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sabato 9 agosto 2014

PRESENTAZIONE DI "GUARDAMI" DI PATRIZIA STEFANELLI

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PREFAZIONE
di Nazario Pardini

Sottrarsi ai vincoli della terrenità per guardare l’azzurro


Una vita

Mi vedo,
in paesaggio nebbioso di fine ottocento
camminare su file di ciottoli
ad argine poggiati
dal tempo vissuto
unica occasione
passaggio.

Di spalle con lunghi capelli, verso la casa che sbuffa vapore, vicino lo steccato col campanile sul fondo.
Senza giri ne rigiri la mente distraggo al passo e mi ritrovo bambina, piccole orme dentro orme,
il naso rosso di freddo e la sciarpa del babbo sulla testa perché il cappello mi stava sempre stretto.

Odori riascolto di memoria
soltanto sopita, di dopobarba
al muschio selvatico come il muschio
che tocco con le dita.

Foglie, gialle e secche e morte e vive,
piccole zattere alla deriva del fiume
o forse all’approdo
in un paesaggio nebbioso
                        di fine ottocento.

Fantasia d’amoreFantasia di viaggio i due sottotitoli di una silloge dal titolo Guardami che ingloba nella sua estensione polisemica il sentimento più nobile dell’anima umana: l’amore. L’amore erotico, ma soprattutto l’amore plurale: per i figli, per i cari, per il compagno, per la vita, per la  natura, per il tutto. E la poetessa ricorre a stratagemmi lessicali che vanno oltre la sintassi stessa, oltre gli ordini canonici della grammatica, perché ha bisogno di spazi, sente la necessità di affrancarsi ricorrendo a peripezie verbali di grande impatto lirico/armonico. Sente il bisogno di cantare un viaggio, quello della vita, odissaico, con tutti i patemi che quella comporta. Un viaggio zeppo di riflessioni, sensazioni, osservazioni, emozioni, scottature, e arrampicate verso soglie che demarcano la malinconia dalla serenità.     
         Silloge, comunque, di sicuro slancio emotivo, che già, da una prima lettura, rivela una vis creativa di perspicua resa poetica, dove il verbo, sostanziato da potenzialità fonica e cromatica, fa da argine ai forti input esistenziali. Una poesia nuova, generosa, ammiccante, dove la parola la fa da padrona. Una parola arrotondata, smussata, pensata,  lavorata da artigiano per ritrattare la complessità dell’esistere. Sì, perché è frutto di una ricerca attenta, che denota una autoptica frequenza letteraria, che sgorga, anche,  dolce e duttile, da una spontaneità quale richiede il buon poieo. Mi piace esordire con la prodromica citazione testuale, perché, credo contenga le peculiarità etico-estetiche della poetica della Stefanelli: panismo simbolico; senso eracliteo dell’esistere; memoriale come alcòva, come amore oblativo, come rifugio edenico; tentativo di prolungare una vicenda di obbligata scadenza; spleentaedium vitae; ma soprattutto amore, e visione di un mondo con stupefazione per una scoperta sempre nuova che si traduce in un realismo lirico di grande effetto visivo. E il tutto inanellato da una euritmica musicalità che tiene compattata l’opera. Sta qui l’organicità della silloge, in questa permanente armonia dei nessi, delle allusioni simboliche, che abbraccia gli slanci cospirativi della Nostra. Slanci che partendo dai minimalismi, dalle cose semplici, dalle minuzie, o dalle grandi questioni, riescono ad elevarsi verso una contemplazione alta, oltre la siepe, dove è facile sperdere la nostra identità. Verso un orizzonte infinitamente esteso, forse troppo esteso per le ristrettezze umane:

La finestrina della stanza era posta proprio in alto e le barre gelide allontanavano il cielo dal mio sguardo. Quando un temporale mi piegava il cuore cantavo: "Piove piove, esce il sole, la Madonna raccoglie i fiori, li porta a Gesù e domani non piove più"

 Una strada piccola e bianca
dove le lucciole, a sera,
erano parte di me
del mio essere bambina
che voleva scoprire
dove corrono le rondini a primavera e
perché nelle sere d'estate il cielo fosse così
                                    grande,
                                               grande

finché restavo col naso in su.


