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mercoledì 10 settembre 2014

MARIA RIZZI SU "INEDITI" DI M. MACCARONI




Maria Rizzi collaboratrice di Lèucade

Massimiliano Maccaroni nelle sue liriche di denuncia e di provocazione si dimostra un poeta ricco di voci misteriose che chiede al lettore di decifrare. Un uomo vero, che adotta commistioni di alto lirismo e di gergo quotidiano per esprimersi su tematiche attuali e dolorose con toni scarnificati e con la volontà netta di rompere gli stampi.

"Per emergenza di vita
Emergenza di notte
Di scarpe da ginnastica"

Il refrain iniziale ai suoi componimenti. Emergenze... relative ai drammi quotidiani, alle nostre barriere, alle paure inviolate, alle solitudini. I versi sembrano proposte di varietà. Di elementi che l'Autore convoglia con forza elementare e violenta.
Non ama la tecnica del mosaico, la pazienza del montaggio, seguendo esempi come quello di Ezra Pound.

"Mi capita prima di dormire.
 Vado al gabinetto.
 Lascio scritta una notte
 Per emergenza di vita" 

Eppure la forza del suo comporre è devastante. La nascita delle poesie si configura come permanente ricerca, come un picchiare, uno scavare nella sorda pietrificazione del linguaggio. Un programma lontano da qualsiasi trucco, da ogni schematismo, teso a una interessante avanguardia. La disintegrazione d'ogni forma classica è fortificata da una capacità espressiva, che elimina asprezze di ritmo e di sintassi.
La tendenza del nostro Massimiliano Maccaroni sembra quella di insistere nell'essere incessante, onnicomprensivo, con una messa a fuoco dei concetti mai precipitata o difettosa. Nonostante la radicale operazione di repulisti i quadri che egli affresca risultano inventivamente e verbalmente omogenei, con vigorosa compenetrazione di immagini e di ritmo.
Si tratta senz'altro di una scelta artistica che segna una svolta in direzione della realtà sociale - e non per questo meno intimistica - , e di un linguaggio appassionato, quotidiano, bruciante di carità e furore. E' soprattutto rilevante l'invito a posar lo sguardo sulle cose e sui gesti che caratterizzano
i nostri giorni, strumenti buoni e meno buoni delle nostre vite. Il materialismo dell'Autore, peraltro, ha spesso qualcosa di mistico. Palesa un'esperienza delle esperienze quotidiane, che è di natura estatica e visionaria, pari a quella che il mistico ha della più inaccessibile realtà spirituale. Perché, a rigore, anche il troppo usuale sarebbe ignorato e ineffabile, al pari dello straordinario, se non ci fosse la rivelazione del Poeta.



Sogni di emergenza
[grato a Hun jord]

Mi capita a volte
prima di dormire.
Vado al gabinetto
e lascio aperta la notte.
Con la speranza
che allaghi.
Per ingoiare il primo mattino
mentre sto affogando.
Per emergenza di vita.
Emergenza di notte.
Di scarpe da ginnastica.

Ho dimenticato il cuore in frigo da tre giorni.
L’idea era di conservare.
Quel po’ d’amore
che mi ha cucinato una donna ieri sera.
Per mangiarlo domenica a pranzo
invece del solito hamburger surgelato.
Sognati quei sogni così.
Diciamo spinti.
E infinitamente amari nelle conseguenze.
Che fanno godere per forza.
Sognata l’unica maniera di morire bene.
Per emergenza di vita.
Emergenza di notte.
Di scarpe da ginnastica.

Proclama la luce.
Chiudo il rubinetto.
Scendo le scale.
Dimenticando il caffè sopra i fornelli.
Bestemmiare Dio per così poco.
Che basterebbero gambe.
Sorridere.
Scendere di nuovo.
Sorridere.

