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PREFAZIONE
di Nazario Pardini
Sottrarsi ai
vincoli della terrenità per guardare l’azzurro
Una vita
Mi vedo,
in paesaggio nebbioso di fine ottocento
camminare su file di ciottoli
ad argine poggiati
dal tempo vissuto
unica occasione
passaggio.
Di spalle con lunghi capelli, verso la
casa che sbuffa vapore, vicino lo steccato col campanile sul fondo.
Senza giri ne rigiri la mente distraggo
al passo e mi ritrovo bambina, piccole orme dentro orme,
il naso rosso di freddo e la sciarpa del
babbo sulla testa perché il cappello mi stava sempre stretto.
Odori riascolto di memoria
soltanto sopita, di dopobarba
al muschio selvatico come il muschio
che tocco con le dita.
Foglie, gialle e secche e morte e vive,
piccole zattere alla deriva del fiume
o forse all’approdo
in un paesaggio nebbioso
di fine ottocento.
Fantasia
d’amore, Fantasia di viaggio i
due sottotitoli di una silloge dal titolo Guardami che ingloba
nella sua estensione polisemica il sentimento più nobile dell’anima umana:
l’amore. L’amore erotico, ma soprattutto l’amore plurale: per i figli, per i
cari, per il compagno, per la vita, per la natura, per il tutto. E la
poetessa ricorre a stratagemmi lessicali che vanno oltre la sintassi stessa,
oltre gli ordini canonici della grammatica, perché ha bisogno di spazi, sente
la necessità di affrancarsi ricorrendo a peripezie verbali di grande impatto
lirico/armonico. Sente il bisogno di cantare un viaggio, quello della vita,
odissaico, con tutti i patemi che quella comporta. Un viaggio zeppo di
riflessioni, sensazioni, osservazioni, emozioni, scottature, e arrampicate
verso soglie che demarcano la malinconia dalla serenità.
Silloge, comunque, di sicuro slancio emotivo, che già, da una prima lettura,
rivela una vis creativa di perspicua resa poetica, dove il
verbo, sostanziato da potenzialità fonica e cromatica, fa da argine ai forti input esistenziali.
Una poesia nuova, generosa, ammiccante, dove la parola la fa da padrona. Una
parola arrotondata, smussata, pensata, lavorata da artigiano per
ritrattare la complessità dell’esistere. Sì, perché è frutto di una ricerca
attenta, che denota una autoptica frequenza letteraria, che sgorga, anche,
dolce e duttile, da una spontaneità quale richiede il buon poieo.
Mi piace esordire con la prodromica citazione testuale, perché, credo contenga
le peculiarità etico-estetiche della poetica della Stefanelli: panismo
simbolico; senso eracliteo dell’esistere; memoriale come alcòva, come amore
oblativo, come rifugio edenico; tentativo di prolungare una vicenda di
obbligata scadenza; spleen, taedium vitae; ma
soprattutto amore, e visione di un mondo con stupefazione per una scoperta
sempre nuova che si traduce in un realismo lirico di grande
effetto visivo. E il tutto inanellato da una euritmica musicalità che tiene
compattata l’opera. Sta qui l’organicità della silloge, in questa permanente
armonia dei nessi, delle allusioni simboliche, che abbraccia gli slanci
cospirativi della Nostra. Slanci che partendo dai minimalismi, dalle cose
semplici, dalle minuzie, o dalle grandi questioni, riescono ad elevarsi verso
una contemplazione alta, oltre la siepe, dove è facile sperdere la nostra
identità. Verso un orizzonte infinitamente esteso, forse troppo esteso per le
ristrettezze umane:
La finestrina della stanza era posta
proprio in alto e le barre gelide allontanavano il cielo dal mio sguardo.
Quando un temporale mi piegava il cuore cantavo: "Piove piove, esce il
sole, la Madonna raccoglie i fiori, li porta a Gesù e domani non piove
più"
Una strada piccola e bianca
dove le lucciole, a sera,
erano parte di me
del mio essere bambina
che voleva scoprire
dove corrono le rondini a primavera e
perché nelle sere d'estate il cielo
fosse così
grande,
grande
finché restavo col naso in su.
