Pasquale
Balestriere ci fa ri/vivere in questo brano il clima natalizio di altri tempi,
quando le tradizioni erano abbarbicate nel cuore e nei costumi della gente di
paese. Tradizioni, comunque, se Dio vuole, che ancora permangono a Buonopane,
territorio di Ischia, o in piccoli altri borghi non contaminati dalle frenesie
della vita moderna. Dall’animo dello scrittore fuoriescono immagini di vera
poesia, sapide di buona memoria, e impreziosite dalla crosta biscottata del
tempo; l’Epomeo che punge innevato l’azzurro del cielo, il profumo del buon
vino, dei dolci fatti in casa, il rito dell’uccisione del maiale, e la
rievocazione di una natura amorevolmente partecipe alla vita umile, cordiale, e
affabile dei popolani assumono valenza di cristallizzazione di abbrivi emotivi. Bella pagina di prosa
poetica, di realismo lirico, dove l’umiltà si fa grandezza. Descrizione
asciutta e oggettiva che arriva facilmente al sentire di tutti, o meglio al
cuore di ciascuno, senza cadere mai in un sentimentalismo di becero passatismo,
di ovvia melanconia per il tempo che fu, perché qui a Buonopane ancora: “… si respirano fragranze di mosto e profumi di
vino, dove si esegue e si tramanda la famosa ‘Ndrezzata, dove la tradizione si
conserva anche nell’acqua di Nitrodi e nella grande quercia di Candiano, la
festa del Natale mantiene non solo il suo fascino di evento spirituale, ma
anche la carica vitalistica di festa della tavola, ricca come in nessun altro
periodo dell’anno.
E
ancora oggi, nei freddi decembrini, lo
sperone innevato dell’Epomeo punge, caparbio, l’azzurro del cielo, mentre le
campane annunciano la festa delle feste”.
il NATALE del
villaggio
S’annunciava così il Natale dell’infanzia: con
freddi intensi e lo sperone innevato dell’Epomeo a pungere l’azzurrità del
cielo. Oppure con piogge lunghe, interminabili, che chiudevano in casa bambini
desiderosi di giochi all’aria aperta.
Il piccolo borgo di Buonopane, accovacciato in
un semicerchio di colline, svolgeva tranquillamente la sua vita contadina.
Nel secondo dopoguerra i campi -nonostante
l’accentuata emigrazione- pullulavano di persone intente al lavoro: a dicembre,
intorno alle viti semispoglie, cominciavano i gracchi (“azzecchi” e “schiocchi”
li definisce il Pascoli) delle forbici da pota;
il contadino ritardatario “faceva
le fratte”, cioè scavava con la zappa buche nel terreno allo scopo di captare
acque preziose. Le donne raccoglievano erba per i conigli e legna per il focolare, che dava cenere per
concimare le cipolle e brace per alimentare il braciere, intorno al quale si
riuniva tutta la famiglia nelle fredde sere invernali; e che, nelle occasioni
importanti, profumava la casa se si ponevano sulla brace pezzetti di pigna o
d’incenso, o semplicemente bucce di mandarini o d’arance.
In prossimità della nascita del
bambinello, quasi come in un rito
pagano, cominciavano i sacrifici: del
maiale, per esempio, che doveva immolarsi per garantire una certa riserva di
cibo per l’inverno: salato, sotto aceto,
trasformato in salumi (capocollo, salsicce, prosciutti, soppressate, ecc.), in ciccioli (‘e cìculë),
in lardo, in sugna, in sanguinaccio. E tra amici stretti e parenti ci si
scambiava” ‘u ségnë ‘e puórchë”, cioè il segno (dell’uccisione) del maiale,
consistente in vari assaggi dei prodotti
ora citati, ma in particolare delle carni. Va notato che l’acquisto e
l’allevamento del maiale indicava, in quei tempi di povertà, un minimo di
benessere economico.
L’altra vittima predestinata in tempi natalizi
era il gallo (‘u capóne), il quale, nel corso della sua non lunga vita, ad ogni
chicchirichì suscitava un ironico commento a forma di proverbio:
“Canta capónë ca Natale vènë”, cioè canta pure, gallo, che prima o poi
arriva Natale.
Chi non aveva la “ricchezza” del maiale e la disponibilità di un gallo si
accontentava del coniglio di fosso, da sempre generoso con il suo allevatore.
Al mezzogiorno della vigilia si “faceva l’ottonzë”(otto once, circa 250
grammi), si consumava cioè un pasto leggero a base di baccalà fritto. Di
sera invece il primo (povero) piatto era spesso
costituito da vermicelli “cu ‘e fiurillë”, cioè con i gallinacci e cantarelli,
gli unici funghetti che si potevano ( e si possono ) trovare nei boschi
dell’isola d’Ischia a dicembre. Erano lontani e inavvicinabili, per motivi
pecuniari, capitoni, gronghi, murene e le varie fritture miste.
A pochi giorni dal Natale, se non addirittura
alla vigilia, si preparavano, sempre in casa,
i dolci tradizionali: panettone, roccocò, susamielli, poi i mustaccioli;
ed anche i liquori dopo aver acquistato, di contrabbando, l’alcol e, nelle botteghe, i “sensi”, cioè i concentrati ( essenze o
estratti) aromatici del gusto preferito.