Certe volte \ Sometimes.
Vorrei essere [il tetraplegico].
Per emergenza di vita.
Emergenza di notte.
Di scarpe da ginnastica.
Che il tetraplegico fosse me.
Per ignorare le scale.
Un marciapiede basso.
Quei tre metri che servono per lavarsi la faccia.
Finire [in coma].
Per emergenza di vita.
Emergenza di notte.
Di scarpe da ginnastica.
Che uno in coma fosse me.
Per bere un succo di frutta.
Grattarsi il naso.
Parlare di calcio.
E sbucciare una mela.
Essere il [malato terminale].
Per emergenza di vita.
Emergenza di notte.
Di scarpe da ginnastica.
Che il malato terminale fosse me.
Per prenotare una vacanza.
Non avere fretta.
Ti vengo a trovare tra un anno.
Promesso.
E crescere un figlio.

Mi capita prima di dormire.
Vado al gabinetto.
Lascio scritta una notte.
Per emergenza di vita.
Riconoscenza.
Idea di conservare.
Sogni di emergenza.


Per emergenza di vita
Emergenza di notte
Di scarpe da ginnastica.

Ripeto.



Cartoon

Le nuvole.
Lo spazio.
Dio.
Non so.

Il gatto giù dalle scale.
L’anello di quella catena.
Frega proprio niente.
I calzini bucati, le finestre chiuse.

Un padre fallito
è un cartone.

Con su scritto vedrai.

Si ama un padre cartone vedrai.

Passa leggero dalle mani alla terra.
Ci puoi lasciare sopra le impronte vedrai.

E non pentirti di essere scoperto.

L’eroe di un solo mondo.
Vedrai.

L’unico mondo che esiste.
Il mondo sbagliato di fare le cose.

Le sbronze le botte a tua madre i debiti in giro.
Qualche amante che gli apre la porta.
La poltrona imbottita.

Se avessi il controllo di quelle mani smaltate.
Se potessi ordinare a quella bocca marmitta
di aprirsi e chiudersi a comando.
Ci farei l’amore fino a morire.
Se fosse una bambola gonfiabile.

Con gli amici del bar mentre ti tiene per mano.
E mastichi una gomma.

I giocattoli.
Alle checche schifose.
Al massimo li ha portati via il Baubau
perché c’era bisogno di stringere la cinghia.
Te li tira addosso al massimo
li rompe
e sorride.
Al massimo.

Niente pianti signorino.
Un uomo, cristo, non piange.
Le lacrime da parte per le feste.
Il cuscino diventa un mattone.
Con lui.
Dentro casa.
Ci sta dormire sui mattoni.
Al posto dei sogni costruire una torre.
La torre sta in piedi a occhi spalancati.
Nel pieno del vento.
Nel buco del silenzio.
Al banco della sala scommesse.

Da laureato
un giorno
potrai fottere il prossimo.
La bassa società.
La media società.
L’alta società.
Le nuvole.
Lo spazio.
Dio.
Non so.

Adesso gioca col pallone
e non rompere i coglioni.

Un padre fallito così parla.
Vedrai.

Con la bottiglia in mano e la sigaretta in bocca.
La barba lunga
la camicia sporca.
Si ricorda di te quando muore.
Nei giorni che piove.
Vedrai.

E’ un cartone tuo padre.
Puoi scriverci sopra.

E’ buono per imballare i bicchieri.
Quando traslochi.
In mezzo alla strada.
Per vivere.
Sopravvivere.
Cedere il posto a uno spastico sul tram.


Vento da Nost.