Ecco,
il resto dell'anima che resta
andare per andare
parlare per parlare
parole d'uomo
senza senso (L’anima che resta).
Poesia colta
intessuta di una realtà esperita, rivisitata in chiave personale. Ricordiamo
che Aldo Capasso si era fatto promotore e interprete di un Realismo
lirico che aveva contagiato la metà del Novecento letterario.
Stefanelli ne
è un prolungamento onesto, emotivamente zeppo di contaminazioni veristiche. Di
una forma lirica classico-moderna, avulsa da ermetismi devianti, o da ismi di
mestiere. Un realismo lirico di grande resa
artistica.
Ma, vivendo in spazi limitati, è anche ambizione naturale sottrarsi ai vincoli
della terrenità per guardare l’azzurro, pur coscienti che di quegli spazi, e
delle loro fattezze noi viviamo e ne facciamo motivo di vita. Da qui l’umano
travaglio, il male di vivere determinato dalla coscienza della precarietà del
nostro esser/ci. Del nostro esistere. E il tempus fugit impietoso,
irrevocabile. Il presente non esiste, né possiamo avere l’occasione di
vedercelo davanti, in faccia, per un colloquio conclusivo.
Non ho voluto chiedere la tua identità
nemmeno quando l'ultimo istante
ha passato il segno del tempo vissuto
l'attimo che fugge non lascia speranza
di voce
non include pietà né rincorse
Al marginale sguardo
miseri corpi appesi alla vita
o al cappio di un' invisibile corda
che stringe la morbida vena, che vive
nonostante tutto (Alla vita).
Ne deriva
questa nostra dicotomica inquietudine di pascaliana memoria. Dacché è proprio
dal polemos fra gli opposti, dall’umana/disumana
contrapposizione fra giorno e notte, eros e thanatos, Caino e Abele, vita e
morte che un trepido vibrare riprende tra le mani il bandolo di un passato
cristallizzandolo in poesia. In una poesia forbita di ars inveniendi
proprio perché, forse, la morte fa parte della vita. Ed è viva per questo. In
ciò la complessa semplicità di questo poema. O semplicità complessa, se si
vuole, dato che contiene tutte le problematiche realistico/escatologiche
dell’essere e dell’esistere che la Nostra sa declinare in un linguismo di
sconcertante icasticità figurativa. In un linguismo da cui trapela anche la
necessità da parte della poetessa di trovare punti fermi, di trarre dei
bilanci, un redde rationem, che, mai conclusivo, la porta a
meditare sui tanti perché di una “società liquida” di “viandanti sperduti”. Di
una società talmente omologata dove l’individuo perde la cognizione della sua
unicità.
Un ductus poetico compatto e suasivo, umano e totalizzante, di
una plurivocità oggettivante, che non parla solo a tutti, ma al sentire di
ciascuno ex abundantia cordis. Dove vagisce l’autunno, stormisce la
primavera, o gonfia l’esuberanza della stagione solare. Perché l’autrice
conosce le stagioni della vita e le ritrova ovunque con un tatto talmente
realistico da fare dello stesso sogno un dato reale. È là che i battiti
diastolici di un percorso naturale si fanno di un panismo avvincente e
coinvolgente. È generoso il soccorso di Pan. Sempre pronto a venire in aiuto
della Nostra nel “corporizzare”, nel “patolocizzare” quei segmenti d’animo che
pretendono di riconoscersi in figure, fatti o cromie.
Qua, dove l’albero innesta i suoi rami
A dita che al cielo versano capelli
Che vento scompiglia a carezze delicate
Siede Dafne leggera e scrive: ai suoi
bei fiori
Bianchi, rosei o gialli
ai profumi d’estate che da Peneo
Siede, nascosta allo sguardo di Apollo
Che pure tra i rami assapora
E cinge i suoi capelli fino a farsi
corona (Lo sguardo).
Ed è
qui che la poetessa ripesca momenti passati, parole non dette, colori sbiaditi,
spinta dalla voglia di ridare loro forza e colore. Sì!, è così che il memoriale
preme. È così che vuole uscire a nuova vita; urge, sgomita per farlo.
Il tempo dei giochi.
Dolceamaro il nespolo del mio giardino
cresciuto su case diroccate, macerie
dimenticate
coperte d’erba fresca e fiori gialli a
primavera.
