Poesia
generosa e polisemica questa di Rosanna Di Iorio, i cui versi con estrema
duttilità, e con resa metrica, riescono ad aggrapparsi alle ondulazioni emotive
sempre pronte a voli di tensione orfica e di proteiforme introspezione umana.
Il tutto si dipana su un endecasillabo vario e articolato che accompagna il
dettato poetico con notevole euritmica musicalità. E qui la natura, vissuta con
vertigini paniche, fa da ancella nel concretizzare con le sue icastiche visioni
gli input emozionali e riflessivi. Versi che scorrono, anche, oltre la prosodia
tradizionale, terminando ora con
articoli ora con preposizioni a significare l’importanza dell’uso degli
enjambements nella narrazione, e la necessità di dire, e di affrancarsi da
parte della Di Iorio dai suoi gorghi interiori. Un vero volo, che, partendo dai
riferimenti di un minimalismo quotidiano, o dagli affetti più sacri, spazia
attraverso orizzonti di illimitata profondità verso la Bellezza del Poièin.
Nazario Pardini
SI DIPANANO LE OMBRE LENTAMENTE
Si dipanano le ombre
lentamente
di fronte a questo mare
dove tutto
è lucido e splendente
questa notte.
L’anima piano piano mi
diventa
leggera come piuma e poi si
lascia
dondolare dal vento assieme
all’erba,
alle foglie e ai petali
residui
dei fiori spenti della
morta estate.
Ed io vado lontano nella
notte
a cercare me stessa,
raccordando
il mio cuore col ritmo del
silenzio.
Fuori dalla finestra si
indovina
il mare col suo lento,
spumeggiante
andare dentro questo golfo
blu.
Un veliero barcolla
leggermente
aspettando il mattino per
salpare.
SPIEGA L’ALA LA NOTTE
(per la donatrice di cuore)
Spiega l’ala, la notte. Ma non più
per te. Per te si è chiusa ogni stagione.
Mi brucia dentro ancora la memoria
di sospirate tue chimere e
mi piangono negli occhi tue disperse
gioie di mamma giovane. Di donna.
Sento voci che chiamano te ancora.
Non distante la riva col suo pianto.
Il borbottio della memoria corre
indietro nella polvere e frammenta
virgolette di carta sulle mie
mani. Se vuoi lascia fluire, Fiore,
sui miei specchi il sorriso delle spighe
nei campi e la rugiada sulle rose.
La parola si spegne sulle mie
labbra. Non è mai facile per me
afferrare di nuovo la magia,
la santità – o il sortilegio? - di
quel giorno abbandonato nel passato
con il tuo cuore diventato il mio,
che apriva un nuovo sole all’orizzonte.
E siamo insieme. A misurarci questo
infinito parziale di silenzi
da quando un vento avverso ha cancellato
il tuo tempo. Ma non è stato facile
entrare nei tuoi battiti, intonare
il mio respiro al tuo; alla pacata
essenza delle tue pulsioni che
io non conosco e mai conoscerò.
Si spegne la parola sulle mie
labbra. La mente cerca di deviare
il pensiero. Mi sfugge dalle mani.
Urla sgomenta il suo dolore, ancora.
Incredulo che il tuo tenero cuore
batta soltanto nei miei giorni. E
sento
le nostalgie al posto tuo e
vedo
la tua mano che s’alza
verso il cielo
come un bisbiglio timido nel gesto
di un addio senza tempo. Indefinito.
E non riesco a ricacciare più
la lacrima che prepotente vuole
posarsi sul mio palmo che l’aspetta.
Così consumo in quest’ultima notte
d’emozione il tuo sonno. E mi domando
fino a che punto il tempo sarà in grado
di riparare i miei mattini presi
in prestito al tuo sole: così muti,
fragili. Trascinati tra oblio e vita.
PRIMO AMORE
Ti ho rivisto quel giorno
sul sagrato
alle tue nozze tra commossi
applausi
e lacrime indossate per la
festa.
E fra distanze e verità il
tuo sguardo,
rimosso appena da cortine
d’anni,
mi carezzava il volto di
nascosto
per farsi riconoscere: eri
tu.
E quel gesto vezzoso del
passato,
che aveva fatto presagire
spesso
un invito furtivo per
godere
un attimo soltanto del
rapace
tuo calore, mi ha preso. Ed
i ricordi
sono corsi veloci
accompagnati
al pianto soffocato nel
cuscino,
e sospiri dispersi come
piume,
seguendo i dolci versi di
Prevert.
