sulle “soglie dei sepolcri”. Si resta
senza fiato a guardare da lassù gli inimmaginabili e sconfinati confini che si
aprono alla vista dell’anima: “se guardi sotto l’ombre / dei cipressi, / i
tramonti attendono l’oscuro, / il puro regno / oltre quel muro / dei nostri
cimiteri.”.
Mi permetto d’invitare a soffermarsi su
questi versi di rara e sorprendente bellezza: la capacità poetica di Pardini è
fuori discussione ma, qui, davvero, egli supera se stesso: in tutti i sensi,
sia sul piano contenutistico sia sul versante formale. Del primo si è detto
poc’anzi ma vale ribadirlo: non ci sono muri così alti da impedire la fuga dai
“nostri cimiteri”; della creazione versificatoria vorrei porre, appunto, in
evidenza l’estrema armoniosità: si notino i richiami delle assonanze e delle
consonanze interne ed esterne, l’accentuazione felice ed impeccabile che induce
chi legge a sostare sulle parole-chiave, la spezzatura dell’endecasillabo
(misura fortemente amata), più che altrove, con grande resa fonico-costruttiva,
viene qui, più che sperimentata, inventata, l’elisione - licenza poetica
attualizzata - della ‘e’ nell’articolo delle “ombre”: inconfutabile ed
appropriato recupero di stilemi tradizionali.
Tutto questo (ma molti altri sono gli
esempi che si potrebbero addurre) nel breve spazio della conclusione di una
chiusa che, a lungo, resta impressa negli occhi e nella memoria. Una chiusa che
rimanda immediatamente ai versi finali della raccolta, nei quali i simboli del mito si legano
indissolubilmente all’amore, alla sua visitazione terrena dell’uomo: “La mano
ancor più stretta / mi tenesti. . . / porgendo sguardi teneri / al mio viso, /
ed un sorriso di pianto, / è l’ultimo dono che mi resta”. Sandro Angelucci
16/11/2013
Nazario
Pardini. I
simboli del mito. Il Croco
Pomezia-Notizie.
Ottobre 2013.
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