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lunedì 11 agosto 2014

SONIA GIOVANNETTI: "IN VIAGGIO"

In viaggio

Sei stato vicino a me poeta
quando ne avevo più bisogno
Mi hai riscaldato e accarezzato
quando tremavo.
Tu eri negli orizzonti
nelle sere e nelle notti
che bussavano ai vetri
col grande vento.
Eri nel mio silenzio
nel tacere delle ore deserte
nel mio cercare intenso ai litorali tesi
nelle mattine d’argento.
È giunto il momento, poeta,
di venire io da te.
Sarà gioia il mio viaggio
e palpitante il cuore.
S’apriranno le strade
come ventagli di cielo
se mi accompagnerai ancora
nel viaggio della poesia.

Sonia Giovannetti
(Ho detto alla luna – Aletti)




3 commenti:

  1. Cara Sonia, ho deciso di pubblicare sul blog quanto ti avevo già scritto in forma privata: mi sembra doveroso nei tuoi confronti e di Claudio Fiorentini. Certo il commento di Franco Campegiani rende superfluo il mio tanto è profondo e dotto. Nei tuoi versi è tangibile uno slancio, una tensione, una ricerca di un 'altro da sè', come se il proprio corpo e la propria mente, il proprio cervello biologico e la propria coscienza, fatta non solo di bruta chimica ma di emozione e passione e ricerca, desiderassero divorziare e prendere ciascuno la propria via, quella del limite, del finito, del corporeo da una parte e quella dell'infinito, del viandante, dello slegamento dall'altra. Eppure sai che queste due facce non sanno nè possono nè vogliono recidersi, perchè hanno una fusione ombelicale, sono necessarie l'una all'altra, si nutrono l'una dell'altra in una comunicazione osmotica perenne che poi dà luogo alla tua poesia.
    Non potresti scrivere e non potresti scrivere quello che scrivi se tu non abitassi contemporaneamente due case:

    "...non mi piace l'aria nebbiosa..." perchè nasconde "...gli inganni del vivere..."

    "...amo l'aria tersa..." perchè ti consente "...di guardare le piccole cose finite e l'infinito dello spazio..."

    "...il sentiero che ho davanti promette di essere questo infinito ritorno, là dove tutto è cominciato..."

    vorresti "...lanciare la parola..." per "...far raggiungere l'ascolto..." e "...spezzare il silenzio..."

    In questi versi leggo la dualità del vivere e dell'essere, che poco si amano eppure sono legati, che non si parlano eppure si ascoltano, che sembrano fermi eppure viaggiano assieme.
    Dove questa dualità si sublima è però in Itaca :

    "...metà del mio spirito si inclina sulle onde per partire, metà si ritrae per restare. In mezzo il mio Io che non sa scegliere..."
    Davvero Itaca è il tuo "...sogno certo...", il tuo amnios, il tuo equilibrio instabile che genera la tua poesia e la rende adulta/alta.
    I tuoi versi mi hanno rievocato una mia poesia(?) scritta circa un anno fà e l'ho trovata forse adatta a sintetizzare il mio commento e i tuoi lavori:

    non è eterno l'amore,
    ....la sua ricerca forse

    ....come il viaggiatore

    ….non trova pace che
    alla fine del viaggio

    ma presto ricomincia

    perchè è il cammino
    che gli manca....

    ....non la meta


    Ecco, in questi -chiamiamoli- versi ritrovo un pò il senso delle tue liriche: è il cammino il tuo sogno certo, la tua Itaca? E' il cammino la sintesi del tuo spirito che si inclina e si ritrae? E' il cammino che ti permette di distinguere ovvero di fondere il finito e l'infinito? E se cosi fosse, sei certa che il tuo ego se ne sta nel mezzo perchè non sa scegliere? O forse se ne sta nel mezzo perchè ha già scelto: ha scelto di leggere il mondo nella sua molteplicità, ha scelto di abitare il multiverso o se vuoi le due case, ha scelto il silenzio perchè genera la parola e questa l'ascolto, ha scelto insomma la dualità, che sta nel mezzo, perchè il solo silenzio è sterile, la sola parola può essere assordante, l'ascolto e l'essere ascoltati sono confortanti, ...
    Le limitazioni, i confini, le sottomissioni, prevalgono lì dove prevale il solo corpo o la sola mente, ma dove questi, pur rimanendo identitari, collaborino ad una visione d'insieme del mondo, davvero si possono aprire le porte dell'infinito.
    Io credo che tu la tua Itaca l'abbia già trovata, è carne della tua carne e tuo spirito, Itaca è il tuo cammino non la tua meta, è dentro di te ma non puoi possederla (e questo ti cruccia) perchè ti nasconderà sempre qualcosa per cui valga la pena iniziare 'un altro giro di giostra',Itaca è tua dannazione e tua 'Musa'.