Ecco,
il resto dell'anima che resta
                        andare per andare
parlare per parlare
parole d'uomo
              senza senso (L’anima che resta).

Poesia colta intessuta di una realtà esperita, rivisitata in chiave personale. Ricordiamo che Aldo Capasso  si era fatto promotore e interprete di un Realismo lirico che aveva contagiato la metà del Novecento letterario.
Stefanelli ne è un prolungamento onesto, emotivamente zeppo di contaminazioni veristiche. Di una forma lirica classico-moderna, avulsa da ermetismi devianti, o da ismi di mestiere. Un realismo lirico di grande resa artistica.
         Ma, vivendo in spazi limitati, è anche ambizione naturale sottrarsi ai vincoli della terrenità per guardare l’azzurro, pur coscienti che di quegli spazi, e delle loro fattezze noi viviamo e ne facciamo motivo di vita. Da qui l’umano travaglio, il male di vivere determinato dalla coscienza della precarietà del nostro esser/ci. Del nostro esistere. E il tempus fugit impietoso, irrevocabile. Il presente non esiste, né possiamo avere l’occasione di vedercelo davanti, in faccia, per un colloquio conclusivo.

Non ho voluto chiedere la tua identità
nemmeno quando l'ultimo istante
ha passato il segno del tempo vissuto

l'attimo che fugge non lascia speranza di voce
non include pietà né rincorse

Al marginale sguardo
miseri corpi appesi alla vita
o al cappio di un' invisibile corda
che stringe la morbida vena, che vive
nonostante tutto (Alla vita).

Ne deriva questa nostra dicotomica inquietudine di pascaliana memoria. Dacché è proprio dal polemos fra gli opposti, dall’umana/disumana contrapposizione fra giorno e notte, eros e thanatos, Caino e Abele, vita e morte che un trepido vibrare riprende tra le mani il bandolo di un passato cristallizzandolo in poesia. In una poesia forbita di ars inveniendi  proprio perché, forse, la morte fa parte della vita. Ed è viva per questo. In ciò la complessa semplicità di questo poema. O semplicità complessa, se si vuole, dato che contiene tutte le problematiche realistico/escatologiche dell’essere e dell’esistere che la Nostra sa declinare in un linguismo di sconcertante icasticità figurativa. In un linguismo da cui trapela anche la necessità da parte della poetessa di trovare punti fermi, di trarre dei bilanci, un redde rationem, che, mai conclusivo, la porta a meditare sui tanti perché di una “società liquida” di “viandanti sperduti”. Di una società talmente omologata dove l’individuo perde la cognizione della sua unicità.
         Un ductus poetico compatto e suasivo, umano e totalizzante, di una plurivocità oggettivante, che non parla solo a tutti, ma al sentire di ciascuno ex abundantia cordis. Dove vagisce l’autunno, stormisce la primavera, o gonfia l’esuberanza della stagione solare. Perché l’autrice conosce le stagioni della vita e le ritrova ovunque con un tatto talmente realistico da fare dello stesso sogno un dato reale. È là che i battiti diastolici di un percorso naturale si fanno di un panismo avvincente e coinvolgente. È generoso il soccorso di Pan. Sempre pronto a venire in aiuto della Nostra nel “corporizzare”, nel “patolocizzare” quei segmenti d’animo che pretendono di riconoscersi in figure, fatti o cromie.

Qua, dove l’albero innesta i suoi rami
A dita che al cielo versano capelli
Che vento scompiglia a carezze delicate
Siede Dafne leggera e scrive: ai suoi bei fiori
Bianchi, rosei o gialli
ai profumi d’estate che da Peneo
sono effluvio alla terra che li accoglie.

Siede, nascosta allo sguardo di Apollo
Che pure tra i rami assapora
E cinge i suoi capelli fino a farsi corona (Lo sguardo).

 Ed è qui che la poetessa ripesca momenti passati, parole non dette, colori sbiaditi, spinta dalla voglia di ridare loro forza e colore. Sì!, è così che il memoriale preme. È così che vuole uscire a nuova vita; urge, sgomita per farlo.

Il tempo dei giochi.
Dolceamaro il nespolo del mio giardino
cresciuto su case diroccate, macerie dimenticate
coperte d’erba fresca e fiori gialli a primavera.

