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lunedì 24 febbraio 2014

NINNJ DI STEFANO BUSA': LETTURA DI "CAMPO LUNGO", DI I. FEDELI

Campo Lungo, di Ivan Fedeli, 
Ed Puntoacapo, 2013

di Ninnj Di Stefano Busà


Questa nuova raccolta di Ivan Fedeli si mostra come un’ennesima dichiarazione di poetica, ma forte e chiara, come è nel genere di questo poeta vigoroso e schivo, saldo nei suoi principi e nei suoi progetti letterari.
Il verso dello scrittore in esame è di quelli “presenti”, catapultato nella mischia del mondo, egli osserva, riferisce, si guarda in giro con un senso di sgomento e di rabbia, ma non lascia trapelare il suo disappunto la sua disapprovazione nei confronti del degrado, dell’alienazione, del divario tra gli uomini. Dal suo angolo di osservazione privato egli trova i minimali di una popolazione “assente” (quella dei nomadi, dei diseredati, dei transfughi dalle dittature) proiettata in un frastuono, in uno sconquasso insostenibili: uomini vagolanti, senza direzione, senza certezze, eppure con la fede che contraddistingue le loro povere anime frustrate, deluse, derise, una moltitudine che a dire della nuova società del Duemila non vale niente, quella che non conta, che corrisponde a numeri vaganti, a foglie in balia del vento, disperse e avvilite, senza storia.
Sono discrepanze genetiche, paradossi che ogni poverocristo si trova a reggere senza interruzione di continuità, come a dire:
“così è,  -punto-”.
Una legge della disuguaglianza che colpisce intere etnie, una ferita del progresso, una faglia di devastazione che rende la frattura di un popolo, di tutti i popoli delle diaspore eterni bersagli della miseria cronica, della disertificazione urbana, economica, generazionale.
Ivan Fedeli tratta il filone di questa poetica in maniera sorprendente, li mostra tal quali sono < i martiri della nuova epoca>, non parla di sconfitte, ma di umanità che si trascina stanca per le vie del mondo, quasi calpestata e sempre ignorata, in subordine ad un sistema capitalistico che per loro rimane ai margini, nel rischio di una deriva unversale. Una debacle per la storia e l’esistenza di ognuno che deve registrare la vicenda personale della sopravvivenza come un fatto storico di ordinaria amministrazione.
La loro esclusione resta la grande ferita del secolo: la sorte che si abbatte così ferocemente sulle loro fragilità è quella dei diseredati, dei profughi, degli emarginati.
La loro marginalità però diventa la tragedia dell’umanità intera.
Fedeli tratta con levità il tema dell’emigrazione: l’ostilità, la mancanza di mezzi di sopravvivenza appaiono sfumati, li descrive nelle loro forme di variegata sofferenza, nel dolore dei luoghi di miseria e di alienazione con delicato pudore, senza pronunciamenti altri, senza essere cattedratico, senza moralismi, eppure conosce bene – la grande colpa delle fragilità storiche, le loro inadempienze, il mercato delle ideologie che contrasta con il tema umano della Chiesa evangelica -. Scrive da poeta, si rifà alla necessità che rende marginale ogni rapporto; mette in vista la loro dignità, il decoro, l’adempimento di un’ospitalità necessaria ai fratelli d’oltreoceano.
Mostra forte e chiara la voce segreta che li descrive e nel contempo li estrae dalla miseria morale, dagli antefatti paradossali del potere e del sistema delle uguaglianze e dei diritti. Ivan Fedeli mitiga i toni, si fa portavoce dei diseredati per la parte romantica e poetica di un mix di fragilità epica senza memoria storica: sono i nuovi martiri del Duemila, quelli che lui tratta con ritegno e pudore.
Come è già avvenuto ai tempi della venuta di Cristo con i martiri erranti del Cristianesimo: la nemesi è lì, pronta a testimoniare che l’uomo non cambia, l’uomo è, e resta il peggior risultato di se stesso.
Eppure, il poeta afferma: “credono al mondo ancora/.../ sono gli eroi dal profilo basso”, parole buone per dire il mondo è popolato di fragilità, di debolezza...basta un niente a rompersi a disintegrarsi...l’intero pianeta.
Infrangibili, immutabili restano solo: l’aridità, l’indifferenza, il senso di irresponsabile protervia che spara nel mucchio per autolesionismo, poiché privo di coscienza e di morale cristiane.

                                                         Ninnj Di Stefano Busà

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