Alla luce dell'intervento di Pasquale Balestriere,
nonché del commento di Ninnj Di Stefano Busà, entrambi incentrati sul concetto
di "libertà interiore", sento il bisogno di intervenire nuovamente
nel dibattito suscitato da Linguaglossa sul tema della "forma ibrida"
in poesia, nella speranza di poter meglio chiarire i concetti da me già
espressi nel commento precedentemente postato.
Doveroso è un chiarimento in via preliminare, senza
il quale non si capirebbe il senso e la direzione del mio argomentare.
Personalmente non condivido l'idea che la cultura rappresenti il piano delle
libertà e che la natura sia invece il piano delle schiavitù istintuali. Niente
di più falso, a parer mio. Necessità e libertà coincidono perfettamente in
natura, dove ogni essere è quello che è, libero e felice di esserlo, senza
possibilità di deviazione alcuna. Nel piano culturale, invece, libertà e
necessità si divaricano tra di loro, perché l'uomo inizia a pensare che libertà
significhi affrancarsi dall'ordine di natura. Ed è qui che ha inizio la storia
delle sataniche separazioni (etimologicamente Satana significa "il
Separatore"). E' qui che avviene la cacciata dall'Eden, con l'avvento di
quel raziocinio che distingue e divide, dando corpo al corso degli schematismi,
dei pregiudizi e di tutte le aberrazioni umane. Con ciò non intendo incitare ad
astenersi dal "peccato" della cultura e della storia, spegnendo
asceticamente il nefasto lume della ragione che è in noi. Se abbiamo questa
facoltà la dobbiamo usare. Dobbiamo anche capire, tuttavia, che esiste una
libertà più pura del libero arbitrio: la libertà di non approfittare della
libertà e del libero arbitrio. La libertà di astenersi dai frutti proibiti:
quelli che fanno acquisire la scienza della separazione (a iniziare dalla
separazione tra il Bene ed il Male). E sottolineo che sto parlando di libertà,
non di imposizione. Se facessimo ciò, rientreremmo difilato nell'Eden, pur
continuando a viverne fuori. Si dirà che è impossibile, ma è tutta una metafora
dell'armonia: di quella capacità, ossia, di sentirsi interiormente liberi pur
vivendo nei condizionamenti collettivi.
Concordo con Linguaglossa quando sostiene che oggi
l'uomo non è libero (e non da oggi a mio modesto parere). Ritengo tuttavia che
sia proprio su questa negazione culturale e sociale della libertà che si fonda
la possibilità di sentirsi liberi sul piano interiore. E' nell'interiorità che
l'uomo può riscoprirsi figlio del creato, facendo finalmente esplodere
l'animale che è in lui. E' nell'interiorità che può sentirsi selvaggiamente
libero, visto che la libertà gli viene negata (o ridotta) sul piano della vita
pratica, esteriore. Una poesia di libertà può nascere nel momento in cui l'uomo
prende coscienza della propria vita interiore, ovvero del proprio Eden,
liquefacendo le panie razionalistiche come cera al sole. Ma ricostruendole
anche, a proprio piacimento, senza più timore alcuno. Il divino può fare questo
ed altro: parlo del divino che è in noi. E qui vorrei rispondere alla domanda
cruciale di Milosz: "Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei
demoni / che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue, /
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano / cercano per proprio
comodo di cambiarne il destino?". Alt! Qui occorre un chiarimento
fondamentale. I demoni o gli angeli che ci vivono dentro non sono altro che
metafore della natura più vera e profonda di noi stessi, della nostra essenza
incontaminata che canta la nostra libertà, del nostro alter ego disincarnato
che ci cammina accanto e che vuole viaggiare con noi.
Il poeta che si professa libero senza sentirsi
invischiato nei condizionamenti collettivi, è sicuramente uno sciocco. Ma non è
meno sprovveduto il poeta (come anche l'uomo) che pensa di non potersi salvare
in nessun modo dalle menomazioni e dalle maledizioni collettive. Si vive nella
libertà e nel condizionamento, ma non è lecito capovolgere la realtà,
affermando che i condizionamenti provengono dall'ordine naturale (o cosmico, o
divino), mentre la libertà sarebbe esclusivo appannaggio dell'essere umano. E'
vero il contrario. Ma è fuori di dubbio che entrambe le sfere ci appartengano e
che noi dobbiamo imparare a "dare a Cesare e a Dio". Fuor di
metafora, dobbiamo imparare a dare unicamente a noi stessi, vuoi sul piano
dello spirito che su quello della cultura. Non c'è Forma senza Sostanza, per
cui si vive in entrambe le dimensioni. E se la Forma è anche Sostanza, allora
ogni Forma è ibrida di per sé, di sua propria natura. Non occorre ibridarla
ulteriormente, anche se a priori non si può escludere la validità di un tale
percorso espressivo. Bisogna vederne ed esaminarne in concreto le singole
manifestazioni o epifanie.
Franco Campegiani
Nessun commento:
Posta un commento