Quando il tempo aveva ancora ritmi lenti
-diciamo negli anni Cinquanta/Sessanta- l’avvicinarsi del Natale, che ancora
nei piccoli paesi era avvolto da misticismo religioso, veniva scandito da due
momenti che ne creavano l’atmosfera: le novene, con i loro canti gioiosi, e la
preparazione del presepe.
Si cominciava con la novena dell’Immacolata e
poi, dal 16 dicembre, si proseguiva con quella di Natale. La chiesa, in queste
circostanze, era molto frequentata, certamente più del normale. I canti erano
guidati da uno degli organisti del paese, che in quel periodo erano Ottavio Di
Meglio e l’insegnante Salvatore Di Meglio, che si avvalevano del necessario
supporto di un paziente e forte Giovan Giuseppe che “tirava i mantici”, cioè
girava la manovella per alimentare, appunto, i mantici dell’organo.
La
preparazione del presepe era l’altro momento significativo. Il presepe, non
l’albero di Natale, che qui è arrivato dopo, dalle nevi ghiacciate del nord
dell’Europa.
Si cominciava con la ricerca e la raccolta
delle “réppulë”, cioè di muschio e di selaginella, per fare il tappeto del
presepe; e poi ceppi di canne, pezzi di rami, cartoni e materiali vari per
costruire il paesaggio. Nell’ultima fase si posizionavano i “pastori”. Spesso
al presepe lavorava tutta la famiglia.
Ma le feste natalizie si portavano appresso,
per la gioia non solo dei bambini, un piccolo corredo di giochi. Con le
nocciole, per esempio: le ragazzine “alla fossa”, cercando i far rotolare le
nocciole in una fossettina a colpi di “pizzico”, cioè incrociando pollice e
indice e facendo scattare il pollice che colpiva la nocciola con la forza
necessaria perché questa si imbucasse; i
ragazzini invece si divertivano “a castilletto”, cioè disponendo ognuno quattro
nocciole a castello e cercando, con una nocciola più grossa, di colpire i
castelli, allineati, da una certa distanza. Gli adulti invece, nelle lunghe
sere festive, amavano giocare a tombola (le donne), a carte (gli uomini).
Passava così il Natale d’una volta.
Naturalmente con una tavola ricca di cibi (una tantum!) e la classica
lettera fitta di promesse (da marinaio)
dei figli sotto il piatto del papà.
E oggi? È un Natale piuttosto diverso ai miei
occhi. Ma a quelli dei bambini del nostro tempo forse questa festa appare come
appariva a me tanti anni fa, con la magia, l’allegria e il miracolo che
accompagna ogni nascita. Certo, al
presepe si è aggiunto l’albero, qualche canto natalizio di un tempo è stato
sostituito da altri più moderni; il maiale viene ucciso in vari periodi
dell’anno, e il pollo si può anche comprare facilmente, e magari è sostituito
dal tacchino. Forse non si gioca più con le nocciole e non si porta il
bambinello per le case, ma non sono sparite le cerimonie religiose e alcuni
canti intramontabili conservano il fascino
di un tempo. Nel presepe i pastori sono più nuovi e più numerosi, e c’è più
illuminazione natalizia per le strade, e di giorno, nei campi, gracchia sempre
qualche forbice che trancia e cima i rami delle viti, mentre a casa ancora
tante donne preparano i dolci tradizionali. E, dopo un periodo di assenza, sono
pure ritornati gli zampognari.
Sì, lo possiamo dire: nel paese di Buonopane,
dove ancora si respirano fragranze di
mosto e profumi di vino, dove si esegue e si tramanda la famosa ‘Ndrezzata,
dove la tradizione si conserva anche nell’acqua di Nitrodi e nella grande
quercia di Candiano, la festa del Natale mantiene non solo il suo fascino di
evento spirituale, ma anche la carica vitalistica di festa della tavola, ricca
come in nessun altro periodo dell’anno.
E ancora oggi, nei freddi decembrini, lo sperone innevato dell’Epomeo punge,
caparbio, l’azzurro del cielo, mentre le campane annunciano la festa delle
feste.
Pasquale
Balestriere
Straordinario quadro del tempo che fu, la cui semplicità profondamente spirituale non tramonta e sembra poter nuovamente albeggiare oggigorno. Ben venga la "crisi", se riuscirà a farci riflettere sui limiti di un progresso che trama contro l'umanità. Nei cosiddetti "secoli bui", il popolo era analfabeta, ma le teste erano piene di valori e c'era più umanità. L'analfabetismo odierno, al contrario, sta inaridendo le teste e rende cinica l'umanità. Si dirà che i contadini di un tempo erano ingenui, ma chi li ha conosciuti sa che non è vero e che erano molto scaltri. Essi vivevano nell'incanto, è vero, ma era un incanto, il loro, che sapeva farsi carico del disincanto di condizioni di vita assai grame. Inimmaginabili per noi, figli rammolliti e pieni di spocchia, rinchiusi nei paradisi artificiali, nelle campane di vetro - queste si, davvero "incantate" - delle moderne città.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Toccare, con il pensiero, la tradizione del Santo Natale, mantiene vivo il ricordo di piccole cose che si dischiudono nella gaiezza di un clima familiare ricco di prospettive e di affetti, fondamentali per la crescita di tutti quei bambini che negli anni a venire non perdono l'occasione, come ha fatto Balestriere, di raccontare momenti cosi' importanti.
RispondiEliminaCon questo racconto, complimenti e Buon Natale. Miriam Binda
miriam binda