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martedì 21 gennaio 2014

M. G. FERRARIS SU: RECENSIONE DI N. PARDINI A "POESIE SULLA SOCIETA'" DI N. CHIAVERINI

“Il sogno del poeta è vincere il tempo…” 

…La fuga dalla realtà/ Un vuoto di senso/
Che  la vita contiene”
…Uomo contemporaneo/ senza patria e senza memoria
 unica meta una vita sdrucita” (Frantumi).

Non ho letto le poesie di Nadia Chiaverini Poesie sulla società…, ma con attenzione ho letto la recensione di N. Pardini che è una articolata argomentazione sulla poesia, “canto che reclama una società più umanamente giusta”.
E al di là della valutazione partecipe delle poesie della poetessa Chiaverini, alcuni punti della argomentazione pardiniana destano in me grande interesse. Provo a parlarne.
Primo punto: “ E non è che la Chiaverini voglia fare della poesia un mezzo di propaganda politico-sociale; di schieramento; lei è e vuole essere poetessa….”: un grande tema-  quello dell’impegno politico-sociale del poeta, l’intellettuale engagé -.
Mi riconduce a un’ intervista del 1971, quando R. Guttuso ricordava i suoi rapporti con Vittorini che allora andava  scrivendo Conversazione in Sicilia: «A Milano conobbi Vittorini … Fu sulla scia di quel libro rivoluzionario e riecheggiandone il titolo, che dipinsi la mia Fucilazione in campagna, dedicata alla morte di Garcia Lorca, ucciso in quegli anni dai fascisti spagnoli.” E continua affermando di come nell’arte contemporanea si stia superando il realismo ottocentesco (anche in relazione al percorso compiuto da Picasso, vero e proprio nume tutelare della loro generazione, nella convinzione che “la realtà è un rendiconto di ciò che la realtà è, di ciò che è dell’uomo.”)
Il realismo! la parola inquietante-
 Il realismo ottocentesco, il verismo non sembra  più valido. Forse  si è lontani dall’ intuire che il vero è un mistero ontologico, ma  ci si sente insoddisfatti del linguaggio che letteratura e arte esprimono. E, parlando di Conversazione, Vittorini dichiara:
 «… avevo bisogno di essere, anche scrivendo, “quello ch’ero diventato”…»
Quindi, per cogliere la profonda realtà delle cose bisogna interrogarle con un linguaggio poetico che sappia coglierle nella sua essenza. (E questo, dopo vari tentativi, egli riuscì a compierlo in Conversazione in Sicilia, trasformando il linguaggio realistico in allegorico): «Ad evitare equivoci
o fraintendimenti avverto che, come il protagonista di questa Conversazione non è autobiografico, così la Sicilia che lo inquadra e accompagna è solo per avventura Sicilia…Del resto immagino che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia».
Sente ogni discorso naturalistico, verista o realista sorpassato, ormai inadeguati a esprimere una situazione umana che è irreversibilmente cambiata. Per lui è la trasfigurazione del reale nell’allegoria che rende ogni descrizione plausibile, utile a comprendere, criticare e trasformare il tempo presente.
Ed ecco il secondo importante punto pardiniano: “ Già nel Romanticismo si scriveva sulla netta divisione tra poesia d’impegno e poesia lirica; tra letteratura indirizzata alle vicissitudini socio-politiche e letteratura volta a confessare i disagi esistenziali: Manzoni e Leopardi, per intenderci. E tale concezione si è protratta fino ai nostri giorni…”
I nostri giorni…: non posso dimenticare l’iniziativa di Anceschi che nel 1952 definirà <linea lombarda> una generazione di poeti -… legati a una poetica dell’oggetto (di ispirazione montaliana)-, che rimette con i piedi a terra le ragioni espressive dell’ermetismo, ancorandole a una realtà più fiduciosa e condivisa, che riconosce il reale caricandolo di senso e pratica un decoro espressivo alto … Rivalutarono la concretezza e una tensione morale che trovavano le radici  nella grande tradizione lombarda, da Carlo Maria Maggi al Parini e all’Ottocento manzoniano… “Proponevano l’ansia di libertà antidogmatica e antiprovinciale, in nome di una cultura modernamente viva, di < cose e non parole > ancorata ai dati fenomenici dell’esistenza, attenta ai procedimenti tecnici della comunicazione, estranea alle macerazioni solipsistiche, consapevole della necessità di dover assegnare alla ragione compiti di progettualità critica e morale”.