Ricordi il pianto di quel mattino?
Se avessi stretto le mie
mani avresti avuto altri giorni da ricordare .
Avevi una camicia bianca ed io la gonna
dei giochi
e il mantello della malinconia avvolto
già di te.
Non ho saggezze da restituirti,
solo squarci di notti
da appendere all’albero dei sogni
ancora da sognare (Dolceamaro).
Ma il ricordo
ha double face: da una parte è spia di questa irrefrenabile corsa,
dall’altra tentativo di perseguire un rifugio avulso da una spersonalizzazione
di sapore pirandelliano.
Eliot afferma: “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e
trasfigura, lo scriba si limita a copiare”. È quello che ci fa capire la
poetessa. Lei rielabora, lascia decantare, affina, e traduce. E lo fa con
assemblaggi lessicali, accentuazioni aggettivali, intensificazioni verbali,
vaghezze semantiche, ardore allusivo di metafore; con una versificazione ora
succinta, ora espansa, ora secca, ora varia, ora per asindeto, ora per
polisindeto ad accompagnare le modulazioni degli input emotivi
e tradurli in un articolato linguistico di perspicua sapidità disvelatrice. E
la Nostra è pienamente cosciente della sub/stantia che la
anima; la sente impellente; la vive come fiamma; crede nella vita, in questa
meravigliosa, unica avventura, dove l’amore è l’anima del canto:
I miei figli sono le mie ali ogni tanto
nel mio piccolo mondo la mia storia
migliore
il fiato più dolce al mio tacito parlare
li ho cresciuti con perle di miglio
con il nettare più puro della mia casa
d'ape
e ho portato sulle braccia il loro
profumo
quale dono più grande o mio Signore (Ai
miei figli),
pur
conoscendone le pene, pur sapendo che le gioie nascono da vie crucis:
Non parlare d'amore nel vacuo porgersi
delle cose del mondo
l'inno al tempo vissuto depone corone
e lascia profumi speziati d'ambra e
limoni ad un sole rinsecchito.
Perle invernali di ghiaccio lambiscono
inutili ferite,
cadendo distrattamente
da un improbabile bocciòlo di roselline
d'autunno.
Niente stagione, niente tempo di rose,
niente brillare oltre la soglia
mattini distratti saranno la meta
e sere
e silenzi (Oltre la soglia).
Ama questa
storia, lo dice con tutta se stessa; e sa anche che la poesia è vita e che la
vita può essere poesia; per questo ogni fatto, ogni pur minimo accident fa
parte del suo poièin come momento essenziale della vicenda.
Una vicenda permeata da un filo sottile di malinconia, che, come un terriccio
fertile, fa sbocciare fiori di proteiforme pulcritudine.
Si leggono versi di tensione orfica, o anche dai toni epico-lirici, vòlti a
sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Si può vincere il
tempo? Lo si può fare affidandoci a un canto che levi la voce al futuro con
sguardo foscolianamente duraturo. Un canto forte e sincero come quello di
Patrizia Stefanelli:
Sto rannicchiata in fondo... in fondo non importa...
in fondo al pozzo dei desideri; troverò
perfetta la lampada.
L'ho nascosta mille notti fa,
al fiato del tempo che inganna,
alla grazia delle fate d'agosto,
al mantice scarlatto di un vecchio
focolare.
Avrò occhi nuovi, e la mano sinistra
piena d'allegria,
mentre la destra, a pugno chiuso,
stringerà le gocce...
che non ho potuto lasciare.
Le spargerò sul mare, in una notte
ancora
e attenderò le stelle e sarò con te,
nei tuoi mille volti di dolore,
nel tuo grido d'amore,
nella piccola coda della tua luce, anima
mia (Avrò…).
Nazario Pardini
Pronta a mandarti qualche foto e articoli, non posso fare a meno di rileggerti e di ringraziarti, maestro mio. Mi hai rivoltata come un pedalino, trovando anche il compagno che chissà perché, dopo il lavaggio, non si trova mai. L'onore che ho ricevuto è grande, per me, che sono una pulce letteraria, la tua attenzione è stata un dono che mi ha fatto crescere in quanto, mi riempie di responsabilità e rispetto. Grazie! Patrizia
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