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Lida De Polzer: A volte una farfalla. Edizioni ETS. Pisa. 2013
A
volte il palpito di una farfalla si può trasformare nel volo di un’aquila
Silloge
compatta, affidata ad una ars poetandi
di grande spessore verbale, di convincente sonorità etimo-fonica, in prevalenza
endecasillaba, ad abbracciare, con proficuo ardore allusivo di metafore, guizzi
interiori votati all’azzurro. Ci sono in questi versi tutte le inquietudini
dell’esistere, tutte le tensioni dell’umano, di quell’umano destinato a vivere
in un circuito di sottrazioni temporali e spaziali. E vi traspare, soprattutto,
un sentire di smisurata profondità etico-emotiva alla ricerca di un’equivalenza
verticale che combaci con le espansioni immaginifiche dell’autrice;
un’equivalenza che soddisfi le mancanze del vivere:
(…)
Troppo brevi le mani
per afferrare l’attimo futuro
non altro che pazienza abbiamo
per raggiungere l’ora
(…) (Epifania).
E a volte il palpito di una farfalla,
se vissuto intensamente da un animo votato all’oltre, si può trasformare nel
volo di un’aquila che brama spazi fecondi di smisurati cieli. E nella Polzer è
la spiritualità che domina. È questo impulso vitale che si fa focus di tutta la vicenda. Perché la
Nostra brama ardentemente sottrarsi alle morse del luogo e dell’ora, del dove e
del quando per avventurare il suo slancio onirico verso le sommità
dell’imperscrutabile. E lo fa con uno stile arrivante e suasivo, con una forza
autoptica, decisa e satura d’infinita dolcezza, col ricorso ad accentuazioni
aggettivali, ad intensificazioni verbali, ad assemblaggi lessicali; ad una cura
del verbo e dei suoi incastri, insomma, di grande fattura creativa. È lì la sua
grandezza; sta nel ricercare una parola che sappia abbracciare con la sua
intensità lessico-fonica gli slanci di un’anima che azzarda voli ultra/umani. Sta
nel riuscire a cesellare intarsi in un insieme prosodico capace di corrispondere
a tutte le facoltà spirituali. E lo fa con una armonia versificatoria talmente
incalzante da riportare il pensiero e lo spirito alle loro origini. A quelle
origini primordiali in cui il suono e il ritmo erano alla base di ogni attività
estetica, di ogni movimento umano. Edgar Allan Poe (1809-1840), pubblicate le
sue Poesie nel 1831, nel saggio
postumo Il principio poetico, definisce
la poesia “creazione ritmica della bellezza”, convinto che “il sentimento
poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica, giacché nella musica,
forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine per il quale, se
ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiunge la creazione della
Bellezza Suprema…”. E come non dirlo di fronte a versi in cui brilla l’eternità
come un oceano di luce viva:
Era l’eternità come un oceano
di luce viva. Attorno a lei, lontano
il magma del non essere taceva.
Poi fu una goccia, e per pietà del nulla
bagnò il silenzio
e
furono universi
di spazio e d’energia.
e cieli e mondi e tempo e vento e uomo.
Ancora a volte
quando la dismisura
del vero sconosciuto ci sommerge
trema nel nostro essere sgomento
il buio del non essere che fummo (Una
goccia),
versi
in cui la Nostra tenta di agguantare la coda di un vero che sfugge e che la
porta a vivere momenti di ebrietudine, di contemplazione, e di dimenticanza,
anche, del nostro bagaglio esistenziale. Bagaglio che, svelto, si rifà presente,
però, dal momento in cui la Polzer si rende cosciente del fatto di essere terreni;
del fatto di avere perduto l’infinita innocenza dei primordi, del Tutto, delle
origini. D’altronde è questo uno dei primi tormenti della nostra vicissitudine:
vivere coi piedi a terra e con lo sguardo ad orizzonti infinitamente distanti
dal nostro limitato circuito d’appartenenza (Cardarelli afferma, misurandosi
con le sue inquietudini oggettivanti, che siamo sulla terra come “viandanti
sperduti”). Uno slancio continuo, dunque, che nutrito di sensazioni umane, si
apre verso cieli che sanno tanto d’eterno. Di un eterno che possa sottrarre la
bellezza agli annichilenti artigli del tempo. E la Polzer è in continua ricerca
di tale bellezza. Fa svolazzare l’anima fra le
ombre, o fra la luce, o sotto le ruote buie del rumore, o fra una fontana d’ali liberate, per poter bere questa
vita da un bicchiere d’universo:
(…)
e amare così forte da svegliare la
speranza
e così sottovoce da non ferire nessuno
e bere questa vita da un bicchiere
d’universo
ogni mattino che s’accende nuovo
a coprire la fuga delle stelle (Stelle
in fuga),
per potersi impolpare, con ardite figure
iperboliche, dei colori e dei suoni della fisicità terrestre da portare con sé in un viaggio
senza confini:
(…)
Così quando la voce di una gioia
s’insinua nella mia veste d’autunno
sgorga dagli spazi invisibili
del mio vivere muto
una fontana d’ali liberate
a visitare il cielo. Poi la sera
richiama i voli
e li nasconde in petto ( Come
gli storni in volo).
Ed una sinuosa melanconia intreccia
con sottile gentilezza questi versi; una sinuosa melanconia che si nutre di un
memoriale mai decadente, mai sdolcinato, ma tanto naturalmente terreno da
trasformarsi agilmente in un lirismo di polisemica significanza, di orfica
tensione:
(…)
e poi tacere in pace lungamente
per ascoltarsi vivere
sabato sera, ridono nel buio
voci lontane di ragazzi, corrono
luci lungo le strade della notte
e ancora i nostri giovani fantasmi
si parlano per mano (Parlando).