Ricordi il pianto di quel mattino?
 Se avessi stretto le mie  mani avresti avuto altri giorni da ricordare .

Avevi una camicia bianca ed io la gonna dei giochi
e il mantello della malinconia avvolto già di te.

Non ho saggezze da restituirti,
solo squarci di notti
da appendere all’albero dei sogni
ancora da sognare (Dolceamaro).

Ma il ricordo ha double face: da una parte è spia di questa irrefrenabile corsa, dall’altra tentativo di perseguire un rifugio avulso da una spersonalizzazione di sapore pirandelliano.
         Eliot afferma: “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a copiare”.  È quello che ci fa capire la poetessa. Lei rielabora, lascia decantare, affina, e traduce. E lo fa con assemblaggi lessicali, accentuazioni aggettivali, intensificazioni verbali, vaghezze semantiche, ardore allusivo di metafore; con una versificazione ora succinta, ora espansa, ora secca, ora varia, ora per asindeto, ora per polisindeto ad  accompagnare le modulazioni degli input emotivi e tradurli in un articolato linguistico di perspicua sapidità disvelatrice. E la Nostra è pienamente cosciente della sub/stantia che la anima; la sente impellente; la vive come fiamma; crede nella vita, in questa meravigliosa, unica avventura, dove l’amore è l’anima del canto:


I miei figli sono le mie ali ogni tanto
nel mio piccolo mondo la mia storia migliore
il fiato più dolce al mio tacito parlare
li ho cresciuti con perle di miglio
con il nettare più puro della mia casa d'ape
e ho portato sulle braccia il loro profumo
quale dono più grande o mio Signore (Ai miei figli),

pur conoscendone le pene, pur sapendo che le gioie nascono da vie crucis:


Non parlare d'amore nel vacuo porgersi delle cose del mondo
l'inno al tempo vissuto depone corone
e lascia profumi speziati d'ambra e limoni ad un sole rinsecchito.

Perle invernali di ghiaccio lambiscono inutili ferite,
cadendo distrattamente
da un improbabile bocciòlo di roselline d'autunno.

Niente stagione, niente tempo di rose, niente brillare oltre la soglia
mattini distratti saranno la meta
e sere
e silenzi (Oltre la soglia).

Ama questa storia, lo dice con tutta se stessa; e sa anche che la poesia è vita e che la vita può essere poesia; per questo ogni fatto, ogni pur minimo accident fa parte del suo poièin come momento essenziale della vicenda. Una vicenda permeata da un filo sottile di malinconia, che, come un terriccio fertile, fa sbocciare fiori di proteiforme pulcritudine.
         Si leggono versi di tensione orfica, o anche dai toni epico-lirici, vòlti a sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Si può vincere il tempo? Lo si può fare affidandoci a un canto che levi la voce al futuro con sguardo foscolianamente  duraturo. Un canto forte e sincero come quello di Patrizia Stefanelli:

Sto rannicchiata in fondo... in fondo non importa...
in fondo al pozzo dei desideri; troverò perfetta la lampada.
L'ho nascosta mille notti fa,
al fiato del tempo che inganna,
alla grazia delle fate d'agosto,
 al mantice scarlatto di un vecchio focolare.

Avrò occhi nuovi, e la mano sinistra piena d'allegria,
 mentre la destra, a pugno chiuso, stringerà le gocce...
che non ho potuto lasciare.
Le spargerò sul mare, in una notte ancora
e attenderò le stelle e sarò con te,
 nei tuoi mille volti di dolore, nel tuo grido d'amore,
nella piccola coda della tua luce, anima mia (Avrò…).
          

                                               Nazario Pardini



1 commento:

  1. Pronta a mandarti qualche foto e articoli, non posso fare a meno di rileggerti e di ringraziarti, maestro mio. Mi hai rivoltata come un pedalino, trovando anche il compagno che chissà perché, dopo il lavaggio, non si trova mai. L'onore che ho ricevuto è grande, per me, che sono una pulce letteraria, la tua attenzione è stata un dono che mi ha fatto crescere in quanto, mi riempie di responsabilità e rispetto. Grazie! Patrizia

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