    Un abbraccio,
    Umberto Messia

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  2. Questa poesia è fra le prime (se non la prima in assoluto) scritte da Sonia, ed è dedicata ai poeti, verso cui lei, nuova adepta, veniva incamminandosi. Ci sono versi che feriscono per la loro bellezza e che sicuramente ogni grande poeta avrebbe voluto scrivere. Come questi: "Eri nel mio silenzio / nel tacere delle ore deserte / nel mio cercare intenso ai litorali tesi / nelle mattine d'argento". Poesia pura ed autentica, trascinata dal mistero, che il commento di Umberto Messia rende ancora più fascinosa e bella. Ha ragione l'amico a parlare di "dualità", argomento principe fra i tanti con cui amiamo intrattenerci con Sonia: il "finito" da un lato e l'"infinito" dall'altro, polarità distinte dell'Essere (di ogni singolo Essere). Noi siamo viandanti cosmici alla ricerca di noi stessi, di un'identità che sfugge e che è sempre altra da se stessa. Ed è il mistero a muovere i nostri passi. Viaggiamo con la prua rivolta verso il nord, dove brilla e brillerà sempre la nostra patria, la nostra individuale e comune stella. Senza dualità non ci sarebbe armonia, bilanciamento di pesi contrapposti. E difatti non c'è nero senza bianco, non c'è estate senza inverno, non c'è vita senza morte, non c'è materia senza spirito, non c'è maschile senza femminile... E viceversa, naturalmente. Tutto è osmosi e cooperazione cosmica. Stanno qui, ritengo, la poetica e la "Weltanschauung" di Sonia Giovannetti.
    Franco Campegiani

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  3. Alle bellissime, profonde parole dei miei cari amici Franco Campegiani e Umberto Messia, non saprei rispondere altrimenti se non con un sentito e commosso “grazie”: non solo per la stima e l’affetto che vi leggo impliciti nei miei riguardi, ma anche perché, nel merito, mi aiutano davvero a capire meglio il senso della mia poesia.
    Un poeta, infatti, generalmente non è mosso da un senso preordinato della propria scrittura, non produce “a tesi”; prova solo a dar voce alle proprie emozioni, sentendosi quasi sempre incerto dell’esito, se questo sia fedele o meno al proprio sentire; credo gli prema soprattutto riuscire ad esprimere l’ intima, personale urgenza dell’anima, più che la “forma” di questa espressione. Sa bene, certo, che la forma è molto importante: lo identifica, può inoltre arrecargli prestigio e riconoscimento. Tuttavia il “cosa” dire resta sempre, per lui, più importante del “come”. Così come sa che ogni giudizio sulla qualità della sua poesia, sul contenuto e sullo stile, è – per sua fortuna – una prerogativa del lettore: il solo, in questo, legittimato a giudicare.
    Perciò, nel ringraziare ancora i miei stimati amici dei loro preziosi e lusinghieri e giudizi, mi asterrò dal commentarli a mia volta: sarebbe davvero indebito e perfino, da parte mia, presuntuoso.
    Vorrei solo dire loro, a margine, che mi hanno molto colpito le riflessioni sulla poesia come evocatrice del mistero dell’essere, del dualismo tra il “sé” e l’”altro da sé”, tra finito e infinito. Mi hanno fatto pensare a ciò che hanno in comune poesia e filosofia.
    Figlie entrambe del linguaggio, ambiscono in parallelo a penetrare e a rappresentare con le parole il mistero che ci circonda, che è in noi stessi. La poesia però, forse perché più umile e immediata della filosofia, meno sorvegliata nel procedere e non così circospetta nel dire, credo riesca a lambire più da vicino l’oscurità del nostro vivere: sembra abilitata, per così dire, a frequentarla con più confidenza, perfino a nutrirsene. Ne fa materia della sua stessa sostanza, ma senza pretendere di averne a tutti i costi ragione. Anzi, contaminandosene integralmente, mi pare riesca spesso a rappresentarla con più efficacia. Il segreto sta forse nel diverso punto di partenza: la poesia, a differenza dalla filosofia, usa gli stessi “utensili” – le parole – non come strumenti esterni da ammettere, solo a seguito di esami severi, nel proprio mondo di regole precostituite, bensì accettando in principio i limiti della loro significatività, ma anche la loro vitalità primordiale, i colori e le sensazioni che, per vie misteriose ma reali, sanno caleidoscopicamente evocare e che siamo soliti chiamare “vita”.
    Insomma, le parole sono, per la poesia, come figli comunque acquisiti e di cui non si guarda il passaporto per decidere di accoglierli: proprio perchè li sentiamo immediatamente, da sempre, come figli nostri comunque arrivati a noi; figli da accudire e amare senza chiedere troppo in cambio. E sappiamo bene, da sempre, che le parole che usiamo, così come i figli che amiamo, finiscono per dare a noi più di quanto possiamo dare loro.

    Sonia Giovannetti

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