Nascerà  così la nuova poesia lombarda, postermetica, in rapporto al modo di produzione culturale che ha mutato lo statuto sociologico del letterato - intellettuale inserito nei meccanismi dell’industria editoriale e nel contesto storico sociale .
Conclusasi la stagione del Neorealismo, nel 1959 Italo Calvino scriveva il saggio intitolato Il mare dell'oggettività, avvertendo che si stava operando un grave mutamento nella situazione culturale.
Da una cultura basata sulla tensione tra la coscienza individuale e il mondo oggettivo, si stava passando a una cultura in cui l'individualità veniva sommersa dal mare dell'oggettività:  ne sospettava, temeva  l'annullamento della coscienza, pensando che si trattasse di  autentica crisi dell'impegno letterario. Ma quel seguito di dati oggettivi che diventano  racconto poteva anche essere visto come una via per la riaffermazione della coscienza, per definire quale davvero sia  il suo ruolo nel mare delle cose.
C.E. Gadda e il suo Pasticciaccio, in cui autore e lettore sprofondano, nasceva con un senso di sgomento, con lo stimolo per andare oltre, per  riacquistare il distacco storico.  Una vena di espressionismo ruminante senza fine entrava nella vicenda letteraria, una pozzanghera che si allargava e diventava  il mare. Ci insegnava che ci sono due modi di intendere la realtà: uno che implica il senso della complessità, del labirinto, della stratificazione, e un altro che schematizza e semplifica il reale. Ma dall’uno e dall’altro può scaturire la reazione, la non accettazione, il contrasto senza illusioni.
E giungiamo in tal modo al  terzo passaggio argomentativo pardiniano:Guido Oldani, nella sua teoria poetica del Realismo terminale, scrive che è cambiata completamente la sintassi della nostra società; per cui … tutto si è involuto, tanto che è l’oggetto ad essere l’artefice primo del nostro vivere; ed è esso a pilotarci, e a impossessarsi di noi: è esso che ci invade, impedendoci l’attuazione di una ricerca: la conoscenza stessa dei nostri desideri”.
  Oldani  è un poeta che si prova a fare poesia in un paesaggio umano e naturale desolato: quello della metropoli del profondo Nord milanese, là dove la popolazione si addensa intra moenia, accatastata, in una calca infernale, tra corpi umani e prodotti, rimanendo comunque…poeta.
 E non è affermazione da poco: pur con la sua vena originale, si innesta nell’alveo della tradizione lombarda del Novecento che ha fatto da madre ai nostri più significativi scrittori e poeti.
La lirica di Oldani evolve così verso esiti di poesia con una forte dimensione laica e politica, pur senza partito, a  piccoli manifesti civili, etici e ironici, e perfino irosamente sarcastici.
Gli oggetti diventano i veri protagonisti, e sono potenti e senza anima.  Dietro l’apparente familiarità  la metafora che li descrive ed interpreta,  è  violenta, è una guerra- un incudine- su cui siamo battuti e modellati….. La storia tutto trasforma, piega, capovolge, infradicia, smunta….e dimentica.
Insomma il realismo terminale è un passaggio epocale col quale anche la poesia non può non fare i conti. E in questa lotta  bisognerà lavorare con le unghie, ma  anche con ironia, per cercare di smascherare la trappola  del rovesciamento globale di oggetto-soggetto, dove non si sa più quanto ci sia rimasto dell’uomo  e dell’umano, quanto ci sia rimasto di naturale di contro  all’artificiale.
Che dire del silenzio della cultura? E che dire della poesia, che pare non accorgersi dei cambiamenti epocali intercorsi?