Ti ho amato allora. Solo
per amore.
Senza promesse ma ignorando
sempre
pregiudizi e veleni. Ho
amato in te
il sogno; la canzone un po’
ruffiana
che accendeva nel cuore la
passione
e un desiderio, ancora
ignoto ai miei
acerbi quindici anni
innamorati,
che non mi permetteva di
capire
perché io amassi te, e così
tanto.
Ora questi perché sono
lontani.
I ricordi son fiori senza
odore
che tornano così
benevolmente.
Si fermano un istante
dentro il cuore
immaginando ciò che non è
stato:
quei baci improvvisati nel
cortile
mentre dalla finestra le
parole
di una puntata de LA
CITTADELLA
suggerivano nuovi
appuntamenti
che lì, nel sogno restano.
Ma adesso
se col tuo sguardo cupo mi
cercassi
tu non mi troveresti a
quella festa.
Ti ho visto solo nella
fantasia:
mia giovinezza mai
dimenticata.
LA VITA È UNA
PREGHIERA
Noi, poveri smarriti,
sempre in marcia
verso il domani tesi nelle
nostre
paure ad inventare altre
preghiere
con filtri nuovi e
diversificati
in attesa di compiere la
vita;
noi veramente dove andiamo,
soli,
nell’orrido frastuono del
silenzio?
Maleducati angeli con
sprezzo
sputano sopra il nostro
claudicante
cammino. Sopra i nostri
cuori scabri
di chiodi per fissare la
miseria
che incontriamo per strada
e che ci abitua:
Guerra. Fame. Disastri.
Morte. Pianto.
Degrado. Orrori: confusione
assurda.
Popoli in fuga con occhi di
pioggia.
Occhi di bimbi che mai
hanno giocato,
turbano il nostro giorno
capovolto
in cieli atemporali. Non si
tiene
l’esistenza con l’anima
ingiallita!
Noi, poveri smarriti, in
marcia verso
sconosciuti futuri o
inesistenti
per infrangere il torbido
silenzio;
aprire il cuore ad una
nuova aurora,
un futuro d’amore ora
scordato;
chi siamo, cosa avremo per
scaldarci?
Nuovo tepore schiarirà
coscienze
ci porterà, abbracciati, a
coltivare
l’amore, un variopinto,
profumato
fiore sofferto di felicità:
Che nevichi, diluvi o
splenda il sole.
Perché tutta la vita è una
preghiera
che rivolgiamo al nostro
Creatore
perché ci faccia vivere
felici
e in buona compagnia.
Quando non c’è
questa premessa di valore allora
vivere non è vivere. E’
passare
fra le due sponde di un
abisso oscuro.
Senza capire quello che si
fa.
NON C’E’ PACE
NEL TUO FRAGILE CUORE
Non c’è pace nel tuo
fragile cuore.
Ogni giorno una ruga scava
a sangue
l’ovale del tuo volto e ti sospinge
dentro un inverno inedito
che oscura
coi suoi non sopportabili
tramonti
e geli che scolorano
speranze.
Curva, ti senti scivolare
in un
torpore, un vuoto inabitato
con
una bisaccia torva a mezza
spalla
che ti atterrisce. Mentre
intorno a te,
burattinai in maschera - talvolta
burattini pentiti per la
strada -
ti bloccano il respiro.
Perchè hanno
scordato l’avvolgente,
primordiale
calore delle loro
adolescenze.
E non hanno saputo
rintracciare
sul loro cuore indocile, la
lieve
carezza delle morbide tue
mani.
Un silenzio invischiante
adesso grida
nell’aria come un lugubre
lamento
e si fa controcanto per
cercare
di richiamare a sè un
provvidenziale
domani che si affacci alla
tua porta.
Poiché tu credi ancora nei
prodigi,
nei miracoli, nella buona
stella.
Ti siedi assorta e rivolgi
le spalle
stanche all’ultima luce del
tramonto.
E ti chiedi che farne del
fortuito
quadrifoglio spuntato in
fondo al tuo
giardino sotto l’ombra
dell’acacia.
ANCHE STASERA MI RITORNA IL TUO
Anche stasera mi ritorna il tuo
urlo nella memoria, antico, madre.
