Intendo partire da una considerazione,
sulla quale - credo - non si possa non convenire: la poesia non ha alcuna
utilità pratica (nel senso consuetudinario dato al termine). Non serve, non ha
riscontri e, dunque, non condiziona la realtà.
Ma mi domando - e vi domando - siamo
davvero certi che il vero sia soltanto ciò che ricade sotto i nostri occhi,
sotto la nostra esperienza reale? E siamo parimenti sicuri che ciò che resta,
che vive nell’ombra sia fatalmente illusorio?
Onestamente, io non mi sento di
sottoscriverlo né di battermi per una simile Weltanshauung. Sono, al contrario,
convinto che ciò che si manifesta non è che la punta di un iceberg che
galleggia nell’infinito mare del mistero; ed è fondamentale avvistarlo, per due
importantissime ragioni: evitare l’impatto e non colare a picco credendolo
facilmente superabile o passargli così vicino, spingendo lo sguardo sotto la
superficie dell’acqua, da vedere fin dove è possibile e, poi, immaginare un’intera
montagna di ghiaccio.
Chiedo venia per il forse eccessivo
preambolo (l’ho ritenuto, però, indispensabile) e vengo all’oggetto del tema in
questione.
Se si accetta (ovviamente ognuno è libero
di farlo o no), se si accoglie - dicevo - questo punto di vista, la funzione
del critico non potrà non risentire dello stato delle cose. Voglio dire che
anche in colui che si occupa d’investigare sulla poesia non deve mai venir meno
la consapevolezza che si sta misurando, come fa il poeta, con il mistero che,
in quanto tale, non potrà mai essere rivelato.
Mi si dirà: ma, allora, a cosa serve
trovare nell’esegesi dei nessi, delle connessioni linguistiche e non che
riconducono, in qualche modo, alla scintilla generante l’atto creativo? Se
rispondessi che è inutile, sarei in grande contraddizione con me stesso e
quanto finora ho sostenuto; il critico, invece, ha un’enorme responsabilità:
quella di non tradirsi e di non tradire l’autore.
Come si fa? Non penso sia poi così
difficile - e torno alla premessa - purché si tenga sempre presente che non si
sta spiegando (tanto meno indottrinando) nulla a nessuno. Il vero critico deve
fornire la propria lettura, che non è la Lettura ma l’interpretazione (non per questo
minuscola) del testo poetico.
Non
vedo in quale altro modo possa essere rispettata la libertà del poeta e -
attenzione - perché senza quella licenza non si entra nel mondo di chicchessia.
Ci si illude di farlo pensando che l’oggettività renda giustizia con
l’imparzialità.
Abbiate pazienza: ma come si può parlare
oggettivamente e, dunque, razionalmente di qualcosa di cui neppure il demiurgo
è a conoscenza? Si può - si deve - questo si, cercare di afferrare la coda
della cometa, accorgersi della punta dell’iceberg, capovolgendo però l’idea
che, a volte, la realtà supera la fantasia o, meglio, confermandone l’assunto
dando per certo anche il suo contrario.
Insomma - e concludo - del critico che
crea, che dà vita ad un’altra opera, che non mortifica il mito ma lo alimenta,
lo rinnova; di questo ha bisogno la poesia. In fondo, di nient’altro che,
ancora, un nuovo poeta.
Sandro Angelucci
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