                                                 Maria Grazia Ferraris


Carissima Maria Grazia,

una esegesi di grande portata letteraria che si può francamente riassumere in quella annosa quanto mai disputata questione fra arte e realtà oggettiva. E la ringrazio di cuore di avere toccato quei punti che hanno determinato il flusso filosofico-culturale-aristico dall’ottocento a oggi. Ma, volendo, da prima: Dolce Stil Novo, Umanesimo, Barocco, Manierismo, Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo, Verismo… E Saffo? Chi più ne ha più ne metta. Ogni corrente si è distinta dall’altra per una diversa interpretazione del rapporto fra l’io e il mondo circostante. Fino all’originalità Baudelairiana che vede nel poeta colui che può auscultare la realtà col sesto senso. Sì, uno in più. Perché riesce a percepire quella musicalità insita fra le pieghe del reale, che l’uomo comune non riesce a udire. Ed è proprio quella “sinfonia”, secondo lui, a creare quella simbiotica fusione fra le cose che all’occhio comune appaiono divise. Ma, per farla breve, secondo me, l’arte non è ragione, l’arte è fantasia, immaginazione, passione. La ragione, semmai, tende a frenare quegli slanci onirici tesi a superare il gretto verismo. L’arte ha bisogno di un serbatoio a cui attingere. E quel serbatoio è alimentato dalla memoria. E’ lei che plasma la realtà mutandola in immagine. Ogni piccolo fatto, ogni sguardo, percepiti e degni di storicizzarsi, una volta decantati nel nostro animo, si fanno alimenti indispensabili per la resa estetica. Conosco tanti poeti che hanno creduto di fare della poesia un annuncio politico, una rivoluzione sociale. La poesia è altro. 
         Si potrebbe partire addirittura dai presocratici, per non dire di Platone e di Aristotele. Sarebbe bello, interessante, ma credo non sia il caso. Io non vedo l’arte come semplice rappresentazione dell’oggetto che ci sta di fronte. E credo che il vero artista non si debba far coinvolgere da propagande politico-sociali. L’arte è qualcosa di più. E’ trasfigurazione, è slancio, è azzardo, è ricerca, è metafora, è allusione, è manipolazione, tutto ciò che va oltre la parola, oltre il nesso, va oltre la cruda realtà che ci condiziona. Montale è grande perché soffriva nel sapersi vincolato a un quando e a un dove strettamente limitati per il suo sentire. Non era certo la ragione a spingerlo a considerare gli ossi di seppia metafora della vita. Ma il suo palpito esistenziale. Quell’abbrivo che va contro ragione e che ci porta a vedere nelle cose tutto ciò che in esse è nascosto. Ed è giusto considerarlo come il più fedele continuatore della poetica leopardiana. E Calvino è un vero artista in Marcovaldo, perché è lì che esplode con eleganza e semplicità comunicativa la sua indagine. C’è già presente, se si vuole, il rifiuto di una civiltà invasiva, di un progresso che avrebbe sovvertito l’ordine naturale delle cose; e lo fa con ironia, con garbo, con il sorriso sulle labbra, anche, spedendo Marcovaldo a fare la villeggiatura nella piazza di città e facendogli scambiare il semaforo con la luna. Facendo una apologia della campagna, della  naturalezza, dell’uomo che è integrato con la terra. Sovvertendo i dati concreti. Una satira di contrasto, quasi pariniana, tipo L’incipriatura, o La vergine Cuccia. Secondo me si preannuncia già, con sottigliezza e verve calviniana, quel realismo terminale di cui si sarebbe abbuffato chi si sa. Vera indagine, la sua, dello sdoppiamento dell’animo umano; servirsi delle cose per adattarle alle sue emozioni. Tutto frutto di un’anima che ama la madre primigenia, in tutte le sue manifestazioni; di un’anima che trova la sua identità in certe avventure iperboliche tipiche dell’autore. Definirle irrazionali non è azzardato. Ed è giusto il riferimento al Parini. Lo definirei proprio l’iniziatore del filone lombardo che, secondo me, poi prende altra strada da quella pariniana. Voglio dire, a parte i tempi, che le tematiche si fanno sempre più realistiche, motivate più da una necessità di rappresentare oggetti e questioni, di propagandare idee, che da una vera ispirazione. Intendendo per tale la vera passione che dentro urge, irrazionalmente, e porta ad esprimere sentimenti che precedono lo stesso pensiero. La poetica del Parini, sì, è volta  ad un discorso sociale, è inconfutabile. Soprattutto in certe odi, come La caduta, e più ancora in Il giorno; ed è vero che si scaglia contro una società di cicisbei e fannulloni, di corrotti, e “gozzovigliatori”, ma lo fa con motivazioni che gli sgorgano impetuose dall’animo, con quella passione che sente l’urgenza della poesia. E lo fa con uno stile nuovo, portatore di una vera narrazione rivoluzionaria: la satira di contrasto; è sufficiente leggere Il risveglio del giovin signore per rendersi conto del capolavoro davanti a cui ci troviamo. L’ultima voce satirica della nostra letteratura era stata quella dell’Ariosto. Una satira cosiddetta bonaria, oraziana più che giovenaliana. Con il Parini la satira è conseguenziale, frutto di un confronto di due poli contrastanti. Mai diretta: la bellezza dell’alba descritta con una partecipazione bucolica, unica ed affascinante; il giovin signore che torna dalle solite sue feste preceduto da due ordini di portatori di torce; dall’altra  il plebeo che lascia le calde coltri, e si alza per andare al duro lavoro della terra; alla fatica dei campi; proprio alla stessa ora. Quindi, tirando le somme, questo indirizzo ha perso la sua originalità. Ha preso tutt’altra strada fino a convertirsi in un realismo squallido ed omologante, vòlto solo a raziocinare, senza alcuna invenzione personale. Lo direi quasi un filone di propagandisti il cui merito è quello di distruggere la vera anima della poesia: fantasia, immaginazione, sentimento, musicalità, creazione, voli di grande portata metaforico allusiva, dacché ogni argomento è valido per trarne ispirazione: politico, sociale, erotico, satirico… basta che non sia frutto di un un processo razionale; deve essere il sentimento lì in agguato a captare il suggeritore esistenziale, deve essere lui poi a consegnarlo all'anima; sarà lei a tradurlo in poesia.      
         E la parola? quell'ivolucro indispensabile a contenere il tutto?Non sarà mai sufficiente a definire compiutamente la massa delle emozioni che un artista ha dentro. E tanto meno il pittore giungerà definitivamente all’atto supremo della perfetta creazione visiva. Perché siamo mortali e in quanto tali deboli, fragili. E se da un lato la nostra fragilità è motivo di ispirazione, dall’altro è anche il circuito entro cui noi siamo condizionati. Quel breve spazio che ci limita e ci rende imperfetti. Quindi esprimere la trasfigurazione è la maniera migliore per avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile. Nel suo excursus, condotto con magistrale intuizione culturale, con acuta intelligenza critica, e profonda conoscenza letteraria, ha perfezionato le tematiche che io sono stato costretto a circoscrivere alla materia poetica da trattare. Ma mi fa gran piacere che dalla sua analisi emerga, alla fin fine, che ogni artista senta l’urgenza  di travalicare il fatto crudo, e di non restarne invischiato, in quanto l’artista stesso è un uomo e come tale ambisce a superare il contingente e scavalcare quella siepe che è strettamente vincolante e vincolata al fatto di essere umani.

