L’ANGOLO DEL
VERNACOLO
La trasformazione del vernacolo in Mario dell’Arco
di Franco Campegiani
C’è un dato inconfutabile: il Popolo
non esiste più. La morte del Popolo, che già Pasolini a suo tempo
denunciava, è un processo culturale in atto da secoli, dall’avvento della
società industriale, potremmo dire; o addirittura dalla Rivoluzione francese,
come ha detto Marx, che proprio a quell’evento storico attribuiva la fine della
cultura popolare e l’inizio della società di massa dei tempi attuali. Ebbene,
il vernacolo non poteva non subire le stesse sorti. Il destino già da allora
era segnato e sarebbe sciocco oggi non prendere atto di questa realtà, giunti
dove siamo giunti, e cioè al cosiddetto villaggio
globale, con la disintegrazione dei localismi e delle territorialità.
Non vorrei essere frainteso, però. So bene che non si può essere universali senza essere locali e che senza parlare del proprio paesello,
o comunque delle particolarità, non si
può raggiungere l’universalità, e
viceversa. Non intendo pertanto avallare, con tale constatazione, la rinuncia
al sacrosanto desiderio di ristabilire, nel caos imperante, un principio di sana
umanità. Ritengo anzi necessaria ed urgente una rifondazione popolare, una
ricostruzione del senso comunitario più autentico, ma mi chiedo: per combattere
un avversario si può forse ignorarne la realtà? Lo si può forse eludere? La
risposta è: no. Bisogna guardarlo in faccia invece, l’avversario; capirne
l’anima, condividerne la weltanschauung,
individuare e vivere i suoi punti deboli, amarli addirittura.
Solo così, dopo averlo abbracciato, potremo sperare di domarlo, o di
attenuarne la nocività. Accettare non
è porgere l’altra guancia, come
potrebbe sembrare, ma è prima di tutto farsi
accettare. Amare il nemico non significa eliminare la lotta, ma significa
rendere costruttiva l’inimicizia, in una visione del mondo dove le opposizioni
sono complementari, anziché antitetiche e distruttive tra di loro. L’Eden, in fondo, non avrebbe senso, se
non ci fosse la cacciata dall’Eden, e
viceversa. Il Caos è necessario all’Ordine, come questo a quello. Fuor di
metafora: se non ci si immerge nella distruzione in atto, nei disvalori
promossi dall’attuale (in)civiltà, non si acquista la possibilità di
riaffermare i valori di un sano vivere civile, di un’autentica e vitale comunità.
Questo preambolo non è peregrino per parlare di un gigante della
letteratura mondiale che ha scritto in lingua
romana più che in dialetto romanesco:
di romanesco, diceva lui, esiste
soltanto il carciofo. Di chi sto parlando? di Mario dell’Arco, che conobbi
quando non avevo ancora trent’anni e che volle tenere a battesimo le mie prime
opere letterarie: io non scrivo in vernacolo, ma ciò non impedì al magnanimo di
prendermi a benvolere. Se ne parla, oggi, di dell’Arco, e sempre se ne parlerà.
Se ne parla finanche negli ambienti romaneschi, dove non ha fatto scuola e dove
venne apertamente osteggiato, anche se dopo la scomparsa molte voci si sono
alzate in sua difesa ed in suo onore.
Ebbene, il raffinatissimo Mario dell’Arco – che paradossalmente poteva offrire
la propria collaborazione a quel trasgressore del purismo che era Carlo Emilio
Gadda, nonché donare la propria amicizia a Pier Paolo Pasolini, accorato testimone
e protervo aedo dell’omologazione in atto – contribuiva a demolire a modo suo, con
la sua squillante, coltissima e luminosa eleganza, la vitalità, non voglio dire
del sonetto, ma del manierismo sonettistico, legato ad un senso anacronistico
della popolanità. I suoi richiami accorati ad una visione umana e fraterna del
vivere non hanno alcunché di nostalgico, di oleografico, di idilliaco, e risultano
totalmente calati nella modernità, immersi nel veneficio dell’attuale momento storico.