Non sono.
Non ho.
Ripetizione e alternanza nel quotidiano amen
e piena di grazia.
Un machete e una bussola nella giungla.
Nella Giungla, un occhio.
Il modo di sentire ne è influenzato
la tendenza all’empirismo è quasi una necessità.
Corazza, sguardo, estrazione del veduto.
Una scatola di tonno gettata nella merda e una fetta di pane ammuffito sono la speranza del senza tetto.
Un coltello da tavola con il manico rosso che non si usa più.
Può essere uno strumento di sopravvivenza nella città - giungla.
Può essere uno sfregio nelle stazioni-giungla.
Può essere una vittima abbandonata nel fosso-giungla.
E’ la lama multiuso dell’anima quando vuole difendersi;
mangiare
svitare
serrare.
E non ha mani da usare.
L’urgenza del prurito ha reso l’ uomo architetto dei muscoli.
Sul bicipite ha issato il tempio di Ares.
Sul pettorale ha eretto la cattedrale di Siviglia.
Sui dorsali ha costruito il muro del pianto.
Ha scoperto che il coltello rosso lascia striature violacee sulla schiena;
come le unghie delle occasionali.
Che il colore della pelle cambia se si spinge.
Che c’è qualcosa che non torna.
Nelle parole-Giungla dei bar e delle accademie.
Sturridge è nero ma quando fa goal
a Liverpool,
si alzano in piedi e gridano di gioia.
Non sono neri ma è come se lo fossero.
Non sono negri ma hanno i denti bianchi.
La maglia dei reds è un globalizzatore.
Gengis Khan era un globalizzatore.
Non sono.
Non ho.
Alle fermate del tram
in giacche e cravatte.
Intorno alle gonne, nelle scarpe.
La vita è anoressica.
Mentre l’abbondanza dei prodotti
fa obesi gli scaffali del supermercato.
Manca di eventi emotivamente appaganti
oltre al solito viavai di stressecose.
Un leone che visita uno zoo
tira noccioline a un turista chiuso in gabbia.
Ha pietà di lui.
Ha pietà di se.
L’inversione del ruolo
ha l’inaspettata drammaticità
d’una giustizia sommaria:
(il turista è animale, il turista è condannato a essere animale)
mentre venti di mutamento soffiano da Nost
direzione di provenienza imprecisata.
Poesia-giungla.
Piante pioniere e fitto intreccio di liane.

E ogni padre sta li
che invecchia e fa finta di capire.
E il cuore è lì
complicato ritaglio di cronache.

Anche l’amore è giungla.


Klambratun

Questa eternità
così piccola da trovare spazio
così grande da non trovare spazio.
Questa eternità
quando al mattino ti guardo.
Così buca che basta un passo per finirci dentro.
E non uscirne più.
Il destiny del dreamer
imbrigliato in dolci corde
come un Prevert in fila alle poste.
Sperando che finisca e non finisca
la carta per le lettere
l’inchiostro
la malattia d’amour
un altro posacenere
di cenere e sorrisi.
L’eternità.
Che mi chiedi di smettere.
Che non riesco a smettere.
Il gatto che dorme.
Nostro figlio che piange.
L’eternità.
Una piccola cosa.
Piccola.
In una buca.

Tante cose inventate.
Come...;
Klambratun.


 Cadenti

Un grande cataclisma.
Il cielo.
Le stelle s’ammazzano per un posto in prima fila.
Brille ed eleganti.
Ai portentosi occhi delle liceali
portate culo a spasso dalle cabriolet dei porci.
Ai buchi neri dei vecchi
zeppi di ricordi e di stampelle.
Reggi l’anima, reggi gli ossi.
La via lattea è corretta col rum
quando si spera che ne cada una.
Ogni agosto la stessa fregatura.
Dei dieci desideri scarpa di cristallo
l’unico possibile: l’amore.
Chiamarlo amore: ma forse tutto quello che si muove.
Qualche calcio di luce
mentre dormi sulla sdraio.
Zanzare in frac affamate davanti al botteghino del teatro.
Cocktail di caviglie Martini rosso sangue.
Noi senza attributi.
Attaccati alla spina del cosmo.
A rubare corrente.
Da fili di sogni.
Un giorno più vicini alle nuvole.
Cadenti.
Caduti.