                                                         Nazario Pardini    


9 commenti:

  1. Complimenti a questa simpatica e increspata (nel senso di visione non sempre liscia del concetto "fluido" di poesia, contenuta in questo dialogo nel blog di Nazario Pardini - Alla Volta di Lèucade.) L'argomento è interessante e, mi scuso se mi limito a considerarne solo una parte; infatti mi soffermo su una frase (o meglio un frammento scritto da Pardini) mi ha interessato, per quello che voglio dire, come fulcro dell'intera discussione riferita al testo di Nadia Chiaverini che s'intitola: Poesie sulla Società.
    Qui riporto, virgolettato, il frammento scritto da Nazario "la parola non sarà mai sufficiente a definire compiutamente la massa delle emozioni che un artista ha dentro. E tanto meno il pittore giungerà definitivamente all’atto supremo della perfetta creazione visiva. Perché siamo mortali e in quanto tali deboli, fragili. E se da un lato la nostra fragilità è motivo di ispirazione, dall’altro è anche il circuito entro cui noi siamo condizionati"
    Questo frammento-commento esplicitato tra le virgolette, a mio parere, rappresenta un confine che aspira, grazie alla parola, di andare oltre il fattuale. Premetto che un confine, ovviamente è sempre da verificare, perché non si sa dove si pone e dove va posto, nella poesia in speciale modo.
    Nasce il solito dubbio: poesia o non poesia? Poesia, in quale società, cosa la determina? Mi sembra quindi ancor più interessante approfondire l'argomento riprendendo un testo di Nazario Pardini, contenuto anche su aminamundi (ecco il link: (ecco il link: http://nuke.aminamundi.it/aminAMundifilosofialetteratura/PoesiaenonPoesiadiNazarioPardini/tabid/190/Default.aspx). Poesia nella società poesia o non poesia (o semplicemente altro dalla poesia) già nella domanda, sono implicitamente fissati dei confini dialettici che non possono essere aboliti. Anche oggi, malgrado prevalga il caos nelle idee, nelle pratiche poetiche o parapoetiche, i confini ci sono. Ovviamente per chi sa vederli. Meglio: per chi sa vederli e non l’ignora come dato scontato o per partito preso. Perciò posso capire che tanti studiosi prendano, come riferimento i testi di autori consacrati al grande pubblico e fortificati da un linguaggio più o meno aulico, distinto o separato da altri linguaggi (comuni, semplici, tecnici, ecc.ecc.). Altri sostengono invece che la poesia si limita semplicemente alla vita vissuta per esperienza che non ha bisogno di aulico bagliore intellettuale per arrivare al cuore della gente. Ma chi è questa "gente" in grado di leggerla senza l'uso di uno strumento adeguato e linguistico? Chi ha la capacità di esprimere una poesia che sa connettersi alla vita comune che spesso ha familiarità con il popolare "Pasticciaccio di Via Merulana" del grande Emilio Gadda, qui, citato egregiamente dalla Ferraris?
    Di fatto-la poesia nella società è un percorso da scoprire che crea domande e svela sempre un confine di intenzioni ambivalenti tra la forma ed il soggetto letterario. Un confine che si snoda lungo un percorso culturale personale. Un confine della cultura che, fa riferimento anche alla propria e personale oltre alla nazionale cultura, europea, occidentale. Per noi occidentali le culture si sono differenziate nel corso di una lunghissima e spesso feroce storia. Proprio stabilendo confini. Non a casaccio, ma in base alle spinte di forze sociali e culturali che hanno portato a restringerli o ad allargarli - complice la parola. La parola che, che, come dice il poeta Pardini, limita la nostra fragilità, al contempo aspira alla profondità di significati oltremondani che diventano luoghi intravisti dall'intuizione.
    Cordiali saluti. Miriam