Tensione
di una potenza tale da farsi voce trasversale, messaggio vibrante sintonizzato
ad ogni sentire; messaggio plurale, totale nella sua incisione mnemonico-temporale.
E se la poetessa esplora, con tutti i
suoi sensi, sentieri senza risposta dove cercarsi, cosciente di non poter avere
le soluzioni a quelle verità di cui è in continua ricerca:
Dove cercarti
se i nostri sensi esplorano sentieri
senza risposta
e
all’orizzonte della mente un vago
chiarore di nebbia dissimula
l’ombra di un forse
forse nel buio
nella rinuncia alla parola
nell’oblio di noi stessi
abbandonati all’infinito nulla
attendere
come il fiato del mare che si leva
incontro all’aria ( Dove
cercarti),
pur
tuttavia, crede che l’osmosi dell’eterno ci assorbirà in silenzio, e che avremo
luce sui misteri dell’esistere del dolore a illuminare, forse, quell’infinito nulla
a cui siamo destinati nel nostro inquieto vagolare:
(…)
ma un domani – non un attimo prima
dell’ora mia – l’osmosi dell’eterno
ci assorbirà in silenzio, e avremo luce
io credo, sui misteri dell’esistere
del dolore, del sogno, di ogni cosa
che ha parlato d’amore e d’infinito.
E sarà il giorno ultimo e perfetto
il tramonto del tempo e la mia aurora
d’atomo d’universo
sangue nelle arterie vive del Tutto (Tutto).
Attendere.
Sì restare in attesa. Forse qualche verità, qualche sprazzo di vero si impossesserà
del nostro essere umani, si leverà verso di noi. Un fiato di mare incontro all’aria.
Ed è il mare col suo respiro perpetuo e vicino al senso dell’immenso che più si
accosta agli impulsi intimo-meditativi della Polzer. Proprio quel mare i cui orizzonti
si perdono tanto in là da essere inaccessibili per le nostre umane miopie. Un
profondo senso di mistero. Mistero tanto grande da avvolgere di sé ogni parte
del ductus poetico, ogni ambito
naturale, ogni squarcio di cielo, ogni slancio emotivo: la vita, il sogno, la
morte, il dolore, le memorie, l’infinito, l’eterno, il Tutto. Ed è questo
azzardo verso l’impercettibile e l’imperscrutabile ad insinuarsi nei versi,
contribuendo non poco alla linearità e alla compattezza dell’opera. È come un
filo che infilza ognuna di queste perle poetiche per assemblarle in una collana
preziosa per vis creativa, intenti
immaginifici, e moduli di plurivocità allusive. Moduli che cercano di fare del
mistero una via attraverso cui indagare sui dubbi e i perché del nostro
esser(ci):
(…) e avremo luce
io credo, sui misteri dell’esistere
del dolore, del sogno, di ogni cosa
che ha parlato d’amore e d’infinito
(Tutto).
(…) quando la dismisura
del vero sconosciuto ci sommerge
trema nel nostro essere sgomento
il buio del non essere che fummo (Una
goccia).
Ricercare, osservare, puntualizzare
e vivere. Un climax di grande impatto
rielaborativo-esistenziale. È da lì che la Nostra trae tutti gli elementi utili
alla sua narrazione; e la sua narrazione si fa corposa, vivace, visiva per dare
sostanza a quelle emozioni che nascono dal frequentare tali equivalenze: la
luna, i pipistrelli, le falene, un sax, le ginestre, le acacie, i giovani
fantasmi, il lupo, il fiato del mare, gli aghi perduti, i voli… non sono certo
immagini pescate a caso, immagini a infiocchettare quadri di arcadico ozio
letterario; ma corpi, direi, che sostanziano impulsi emotivi di grande valenza
simbolica. Importante ruolo quello della natura nella silloge della Polzer. A
partire dal titolo: A volte una farfalla.
Può volare bassa quella farfalla, può schizzare ora di qua ora di là sui petali
profumati di nuovo, di primavera o di stagione opulenta, ma è tanto bella nella
varietà dei suoi colori che può aspirare all’eccelso, e può gareggiare col Tutto.
Direbbe il poeta: “Le papillon dans son mince vol,/ emploie sa beauté/ pour s’élever
en haut/ pour élever ses ailes/ à l’amplitude du ciel”.
E alla fine sembra vincere sulle
ombre della caducità il giorno perfetto. Sembra vincere sul tempo,
sull’inaffidabilità del presente e del passato. Sulle incertezze del futuro. Perché
una nuova aurora farà di un atomo dell’universo una vita del Tutto.
Intensa, viva, partecipe, la storia
di quest’anima che attraverso le peripezie della via crucis del vivere sa elevarsi al potere della luce. C’è tanta
spiritualità, c’è tanto amore per la sacralità della vita. Sì!, è la vita la
principale interprete di questo “poema”. E la Polzer ne affida la sacralità
alla forza della poesia. Perché è nella Poesia e nel suo messaggio foscoliano che
crede; in un messaggio che possa perpetrare nel tempo questo grido esistenziale;
che possa renderlo duraturo per una novella antica, nuovamente viva sopra di
noi:
(...)
E fummo canne d’organo
e gemme di rugiada fra le ciglia
perché apparve ad un tratto così semplice
essere forti e veri
e la novella antica, nuovamente
viva stava sopra di noi
come un fuoco di nubi nel tramonto
su una montagna bianca (Quasi
dalla fine d’un mondo).
12/08/2013 Nazario Pardini
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