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sabato 1 marzo 2014

N. PARDINI: LETTURA DI "COME UN SOLFEGGIO", DI ANTONIO SPAGNUOLO




Antonio Spagnuolo: Come un solfeggio
Kairósedizioni. Napoli. 2014. Pp. 52



Mi è giunto oggi 26 febbraio un dono, una gradita sorpresa: una plaquette delicata, gentile, contenuta come grandezza, ma espansa come spiritualità, come foga di un uomo tutto intento a tradurre in parole battiti diastolici di un cuore intenso,  generoso,  esplorativo; e già ci avvisano la dedica (In memoria di Elena), il titolo (Come un solfeggio), la copertina (un bosco fitto, quasi impenetrabile, che si apre a spiragli di luce). Una plaquette tascabile come misura, e bella a vedersi, a gustarsi per veste grafica, impaginazione, composizione, risvolti; insomma, come si dice, un buon libro, piacevole da sfogliare, da palpare, da annusare per il suo profumo fresco di stampa, da ascoltare per l’accattivante sfrigolio delle sue pagine. E tutto contribuisce a ben predisporci a una lettura attenta; a capirne i nessi, le intenzioni emozionali, gli intrichi stilistici, gli assemblaggi, le accentuazioni, le intensificazioni, le asciuttezze, insomma il possibile quanto impossibile arrembaggio del verbo ad agguantare gli azzardi verticali dell’anima. Un prodromico avvio, dunque, che fa da antiporta ad un poema coinvolgente per disarmante nitore,  per sostanza e potenzialità creative che scopriamo fin dalle prime battute. Fin dai primi versi che ci dicono chiaramente delle qualità  di un autore che da una vita dà tutto se stesso all’arte del dire, all’ars inveniendi, al generoso e quanto mai inspiegabile mistero dell’intarsio poetico. Sì!, è Antonio Spagnuolo a metterci sull’attenti, a chiederci una intonazione a un poetare di fine fattura.  A un poetare vòlto a tracciare una specie di redde rationem di una vicissitudine dolorosa che riguarda tutti noi. Anzi, per precisione, ognuno di noi in quanto  mortali, in quanto esseri soggetti al dolore di un abbandono, alla  precarietà di una vicenda che ci è toccata. Anche se, forse, dobbiamo esserne felici; felici di tale sorte, unica e irripetibile; fatta di ombra e di luce, di gioia e dolore, di Caini e Abeli; di polemos fra i contrari che ne costituiscono una simbiotica fusione detta vita. Che pur vita è, anche se una scalata verso vette difficilmente raggiungibili; verso vette che richiedono scarpe chiodate, appigli ben saldi per scoprire, poi, che da quelle sommità ci sperdiamo in orizzonti offuscati da nebbie. E leggiamo, qui, la solitudine, il mistero del vivere, lo sforzo impellente di fare della notte un gioco di luci a illuminare volti e incontri di una immaginazione ri/tornata viva e concreta. Due realtà: quella che ogni giorno si snocciola sulla sua via crucis, e quella che la nostra storia lascia indelebile, corposa, e vitale nella memoria; tanto concreta da alleviare i crucci della solitudine, i tormenti di un esistere di cui non capiamo più nemmeno l’essenza, lo sterminato suo dolore. Ed è un volto a rinascere con tutto il suo potere. Sono quegli occhi, quelle mani, quegli incontri con tutti i paesaggi a farsi complici; a farsi avanti con le loro cospirazioni sentimentali di dolce virulenza fino a divenire motivo di conforto. D’altronde cosa è la nostra terrenità senza quella parte di noi che abbiamo speso per amore. Ed è lì; è lì presente chi ha avuto la grande fetta del nostro esser/ci; è lì anche nella sua assenza; e c’è con una presenza talmente forte da farsi indispensabile nelle nostre quotidiane abitudini. Dice un poeta: “Noi viviamo frantumati nel mondo che ci circonda”. Ed è il mondo a  sottrarci o a restituirci le schegge che riunite compongono il nostro involucro esistenziale. Il dolore più grande consiste nel non riuscire a riprenderci quella fetta focale di cui natura ci ha privati. Al solo pensiero della sua perpetua mancanza nasce in noi, spontaneo, una specie di anticorpo a difesa della nostra umile mortalità. Ed è la memoria con tutto il suo bagaglio zeppo di foto, di gesta, di amorosi incontri, di fughe e ritorni a riportarci quelle “viscere” asportateci inspiegabilmente. E’ qui che entra in ballo la poesia. La poesia/parola. La nostra  menomanza ha immediato bisogno di completarsi. Di rifarsi. E va alla ricerca frenetica e passionale - irrazionale direi - di quegli involucri emotivi che combacino con l’assenza di quelle schegge che fuggirono impazzite. Sì!, la parola. Quel misterioso sintagma, quell’insolito fonema, quel groviglio di suoni che cercano intarsi per combinarsi con i patemi delle nostre sottrazioni. Ed è soprattutto l’amore ad animare la storia del nostro romanzo. E’ l’amore che ci trascina su una strada fatta di quietudini riposanti, di edeniche stasi erotiche, di abbracci generosi alla vita. Ma anche di inferni, di dolori sconquassanti, di tristezze e solitudini disumane. Ed è nel dolore che raggiunge le cime più alte del suo potenziale emotivo, come scrive un poeta francese: “C’est dans le douleur le cri le plus puissant  de l’amour”. E quando la solitudine si fa stella polare della nostra navigazione, i pensieri si ammucchiano senza ordine nella mente; creano una nuova realtà fatta di armonie, di solfeggi musicali, di panorami contaminanti per amorose attrazioni. Sì, c’è in noi questo potere di vincerlo il malum vitae. C’è. Può esistere anche se:

Misteriosa è la  notte fuori del tempo,
che sappiamo scomporre, e a volte grida
all’ultimo rosario.
Incredibili note e multiformi gorghi
per ascoltare una poesia che trabocca,
mentre la fiamma è un guizzo di ricordi
incomposti
ove nascondere l’unica promessa
della gioventù spinta al passato… (Misteriosa la notte).                

Lo si può conquistare con giochi di repêchage:

“Meraviglioso amore” è stato il tuo
per quelle primavere che rubammo
al segreto, rincorrendo illusioni (Meraviglioso amore).

E tutto si fa più armonico, più lirico, in questo slancio verso la beatitudine della luce. La forma stessa diviene ancella di queste espansioni al tutto, al completamento del nostro essere, ricorrendo a sinfonie, ad assonanze, a rime, a costruzioni endecasillabe che tanto si avvicinano alla quiete di una rinascita interiore. 
        Appagamento? Sì, appagamento dell’io nell’agguantare quella parte di sé che ora ri/vive nel sogno, nell’immaginifico:

I luminosi assoli della luna
non hanno colpa alcuna
nella dolcezza che non so tradurre
nel profondo mistero del tuo sguardo,
che in penombra sparisce… (ibidem).

La natura stessa si fa complice. Sembra che voglia accompagnare il poeta per offrirgli i mezzi visivi adatti ad esprimere il suo tourbillon sentimentale. Dato che le parole mai saranno sufficienti indicatori del nostro sentire.
        Qui ci troviamo di fronte ad una delle poesie più avvincenti del poema. Una lirica che basa il suo dipanarsi su giochi sonori che tanto sanno di romanza pucciniana. Uno Spagnuolo nuovo, direi, che si distacca dal prosastico antilirismo. Qui è la musicalità che vince. E lo fa anche con malizia tecnica alternando misure brevi a più ampie per far risaltare cascate di armonie endecasillabe, per far risaltare anche una quiete ritrovata nell’immagine della donna amata. E la sinfonia continua con arpeggi di strumenti verbali intonatissimi:

Tra i libri dei miei vent’anni
già c’era il tuo sorriso
(…)
C’è ancora un canto a fine orizzonte
per le mie palpebre ferite dal silenzio (Pagine).

Continua con metafore, iperboli, giochi allusivi di grande effetto significante:

Come un solfeggio scandiscono le note
melodie
che sapesti donarmi ancora in vita…
è sempre meraviglia l’immagine trascinata
agli incastri,
o il lamento che interroga le stelle,
(…)
Senza di te ogni parola è vana (Solfeggi).   

Ma anche con invettive contro quell’Ade artefice di un dolore febbrile:

Maledette tenebre dell’Ade
per avermi venduto alle febbri,
per avermi svuotato il ventre carico di lamenti… (Ade)

E Sospiri, Gemme, Luci, Nebbie, Armonie, Sguardi, Ombre, Riflessi… si alternano fino a:

Questa è l’ora che rintraccia vampate
nella vacuità dei ricordi:
mi annullavo nel tuo sorriso,
nel mulinello evanescente della tua verità
ed ogni traccia folgorava le immagini
del tuo piede sigillo (Vela),

fino ad un imperfetto che sa tanto di vita  mortale, di vita aggrappata a una storia, aggrappata ad un’estasi, ad un sorriso che domina incontrastato, imperituro, sulla fragilità delle cose umane; sul dramma della scomparsa della donna amata; su quello della  solitudine.

                                                 Nazario Pardini

01/03/2014

1 commento:

  1. Ninnj Di Stefano Busà

    Due "Grandi" che si ritrovano insieme: il poeta e il critico, entrambi di levatura che energono dalla parola, come se fosse l'insieme dei suoni, delle note, delle melodie, che caricano "la stessa"di significati imperituri, illuminandola dal di dentro, come fa la musica con le noti musicali. Una descrizione perfetta della "perdita" sta a Spagnuolo, come altrettanta superiore perfezione e rarità esegetiche compongono la critica di Pardini.
    E' un piacere leggere tra la fragilità e l'inconsistenza del frammentario umano, un limpido e percepibile "amore" che dallo strazio della sofferenza e del dolore, sa risalire le cime più alte della Poesia, inondandole di luce propria, di speranza e di verbalismi che possiedono i mezzi espressivi più alti, più potenti e più idonei per descrivere la Bellezza del dolore. Non è un ossimoro, anche la sofferenza si può vestire di una sua naturale gradevolezza, se aspira al Parnaso. Sembra, allora, che anche la solitudine e la disperazione vibrino insieme per dare alla vicenda della perdita il suo più alto valore umano...e anche Divino. Non si potrebbe descrivere meglio il mistero che si rende complice della Poesia -pur nello strazio- perché è evidente che solo essa lo può alleviare con un redde rationem della memoria che lo riscrive nella carne viva.

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