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  2. Leggo con ammirazione i vostri ragionamenti, cercando la soluzione che risolverebbe tante riflessioni, riflessioni che menti più grandi della mia hanno posto ad altrettante menti più grandi.
    Tanto riflettere ci fa comunque bene.
    Al mio orecchio piace ascoltare nuda la parola Poesia, senza che venga apostrofata. Il suo intento interno effettuerà ciò che deve: farà la "rivoluzione" lì dove deve farla. Nell'amore? Nella società? Nell'intimo ? (del lettore?). Lo farà comunque al di là del suo argomento, del soggetto che va descrivendo. Se è Poesia ( e qui ci si "riduce" quindi alla domanda Poesia o non Poesia?) essa include tutti gli argomenti in sé ed esporterà da sé tutte le soluzioni e tutte le complicazioni possibili.
    Voglio dire: una poesia che definiamo lirica o d'amore potrà avere in sé il cambiamento politico-sociale, culturale, sia nel singolo che nella collettività.
    Immagino dunque questo compromesso tra la parola "Poesia" ed il suo aggettivo ( Poesia- sociale, Poesia-lirica etc etc), che questo ci aiuti ad avvicinarci ad essa, ad aprirla e porla in un contesto, ma che mai questo ci induca a limitarla, a darle un'unica strada ed un unico arrivo, un unico obbiettivo.
    La Poesia è nella terra e guarda dall'alto e dall'alto include ogni cosa.
    Ma questo è il mio modestissimo parere, di persona che ama leggere dalla poesia..
    Complimenti a voi che sapete tirar fuori input di riflessione, segnali che colgo e sui quali mi interrogo.

    Aurora De Luca

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  3. L'intervento del poeta Pasquale Balestriere viene pubblicato in due parti per esigenze tecniche
    PRIMA PARTE

    IN MARGINE AGLI INTERVENTI I DI M. G. FERRARIS E DI N. PARDINI

    Approdo alla discussione perché sollecitato da riflessioni e spunti di grande interesse contenuti nel pezzo di M.G. Ferraris e, naturalmente, nella risposta di Pardini.
    Vorrei prima comunicare, però, l’idea che ho del poeta: il quale, come ho già scritto su questo blog, è un uomo teso alla perenne scoperta di se stesso, degli altri e del mondo che lo circonda, capace di voli arditissimi e di cadute rovinose, in una realtà, anche naturale, che egli fatica a capire; ed è in cerca di risposte, anche se, nell’analisi interiore, si fa via via più spazio il timore dello scacco, la considerazione che la vita sia un grande inganno. In fondo, oggi il ruolo e lo scopo del poeta è ancora quello di capire la vita per porsi di fronte ad essa in posizione dialettica, per trovare soluzioni e, se possibile, salvezza (non solo per sé) o per accettare l’esistenza stessa come qualcosa di inevitabile e di negativo; e c’è pure chi si riserva un ruolo di notista e scriba delle umane vicende, registrate con maggiore o minore oggettività o partecipazione. A volte, tuttavia, mi assale l’idea che il poeta sia solo una cassa di risonanza, uno strumento attraverso il quale la poesia, che esiste in potenza, diventa atto. Questo ruolo prevalentemente medianico giustificherebbe l’esistenza e l’esigenza della critica letteraria, e innanzitutto dell’esegetica che talvolta rivela al poeta stesso aspetti incogniti della sua poesia.
    Scrivere versi è forse, inconsapevolmente, anche un lenimento dei mali, un atto curativo, un’esorcizzazione del negativo. Ma è sicuramente una forte esigenza interiore di spiriti sensibili, un imperativo incoercibile, l'esito di una compressione violenta di sentimenti, di emozioni, di visioni che reclama sfogo e uscita. Perciò la Poesia non è mai gratuita e mielosa, ma sempre vera, necessaria e talvolta dura, scavata, intensa, capace di “comunicarsi” agli altri, travalicando ogni forma di soggettività.
    E perciò quella del poeta non è una condizione di (e)statico abbandono ma di dinamica e drammatica ricerca, di vita esplorata, vissuta e sofferta.