Scomparso all’età di novantuno anni, sul finire degli anni Novanta (esattamente
nel ‘96), Mario dell’Arco conobbe molto bene la realtà metropolitana. I tempi e
i luoghi della sua poesia sono in buona parte anche i nostri, visto che ci
precede solo di qualche lustro, e d’altro canto la vena con cui s’è imposto
all’attenzione del mondo letterario, nonché di un pubblico vastissimo, non è
stata precoce, essendo nata nel ’46 –
lui quarantenne – con Taja ch’è rosso (Taglia che è rosso: il cocomero), prefato da Antonio Baldini. Siamo
dunque nella Roma postbellica, dove in quegli anni inizia la grande
trasformazione che di lì a poco avrebbe portato la Capitale alle dimensioni
di una moderna metropoli, con i complessi problemi derivanti dal progresso
tecnologico-industriale, nonché con le invadenti mode esterofile e quelle non
meno aggressive dei media: stampa, cinema e Mamma-Rai soprattutto.
Per la verità il processo omologativo era già iniziato dopo l’Unità
d’Italia, in seguito ai moltiplicati e facilitati viaggi interni,
all’emigrazione dal Sud verso il Nord, al servizio militare, ai matrimoni
misti, all’istruzione obbligatoria, eccetera. Tuttavia, verso la metà del ventesimo
secolo esistevano ancora le realtà regionali, con quei grossi centri
rappresentativi (di cui Roma era il più importante) che oggi, per una serie di
ragioni che hanno accentuato e velocizzato il livellamento su scala planetaria,
hanno affievolito enormemente le proprie valenze territoriali. Va anche
rilevato tuttavia che in altre regioni italiane l’omologazione non ha avuto
quella spinta che ha fatto dell’Urbe una moderna metropoli, e ciò ha consentito
ai relativi vernacoli di conservare una maggiore, e a volte anche integra, indubbiamente
autentica, aderenza alle radici, all’elementarità.
La poesia dialettale di Mario dell’Arco è testimone, al contrario, del
vasto processo di mutazione che ha stravolto la società. La sua Città non è più
il paesone papalino del Belli, né il borgo rusticano di Pascarella, né il centro
piccolo-borghese trilussiano. Roma, nella sua poesia, viene tacitamente
assumendo l’aspetto di uno dei tanti, anonimi quartieri dell’immenso villaggio
globale dei tempi attuali. Sradicamento, spaesamento, emarginazione, malessere,
protesta: una realtà metropolitana inquietante, che in dell’Arco fa da
sottofondo, da substrato invisibile e fertilissimo di una poetica surreale e
crepuscolare, moderna ed angosciata, ma nutrita di speranze mai dome e grondanti
umanità.
Il disagio metropolitano, in questa poetica, non è esplicito come nel
neorealismo pasoliniano, bensì implicito, fornendo lo spunto per una poetica del fanciullino paradossalmente
coltivata nel mezzo dell’assordante strepito urbano, ponendo tra parentesi i
miasmi cittadini e animando per contrasto i monumenti antichi, la Roma imperiale, unitamente
alle voci della campagna circostante, ancora vigorosa a quei tempi. Campagna dove
alla fine il poeta si trasferì, andando a vivere a Genzano laziale, da lui
ribattezzato Genzano dell’Infiorata. La
prospettiva dellarchiana non ha intonazioni civili o sociali, ma antropologiche,
nel più o meno consapevole intento (antipirandelliano,
potremmo forse dire, in controtendenza rispetto alla babele avanguardistica) di
una ricostruzione popolare e limpida dell’identità.
Una rinascita della Romanità dalle rovine dell’omologazione trionfante.
