Campo Lungo,
di Ivan Fedeli,
Ed Puntoacapo, 2013
di Ninnj Di Stefano Busà
Questa nuova raccolta di
Ivan Fedeli si mostra come un’ennesima dichiarazione di poetica, ma forte e
chiara, come è nel genere di questo poeta vigoroso e schivo, saldo nei suoi
principi e nei suoi progetti letterari.
Il verso dello scrittore
in esame è di quelli “presenti”, catapultato nella mischia del mondo, egli osserva,
riferisce, si guarda in giro con un senso di sgomento e di rabbia, ma non
lascia trapelare il suo disappunto la sua disapprovazione nei confronti del
degrado, dell’alienazione, del divario tra gli uomini. Dal suo angolo di
osservazione privato egli trova i minimali di una popolazione “assente” (quella
dei nomadi, dei diseredati, dei transfughi dalle dittature) proiettata in un
frastuono, in uno sconquasso insostenibili: uomini vagolanti, senza direzione,
senza certezze, eppure con la fede che contraddistingue le loro povere anime
frustrate, deluse, derise, una moltitudine che a dire della nuova società del
Duemila non vale niente, quella che non conta, che corrisponde a numeri
vaganti, a foglie in balia del vento, disperse e avvilite, senza storia.
Sono discrepanze
genetiche, paradossi che ogni poverocristo
si trova a reggere senza interruzione di continuità, come a dire:
“così è, -punto-”.
Una legge della
disuguaglianza che colpisce intere etnie, una ferita del progresso, una faglia
di devastazione che rende la frattura di un popolo, di tutti i popoli delle
diaspore eterni bersagli della miseria cronica, della disertificazione urbana,
economica, generazionale.
Ivan Fedeli tratta il
filone di questa poetica in maniera sorprendente, li mostra tal quali sono <
i martiri della nuova epoca>, non parla di sconfitte, ma di umanità che si
trascina stanca per le vie del mondo, quasi calpestata e sempre ignorata, in
subordine ad un sistema capitalistico che per loro rimane ai margini, nel
rischio di una deriva unversale. Una debacle
per la storia e l’esistenza di ognuno che deve registrare la vicenda
personale della sopravvivenza come un fatto storico di ordinaria
amministrazione.
La loro esclusione resta
la grande ferita del secolo: la sorte che si abbatte così ferocemente sulle
loro fragilità è quella dei diseredati, dei profughi, degli emarginati.
La loro marginalità però diventa
la tragedia dell’umanità intera.
Fedeli tratta con levità
il tema dell’emigrazione: l’ostilità, la mancanza di mezzi di sopravvivenza appaiono
sfumati, li descrive nelle loro forme di variegata sofferenza, nel dolore dei
luoghi di miseria e di alienazione con delicato pudore, senza pronunciamenti
altri, senza essere cattedratico, senza moralismi, eppure conosce bene – la
grande colpa delle fragilità storiche, le loro inadempienze, il mercato delle
ideologie che contrasta con il tema umano della Chiesa evangelica -. Scrive da
poeta, si rifà alla necessità che rende marginale ogni rapporto; mette in vista
la loro dignità, il decoro, l’adempimento di un’ospitalità necessaria ai
fratelli d’oltreoceano.
Mostra forte e chiara la
voce segreta che li descrive e nel contempo li estrae dalla miseria morale,
dagli antefatti paradossali del potere e del sistema delle uguaglianze e dei
diritti. Ivan Fedeli mitiga i toni, si fa portavoce dei diseredati per la parte
romantica e poetica di un mix di fragilità epica senza memoria storica: sono i
nuovi martiri del Duemila, quelli che lui tratta con ritegno e pudore.
Come è già avvenuto ai
tempi della venuta di Cristo con i martiri erranti del Cristianesimo: la nemesi
è lì, pronta a testimoniare che l’uomo non cambia, l’uomo è, e resta il peggior
risultato di se stesso.
Eppure, il poeta afferma: “credono al mondo ancora/.../ sono gli eroi
dal profilo basso”, parole buone per dire il mondo è popolato di fragilità,
di debolezza...basta un niente a rompersi a disintegrarsi...l’intero pianeta.
Infrangibili, immutabili
restano solo: l’aridità, l’indifferenza, il senso di irresponsabile protervia
che spara nel mucchio per autolesionismo, poiché privo di coscienza e di morale
cristiane.
Ninnj Di Stefano Busà
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