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  4. SECONDA PARTE


    Quanto al “grande tema - quello dell’impegno politico-sociale del poeta, l’intellettuale engagé- “, si può senz’altro dire che contano innanzitutto -per la poesia impegnata come per quella lirica- la sincerità e la forza che motivano, o meglio obbligano, alla scrittura. Anzi, a ben pensarci, tra poesia lirica e poesia d’impegno, esiste, sì, una notevole differenza che però non si risolve in una forbice amplissima, in una divaricazione eccessiva: non sarebbe infatti concepibile un tipo di poesia assolutamente ed estremamente lirico che finirebbe per sfociare in egotismo solipsistico, sentimentalistico e magari pure narcisistico; né, sull'altro fronte, la poesia d'impegno può ridursi ad essere esclusivamente funzionale a una tesi da dimostrare, giacché avrebbe la bocca sgangherata della retorica o la torbidezza lutulenta dell'immediatezza della passione. A mio parere, prima ancora degli (e oltre gli) aggettivi "lirica" e "impegnata", esiste la POESIA. Che può manifestarsi in varie forme e modi; che può "contenere" tutto. A patto che il poeta abbia voce e respiro, capacità di "sentire" e di emozionarsi. Insomma, a patto che sia veramente e inconfutabilmente POETA. Si potrà parlare poi di poesia prevalentemente lirica o prevalentemente impegnata. Meglio se essa incarnerà istanze sociali e civili; ma senza forzature o enfasi, con la naturalezza che incarna le istanze più profonde. E, perciò, senza velleità di “cambiare il mondo”, ma con la consapevolezza di fare cosa bella e utile.
    Aggiungo che teorie e poetiche, tematiche e problematiche sono spesso creazioni successive all’atto creativo; e sono prodotto di studiosi, critici, esegeti. Il poeta fa il poeta. Non teorizza. Non intellettualizza.
    È tutto teso a governare il cavallo sfagliante della poesia. Figuriamoci se ha tempo per fare altro. Men che meno “poesia” studiata e circoncisa.
    Per il resto, con tutto il rispetto dovuto alla “linea lombarda” e ai suoi maggiori rappresentanti, non mi appaiono convincenti i suoi epigoni, ridottisi ad un oggettivismo pseudofilosofico, denotativo e minimale, proprio di chi, pur non avendo fiato e voce, intende cantare. Perché, come scrive Pardini ”l’arte non è ragione, l’arte è fantasia, immaginazione, passione”.
    Né mi appassiona il “realismo terminale” di Oldani, con gli oggetti veri protagonisti di ogni realtà, ” tanto che è l’oggetto ad essere l’artefice primo del nostro vivere; ed è esso a pilotarci, e a impossessarsi di noi: è esso che ci invade, impedendoci l’attuazione di una ricerca: la conoscenza stessa dei nostri desideri”.
    No, non sono d’accordo. Umanisticamente (e proprio per questo riconoscendo tutti i limiti della nostra condizione) ritengo che l’uomo rimarrà sempre uomo, oltre ogni “rovesciamento”; e l’oggetto rimarrà oggetto, e mai sarà davvero “artefice del nostro vivere” o “si impossesserà di noi”.
    A meno di una nostra completa disumanizzazione o di un annichilimento totale nelle cose. Ma, in tal caso, qualcuno o qualcosa dovrebbe provvedere a strapparci l’anima e lo spirito. Completamente.
    Pasquale Balestriere



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    1. Io aggiungerei che a mio giudizio non si può fare una divisione tra poesia sociale e poesia "altra" quella che chiamiamo poesia è un nucleo unitario di riserve individualistiche, sociali, culturali, sensoriali, filosofico-conoscitive che impegnano l'individuo in quanto tale. Non è possibile disgiungere o separare nettamente le due categorie poetiche, come non sarà possibile separare l'individuo stesso dai suoi molteplici aspetti. Vi è nell'uomo questo senso di occultamento che vuole impossessarsi di una categoria piuttosto che di un'altra. La conoscenza è unica, e se parliamo di poesia essa è "unicissima" L'umanesimo della sua realtà storico/conoscitivo ci fa individuare semmai 2 filoni in poesia: quella a sfondo fantastico-passionale e quella umanistico/sociale ma la condizione su cui si muove, il percorso fuggevole, eppure balenante, sarà sempre l'immaginazione che realizza il superamento di noi stessi e si fa "carne": In poesia è sempre la stessa teorizzazione, idealmente parlando, ha il medesimo nucleo, la stessa matrice ideologico-culturale e istintuale, comunque si esprima e qualunque sia il tema trattato. Sì, perché la poesia è anche istinto, oltre che tutte quelle altre belle cose di cui si legge, dobbiamo riconoscerle anche la ragione del sentimento (nel caso di emozionale/passionale) o di impegno e moralità sociale che contraddistingue quella parte di scrittura non elegiaca (chiamiamola così, per maggiore comodità).
      Per quanto mi riguarda, il concetto di poesia è sempre il suo nucleo, le varianti sono le parole...se per parole s'intende il linguaggio poetico siamo al punto di snodo che volevo indicare, ovvero: si può avere poesia in ogni caso, in ogni modo, in ogni tempo, sempre. Quel che cambia è l'anima, sono gli stati emotivi, gli argomenti e le tematiche trattati, sono in parole assai povere, la polpa dell'intelligenza di ognuno, se provate a modificare l'assetto gnoseologico del messaggio che la poesia vuol lanciare, ci si accorge che, se è poesia vera, sarà comunque alta, sia essa amorevole, sociale, civile, filosofica o religiosa,

