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martedì 23 settembre 2014

ROBERTO MESTRONE SU "SORTE" DI PASQUALE BALESTRIERE

RIFERIMENTO ALLA POESIA "SORTE" DI PASQUALE BALESTRIERE SUL MESE DI SETTEMBRE DEL BLOG

Roberto Mestrone collaboratore di Lèucade
Da PASQUALE   BALESTRIERE
“ SORTE” 
Una chiave sociologica di lettura


Sorte

Non c’era alcuna prova dell’inganno
d’un dio o di maldestra creazione.
Così almeno ci parve
e perciò ci sedemmo sulla terra
e ci scambiammo le pietre di sale
sulla riva di un mare senza onde.
Di cavalcare i giorni ci fu dato,
d’accarezzare la cresta del sole
e di bere alla fonte dell’amore.
Che ci piovesse argento poi la notte
fu la scoperta che ci diede fede
per correre le strade della vita
con maggior cuore. Avidi attraversammo
esplose primavere, con il grido
del falco appeso nell’azzurro, fisso
alla preda lontana. E già la ruota
cominciava a piegare ad occidente
quando qualcuno spiegò che il viaggio
non era interminabile. A galoppo
passammo per le ore, i mesi, gli anni.

Dietro le curve spalle,
grappoli fitti d’accese memorie
il passo corto dissero del tempo
-il nostro tempo!-
con seni d’ombra e fiati di preghiera.
Ora che l’orizzonte
dispiega flebili speranze e mostra
l’incerta meta, ci assale l’infanzia
con rosei gridi e vivide memorie:
quelle della famiglia e degli amici
dispersi ormai sopra e sotto la terra.

Pure, vivemmo a lungo.

Anche se questa sorte è apparsa breve.

Pasquale Balestriere
Sul sentiero di questa suggestiva lirica di Balestriere mi spingo oltre il percorso di una vita delineata con rara maestria: assisto alla lunga e travagliata vicenda dell'Umanità, dai candidi primordi ai contaminati giorni nostri.
E colgo, già nei primi versi, la lucida sintesi del pensiero di quei filosofi, antropologi e sociologi che, con l'incedere costante di accorate profezie ammonitrici, esaltarono il mito del Buon Selvaggio assegnando ai nostri antenati il merito di aver praticato per secoli il comunismo primitivo, immune dalle fallaci promesse del Progresso.
Nessuna “prova dell'inganno d'un dio o di maldestra creazione” assillava il cavernicolo, volto a barattare “pietre di sale sulla riva di un mare senza onde”.
Conscio di riuscire ad “accarezzare la cresta del sole e di bere alla fonte dell'amore”, l'uomo si ingegnò poi ad esplorare nuovi orizzonti abbandonando  tribù e riti propiziatori: “con il grido del falco... fisso alla preda lontana”, iniziò ad accarezzare sogni di potere brandendo le armi del terrore e del sopruso celate nei carri trainati dai cavalli, posate sui bracci delle catapulte, fissate sulle torri dei carri-armati o tra ali dei velivoli da guerra.
Non fu più pace: i popoli innalzarono barriere e il dio dei deboli fu soggiogato dal signore dei più forti. 
Ma non tutto andò perduto: creature dalle menti illuminate ci insegnarono che “dietro le curve spalle” della Società sono appesi “grappoli fitti d'accese memorie” che attenuano - “ con seni d'ombra e fiati di preghiere” - gli insidiosi malefici celati nelle pieghe del tempo.
E anche quando “l’orizzonte dispiega flebili speranze e mostra l’incerta meta” sono le virtù di un passato più presente che mai a illuminarci la strada da percorrere quotidianamente: i nobili valori dei buoni padri, “dispersi ormai sopra e sotto la terra”, ci inseguono come l'ombra dei nostri passi, e assumendo le sembianze di “rosei gridi e vivide memorie” spronano ogni creatura a “per-correre le strade della vita con maggior cuore”...

 Roberto Mestrone


2 commenti:

  1. Ringrazio Roberto Mestrone per l'impegno durato sulla mia lirica e connotato da un'attenta lettura antropo-sociologica che ha aperto interessanti scenari esegetici. Un testo poetico deve sempre avere nella sua essenza una potenzialità polisemica che dà vita a una pluralità interpretativa. E Mestrone, con il pezzo sopra riportato, ha efficacemente dimostrato questo assunto.
    Grazie ancora.
    Pasquale Balestriere

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  2. Echi rousseauiani emergono in questa intensa lirica di Pasquale Balestriere: Rousseau e il mito del “buon selvaggio” secondo cui l’uomo, nello stato di natura, è buono, ma diventa malvagio passando a quello civile e sociale. Già, perché civiltà significa moltiplicazione dei bisogni, e quindi agitazione e inquietudine per soddisfarli, che sfociano nel malessere, nella corruzione, nella lotta. Lo stato di natura, invece, è quello dell’innocenza e della felicità, è quello stato in cui l’uomo, per dirla ancora con Rousseau, è ancora così come è uscito dalle mani del Creatore, cioè buono, ma poi, con la cultura, le scienze e le arti, è, per sua stessa colpa, degenerato. “Non c’era alcuna prova dell’inganno / d’un dio o di maldestra creazione”, esordisce infatti il poeta, per cui “di cavalcare i giorni ci fu dato, / d’accarezzare la cresta del sole / e di bere alla fonte dell’amore”. Ma poi tutto degenerò: “Avidi attraversammo / esplose primavere, con il grido / del falco appeso nell’azzurro, fisso /alla preda lontana”. Tuttavia, pur se la speranza è flebile, essa non è morta e ricompare nel ricordo di un’infanzia che assale “con rosei gridi e vivide memorie”, come si può leggere nei versi finali, nostalgicamente rivolti a quell’età felice, che ancora sta a illuminare il cammino dell’uomo. Intensa lirica, dunque, e profondamente attuale, che fa molto riflettere sui tanti mali che affliggono l’odierna società, che il poeta ha saputo ben trattare in una ispirata composizione (un polimetro di endecasillabi e settenari) caratterizzata da un linguaggio curato, molto fluido e musicale, con sapiente uso della metafora.

    Vittorio Verducci

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