Un’umanizzazione del mondo disumano che abbiamo creato, vivendolo per quello
che è e bonificandolo dall’interno, senza osteggiarlo con sterili e presuntuose
sfide. Mario dell’Arco riesce veramente a fare il miracolo, portando nel cuore
della gazzarra metropolitana il suo immenso amore per il verde e per il plein air, la sua voglia d’azzurro, il
suo paesaggio interiore, ricco di architetture classicheggianti e di fiabesca
monumentalità. Non è vero, allora, che Roma è sparita. Non è vero che per
ritrovare il popolo occorre andare a ritroso nel tempo e cantare come cento o
duecento anni fa.
Roma è ancora qui, la si può toccare con mano in questo idioma
totalmente rinnovato nei tessuti gergali, ma lontano anni luce dai capricci
dello sperimentalismo, ed anzi straordinariamente cristallino, assolutamente
privo di leziosità. Una vera e propria lingua, più che un dialetto, come è
stato acutamente osservato, capace di parlare nuovamente di anima e di
ristabilire un’alleanza dell’uomo con la realtà. C’è, in Mario dell’Arco, una fortissima
pietas, un sentimento compassionevole,
ma non lacrimevole, per il destino che accomuna tutti i viventi; un’accettazione
dolorosa della realtà (o del mistero, che è la stessa cosa), tipica dello
spirito romano autentico, come dell’anima popolare in genere, che ne ha viste
di tutti i colori e non c’è sventura che possa farle smarrire la bussola. C’è sostanzialmente
l’equilibrio di Giano bifronte, con quell’italum
acetum, quella sana ironia che
non consente esaltazioni, vuoi nell’ottimismo, vuoi nella frustrazione e nella
negatività.
Ma c’è soprattutto la meraviglia per la vita, per i suoi incanti e
disincanti, per la sua realtà semplice e profonda. Meraviglia sostenuta da una
fantasia sbrigliatissima, ma non bizzarra o baroccheggiante, come potrebbe
forse sembrare ad un lettore poco attento. Non c’è nulla di gratuito o di
evasivo, di tortuoso o criptico, in questo mondo di fantasie fanciullesche. Di
una fanciullaggine adulta e smaliziata, però: scafata, come si ama dire a Roma. Ho conosciuto Mario dell’Arco e l’ho
frequentato per anni. Apollo e Dioniso vivevano in lui. Testa olimpica e cuore
popolano. Questo è il ricordo che serbo di lui e spero di non dimenticare la
sua voglia di elevarsi al di sopra delle angosce e delle miserie umane,
l’espressione limpida e serena, il desiderio di cieli tersi, mantenendo integre
le radici nell’umanità.
Poesie di Mario dell’Arco
Da “Una striscia de sole”, 1950
A NISCONNARELLA
Finché m’acceco e
conto: uno, due, tre
e sto a trenta;
finché
te cerco in mezzo ar
prato
e scosto un ramo, e
movo
l’erba, e trattengo
er fiato:
tu ce sei. Corpa mia
si nun te trovo.
A LA MANINA
Chiusa ner pugno
mio,
chiedevi aiuto. C’è
qui, tra le dita,
ancora
er battito d’allora:
ma so’ io
che chiedo aiuto a
te.
Da “Er gusto mio”, 1954
Candida e lustra e
tronfia,
la cicogna che porta
li gemelli
va in giro co la
sporta troppo gonfia
e se vergogna.
Scansa li castelli,
sopra a la villa
svorta
e dove apre la sporta
è sempre er tetto de
li poverelli.
Da “Caccia si, caccia no”, 1971
GNENTE LEPRE
Làscelo ar
cacciatore er lepre! Tu
appunta la doppietta
contro la minuzzaja:
l’allampamosche, la
codetta, er chiù.
E quanno spari, fa’
attenzione: sbaja!
Da “Epigrammi e chi vuole gli epigrammi?”,1977
II
Un materazzo solo
tutto zeppi e un
lenzolo
pieno de buci:
eppure sto benissimo.