      Ninnj Di Stefano Busà

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  5. Platone, nella "Repubblica", bandisce i poeti e gli artisti dal suo Stato ideale in quanto fautori, a suo avviso, di una visione mimetica, duplicatrice e ridicola del mondo reale. Poi però, nello "Ione", un breve dialogo sull'arte dei rapsodi, rivaluta pienamente l'arte e la poesia laddove sia lavoro creativo e non imitativo, divinamente ispirato dalle Muse. Condivido pienamente questa impostazione filosofica, rigettando tuttavia l'estetica idealistica che vorrebbe limitare le valenze dell'arte e della poesia esclusivamente all'ambito del Sublime. No, la poesia è dovunque: nei cieli come sulla terra; tra le solitudini montane come nelle chiassose e sferraglianti metropoli, purché ci sia il poeta in grado di cogliere i lati sottili della vita. Dante ha trovato la Poesia finanche all'Inferno, non soltanto in Paradiso. L'ha trovata nei celesti silenzi dell'anima, come nella bruta e cruenta realtà politico-sociale. Un vero poeta può trovare ispirazione in mezzo al traffico assordante delle moderne metropoli come nei silenzi non meno assordanti delle campagne assolate. Può trovare fertili spunti nei concerti delle cicale e delle rondini, come nell'arido gesto del cassiere di banca che maneggia il vile denaro. Non ci sono limiti per le possibilità espressive dell'arte, purché sia vera arte e non duplicazione del reale. Poesia intimistica e poesia sociale si equivalgono. Possono essere valide entrambe, ma sono odiose entrambe se non riescono a sfondare la barriera del soggettivismo (dell'Io o del Noi non fa differenza alcuna), lasciando parlare la coscienza universale. E' questo che qualifica la vera poesia, a prescindere dai vestiti e dalle forme, dagli stili diversissimi con cui si esprime. C'è un quid misterioso che avvicina gli spiriti creativi, pur così distanti tra di loro. In base a quale criterio noi possiamo dare del poeta indistintamente a un Pascoli e a un D'Annunzio, a un Ungaretti e a un Pasolini? Qual'è il denominatore che li accomuna, se non la loro capacità di parlare un linguaggio universale, pur nella particolarità della loro scrittura? E cos'altro è l'universale se non la rivelazione di un senso della vita? E' questo che da sempre si chiede all'ingegno creativo: di aprire nuove strade per avvicinarci a comprendere il senso della vita. E ciò può nascere dovunque, in qualsiasi situazione storico-esistenziale. Finanche nel materialismo dei nostri giorni, che chiede all'individuo, per sopravvivere, di dare fondo a tutto il suo valore spirituale. Ha ragione, a mio parere, la Ferraris, laddove afferma che l'odierna aggressione sull'individuo da parte del mondo oggettivo può "anche esser vista come una via per la riaffermazione della coscienza e definire quale sia il suo ruolo nel mare delle cose".
    Franco Campegiani

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  6. Ringrazio degli interventi, così autorevoli, che hanno fatto seguito al dialogo intrecciato sul bolg Alla volta di Leucade; in primis il prof. Pardini che ha dato l’avvio ed ha lasciato largo spazio agli interventi, quindi: Miriam Binda Luigia, Aurora De Luca, Pasquale Balestriere, Ninnj Di Stefano Busà, e Franco Campegiani . Gli interventi si sono trasformati in una vera e ricca antologia di poetica, che muovendo dal mio interrogativo iniziale sul senso dell’impegno politico-sociale del poeta, dell’intellettuale in poesia, cercando di risalire al senso e significato del “realismo” in arte, si muoveva sul tema universale >che cos’è la poesia>.
    Molteplici ed interessanti le risposte. A me rimangono nondimeno tanti interrogativi da riempire con stagioni di studio e di ricerca…
    -Quello che Pardini ci ricorda: il flusso filosofico-culturale-aristico da: Dolce Stil Nuovo, Umanesimo, Barocco, Manierismo, Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo, Verismo… dall’ottocento a oggi. – e che risale problematicamente a Platone, come dice Campegiani (“E cos'altro è l'universale, se non la rivelazione di un senso della vita in qualsiasi situazione storico-esistenziale?”.)
    -quella indiscussa riproposta certezza che: “l’arte non è ragione, l’arte è fantasia, immaginazione, passione”…che attinge al serbatoio della memoria… oltre la cruda realtà che ci condiziona”, ribadita dagli altri interventi,… - il solito dubbio, che si tratti di “ poesia o non poesia …”, ossia il
    “nucleo unitario di riserve individualistiche, sociali, culturali, sensoriali, filosofico-conoscitive che impegnano l'individuo in quanto tale.”
    -il ruolo del poeta- “oggi il ruolo e lo scopo del poeta è ancora quello di capire la vita per porsi di fronte ad essa in posizione dialettica, per trovare soluzioni e, se possibile, salvezza (non solo per sé) o per accettare l’esistenza stessa come qualcosa di inevitabile e di negativo”;
    - la POESIA tout court. “Che può manifestarsi in varie forme e modi; che può "contenere" tutto. A patto che il poeta abbia voce e respiro….”
    - i richiami a Calvino, tutto da ristudiare, che segue l’itinerario che va dall’impegno socio-politico delle prime opere, sovverte poi i dati concreti, per approdare alla fantasia creatrice di Marcovaldo e proseguire, insaziabile ed irrequieto, fino alla prosa d’arte sperimentale e filosofica di Palomar…

    Per me saranno suggerimenti di studio e riflessione…di cui ringrazio.
    Ma mi piace chiudere questo convivio con i dubbi- che io condivido- che il premio Nobel della letteratura W. Szymbroska osò esprimere nella sua lezione magistrale all’accettazione del premio, ringraziando i suoi grandi estimatori: “…apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra.
    Ma non ci sono professori di poesia. Se così fosse, vorrebbe dire che si tratta d'una occupazione che richiede studi specialistici, esami sostenuti con regolarità, elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e infine diplomi ricevuti con solennità…Anche il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”.
    Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d'una risposta provvisoria e del tutto insufficiente. Perciò prova ancora una volta e un'altra ancora, finché gli storici della letteratura non legheranno insieme prove della sua insoddisfazione di sé, chiamandole “patrimonio artistico”...