Bambole d’amore

Che forse non siamo carne?
Io.
Te.
- Come gli altri -
O polvere di spazio.
Caduta da Marte.
Gioca con due bambole.
Sul pontile del lago (Kleifarvatn).
Il saldatore lo immagina una femmina.
Lo urla al villaggio.
Di urla.
Strappate da me.
E bambole.
Nell’acqua senza testa
affogate nel retro d’una Cadillac.
Con un padre che guida impestato.
La Bibbia in una mano
l’odio nella scarpa.
Diventa uomo.
Figlio mio.
Godi come un maschio.
Quindi a volare su un prato.
Le maglie rosse
con il colletto bianco.
Le Tattiche sulla lavagna.
Un bordocampo fiero per i gol.
Davanti a tutti.
Bacia il suo compagno sulla bocca.
Che forse non siamo stesso amore?
Io.
Te.
- Mi portano via i pregiudizi -
Non il vento.
Così scrive.
- Le nostre Bambole ti lascio -
Tuo.
Per Sempre.
Così scrive.

“Ieri a Testaccio s’è ammazzato un frocio”.
Dice il giornalaio.


Faffalle Affabeti

Derive del mare in agosto.
Noci di cocco a tonfo e gusci a terra
gli sguardi tra i banani alle turiste svestite dei costumi
i balli di strada e le preghiere dal cielo al contrario che al cielo.
Gli autodidatti se ne fregano delle regole del villaggio vacanze.
Hanno imparato a viaggiare da soli.
Sovvertire.
Ombrelloni e bagnini.
Autodidatti dell’acqua.
Le branchie spontanee sul collo
fottendo ossigeno a Route 66 e Harley Davidson
alle bocche sui muri
ai rami di alberelli.
Nelle aiuole nelle aule.
Lungo i cortei.
Sanno come fare innamorare una donna.
Goderla e picchiarla.
Scoparla ogni tanto per azzerare la ruggine.
Verniciarla di nuovo per metterla all’asta.
Autodidatti d’amore.
Sbagliano a scrivere amore nelle lettere alle fidanzate
a colpe di madri e di maestre
a colpi di lingue sui denti.
Confusi sul senso di amare.
Se accontentarsi.
Scommettere.
Ricapitolare la vita, prendere un taxi, sparire a Cuba.
Sbagliano a parlare;
Faffalle affabeti
complicanze da partenze lineari
che sembrano infilare sogni alle collane
e finiscono in fogne
in grolle
dentro sterrati
alzando polvere di ruote
dietro il culo di un’ombra
una qualsiasi
basta che sia ombra.
Ma sanno contare le stelle
succhiare caramelle
perdere occasioni.
Ritrovarle.
Correre al mille.
Frenare di botto.
Col tempo dettaglio e un ventaglio per il caldo.
Volanti scintille
da carboni paleolitici a corde di chitarre.
Fino a steccare le note.
Alterare i suoni dei flauti.
Stroppiare le lettere ai nomi.
Faffalle.
E Affabeti.
Insegneranno a campare questi errori di pronuncia.
Sicura come il pane la logopedista.
A amare l’imperfetto.
Non correggerlo.
Un linguaggio è un linguaggio.
Le grida di contatto dei pinguini all’acquario di Genova.
Sono un linguaggio.
Le pistole nelle fondine.
Le cravatte di seta.
I disegni dei bambini.
La coda.
Che scodinzola.
Gli autodidatti del fuoco sopra la graticola.
Bruciano da soli in camere d’albergo.
Vanno in overdose nelle stazioni.
Fanno rapine alle poste.
Scontano anni di galera.
Quando è troppo tardi.
Chiedono scusa.
Faffalle.
Affabeti.
Matita rossa sul compito in classe.
Zero in condotta.
Autodidatti.
Ma vivi.
Oltremodo.
Sbadati.
Oltremodo.
Rimandati a settembre.







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