Tu piume, tu
batista, tu merletto
e ner letto a tre
piazze,
una a dritta una a
manca, du’ regazze
e caschi e penni
come un ramo secco.
Vòi la salute,
Checco?
Famo a cambio de letto.
VI
A mezzogiorno Marco
se sganassa
un porco – e puro
grasso.
Mica j’abbasta:
corco
Su la carcassa,
succhia osso per osso.
Penso ch’er più
scandalizzato è er porco.
IX
Dico un verso – e
l’amico
“Bravo!” me strilla.
A bocca piena, dato
che l’ho invitato a
cena.
XIII
Una ventata spalla
l’Infiorata
E dar tinello de via
Livia cola,
colore der rubbino,
un marrana: a galla
er petalo de rosa,
de viola,
de garofano
e bevo fiori e vino.
XVIII
A dilla interenosse
ho rigalato a Checco
du’ corna de
stambecco.
Così, je piace o no,
se fa capace
che le sua so’ più
grosse.
XXXII
M’aspetti, pupo,
sottoterra.
A
ora
a ora er tempo
passa, er tempo appanna
la voce, imbianca li
capelli – e ancora
canto una
ninnananna.
Senza voce: finché
chiudo l’occhi e
m’addormo accanto a te.
XXXVI
Antipasto e un
sonetto: pastasciutta
e un sonetto:
capretto
sbrodettato e un
sonetto.
Sonetto e dorce,
frutta
e sonetto, sonetto e
marvasia.
Tutto ho gradito,
amico: versi e cena
e grazzie de
l’invito.
Sai che te dico?
Solo a panza piena
s’apprezza la
poesia.
Da “Una lastra de marmo”, 1979
II
Su un’ondata de
verde
una lastra de marmo
m’ha diviso da te.
Eppure nun se perde
tra noi una parola
né un sorriso.
Da “Flora di Mario dell’Arco”, 1981
IO-GIJO
Mischiato a troppi
fiori
io-gijo, in mezzo a
uno sguazzo de colori.
E penso a San
Luiggi.
Lui
m’appare
tinto de celo – e
uniti su l’artare
se spartimo la
nuvola d’incenso.
Da “Roma di Mario dell’Arco”, 1982
Come s’affaccia,
sfodera le braccia:
du’ pale da mulini
e caccia a fischi e
schiaffi li burrini.
In cima a Campidojo,
grazzie a dio,
semo rimasti
Marc’Urejo e io.
SETTE GIORNI CHE
PIOVE
Sette giorni che
piove e sette notti
e io piantato come
una filagna
drento a Piazza de
Spagna.
Hai visto mai che
all’urtimo s’affaccia
fiume da Via
Condotti.
Torno a casa in
Barcaccia.
CUPPOLE
La cuppola è un
pallone
ancorato sur tetto.
Chi è che l’ha
gonfiato? L’architetto
e lo fa seccardino o
burraccione
seconno er fiato che
se trova in petto.
Abbotta le ganasse
Borromini:
soffia – e sòrteno
tanti cuppolini.
Ce mette drento
un’ala de pormone
Michelangelo – e
nasce er Cuppolone.
Da “Gatti, e chi vuole gatti?”, 1985
“ER GATTO SFATICATO”
Gnente, gnente
difetti.
Chiunque dice “è un
gatto sfaticato”
cerca rogna.
Defatti sta coll’ogna
su un sorcio
disegnato
ner giornale a
fumetti.
Da “L’angelo disparo”, 1990
TU E IO
Sottobraccio er
vangelo,
anniscosto
abbetereno
da la lastra de
celo,
Gesù. Sordo a ogni
voce,
ceco a la croce mia.
Inchiodato ar
peccato,
posso sceje a
l’inferno
fanga o lingua de
foco,
pece o sangue
bollente.
E tu (porcamiseria!)
indifferente.
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