    Ironia che nasce da intelligenza, sapienza, emozione ed esperienza.
    M. Grazia Ferraris



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  7. Non è sicuramente vero che tutto è buono per far poesia. E nella stessa Divina Commedia bisogna saper distinguere i momenti di alta espressione artistica da altri di pura retorica. E soprattutto quando Dante si cimenta in argomenti di carattere astronomico, legislativo, o scientifico in genere. Si potrà parlare di concetti tradotti in metrica, ma non sicuramente di grandi slanci artistici. Come giustamente afferma Luigi Malagoli parlando in "La non poesia nella Divina Commedia": ci sono argomenti che la ragione assimila e ne fa teoria, ma che l'anima non riesce a fare suoi per tradurli in arte. Né tanto meno si può parlare di Poesia quando la si vuole rendere ancella di propaganda politica, o la si vuole declinare in manifesto tipo futurismo stile Marinetti o corrente '63 tipo Sanguineti. Lo stesso che si sarebbe poi pentito di avere prodotto scritti di uno sperimentalismo fazioso e partigiano. E' possibile che la poesia possa ridursi solo a forma? E' quello che voleva. La Poesia ha bisogno di libertà, di armonia, di passione, di inventiva non di farsi strumento. Deve essere lei a scegliersi la materia. E una formula di matematica non sarà mai soggetto per un'anima disposta al canto. La ragione fa scienza, filosofia; l'anima e il sentimento fanno arte. Insomma posso creare un poema con tutto ciò che la mia anima riceve, digerisce, trasforma e traduce. E questo può accadere anche con un ingorgo su una autostrada; basta che quell'ingorgo sia vissuto come esperienza esistenziale, di un momento, di un tempo particolari, adatti a scatenare emozioni. Ma se mi ripropongo di limitare lo sguardo solo a quell'oggetto, no!, non ci siamo! Per essere più precisi, quindi, diciamo che ogni argomento può essere valido, basta che abbia il consenso dell'anima. Ma una cosa è sicura, lasciamo da parte la ragione, e facciamoci trasportare dalla musica. E per dire del realismo terminale di Oldani o del movimento Lombardo attuale, su cui sono già intervenuto sopra, credo che in questi casi si cada in oggettivismo assillante e trito, carente di quelle spinte emotive indispensabili ad una vera resa artistica. E a proposito mi trovo d'accordo con e solo con Balestriere: "Per il resto, con tutto il rispetto dovuto alla “linea lombarda” e ai suoi maggiori rappresentanti, non mi appaiono convincenti i suoi epigoni, ridottisi ad un oggettivismo pseudofilosofico, denotativo e minimale, proprio di chi, pur non avendo fiato e voce, intende cantare. Perché, come scrive Pardini ”l’arte non è ragione, l’arte è fantasia, immaginazione, passione”.
    Né mi appassiona il “realismo terminale” di Oldani, con gli oggetti veri protagonisti di ogni realtà, ” tanto che è l’oggetto ad essere l’artefice primo del nostro vivere; ed è esso a pilotarci, e a impossessarsi di noi: è esso che ci invade, impedendoci l’attuazione di una ricerca: la conoscenza stessa dei nostri desideri”.
    Nazario Pardini

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  8. Carissimo Nazario,

    Se – detto rozzamente - il nocciolo della questione ruota attorno a quella che dovrebbe essere la funzione della poesia, mi pare di aver capito che alcuni ne sostengano la legittimità nel ruolo di denuncia civile, morale, ecc.. Altri, invece, la difendano come forma d’arte che - per sua stessa natura – debba essere preservata da certe contaminazioni con la realtà e la Ragione, per poter salvaguardare a sua volta l'intima bellezza del mondo, dell’anima.

    In merito, caro Nazario, non saprei esprimermi con autorevolezza. In linea di massima, penso che l’arte, in qualunque forma venga espressa, possa avere un ruolo sociale e politico, ma in senso lato e indiretto: diffondendo il “bello”, essa produce ricchezza spirituale e intellettuale, in grado di sensibilizzare le mentalità e le coscienze.
    Ciò non toglie, tuttavia, che il genio artistico riesca a misurarsi con incisività e successo anche con gli aspetti più profani dell’esistenza, parlando al lettore o a chi guarda, (a seconda che si tratti di liriche o di quadri) non per simboli e allusioni ma "a chiare lettere", con intenti manifesti. In proposito, mi viene in mente una poesia di Kavafis, Forse arrivano i barbari. In pittura, penso a David con La morte di Marat, per esempio. Casi come questo mi spingono a fare un’eccezione nella mia partigianeria per l'arte fine a se stessa.

    Adriana Assini

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