Per astrazione o rinverdendo l’eco
di compunti racconti di comari
di quel giorno ventoso di febbraio
in cui venni alla luce non da tutti
attesa, ma trovata. Come a caso.
E tu, sconvolta dal delirio di
mio padre, il nostro uomo che gettò
la mia apparizione fra i rifiuti
e mi volse le spalle, consacrasti
la recente tua piuma dilaniata
ai margini di un sogno violentato.
Eppure hai proceduto fra le pietre
e il sangue. Ed hai puntato tutto il poco
che possedevi miserevolmente
per un pane sfornato tempo addietro.
Mite, elemosinando in un sorriso
operoso calendule di carta,
hai voluto tuffarti con timore
in una ruga di una roccia senza
mai domandare nulla. Silenziosa.
E ti rivedo ferma nella tua
fabulazione silenziosa, fatta
solo di gesti, certamente in attesa di un Godot tuo personale.
Mentre in ginocchio conduco i miei giorni
spigolando poesie, dolci farfalle
fra i miei ricordi timidi e mi chiedo
perché nel tempo la felicità
gela, seppur compunta, le sottili
pagine dei tuoi anni e dei miei giorni
ancora senza volto. Orfani amari
di sentimenti. Senza storia. Senza
te che da tanto tempo sei passata.
PRIMA UN BOATO
(6 aprile 2009)
Come sono basse oggi le nubi.
Tutto spezzato, ucciso, capovolto
sotto il segno dell’ariete. Con rottura.
Case, chiese, scuole
su una roccia in pendenza hanno paura
come tant’altre di precipitare.
Dalla polvere un cane ulula fermo,
categorico e breve il richiamo
al suo padrone. Non è felice di
ritrovare al mattino intorno a sé
un cielo nero e polveroso.
Io
piango.
Grido sui passi spenti dei fratelli
miei poveri d’Abruzzo.
E prendo la mia terra nella mano,
calpesto la sua nebbia, ne raccolgo
le parole perdute, una bambola, un sospiro
che reclamano la vita.
Tu non sai: quelle case, quelle chiese,
quelle fonti, quei pascoli, quei curvi
lampioni - anche se spenti -
- tra queste ore lente -, quelle valli,
quei monti, quelle lacrime, quei morti!
Sono le nostre luci, i nostri cuori,
nostri unici spenti segnalibri.
Perché ci sono nella vita cose
che si possono capire
solamente in ginocchio.
DALLA COPPETTA DELL’APERITIVO
Dalla coppetta dell’aperitivo
l’oliva adescatrice civettuola
mi chiama e non riesce a stuzzicarmi.
La nebbia che veleggia sul Naviglio
non nasconde il grigiore della mia
lacerazione. I fantasmi della mente.
Bacio mani e parole che mi porgi
mentre affondo in un cielo smarginato.
Non mi chiedi perché io sto piangendo
e non ti offro il calice di vino.
La routine non ci sorprende più.
Tu non ti avvedi, dolce amore mio,
dell’equilibrio finto che ci passa
accanto. La vertigine dell’ombra
che gravita sul cuore della terra
e il vuoto immenso che lambisce e poi
cattura la miseria delle nostre
anime. I nostri nomi prigionieri.
Lentamente ci scivola alle spalle
la pallida indulgenza della sera.
Così ci dileguiamo. Clandestini.
Nel tempo.
ALCUNE POESIE INEDITE
UNA RAGAZZA
ALLO SPECCHIO
UNA SERA DI SETTEMBRE
Nelle serate torbide d’autunno
s’impara ad accostare piano piano
le porte delle stanze addormentate
dove non si dovrebbe entrare più.
Nello specchio si affaccia la ragazza
che di nascosto esercitava il suo
febbricitante corpo nello specchio
a mettere il vestito della madre,
ancora stanco di profumi forti
e di odori di corpi attraversati
da sapori e deliri della notte.
Poi voltandosi mostra una figura
che si piega in avanti con tremore
come a volersi opporre a una ventata.
Ma vento sulla scena non ce n’è.
Come dopo l’amore nelle ore
vuote del pomeriggio. Oppure come
quando si pensa a un viaggio che alle spalle
non lascia traccia alcuna. A questo punto
sono più i giorni attraversati intanto
che quelli che poi restano. E qualcosa
li sta riempiendo lentamente. Come
l’assordante frinìo della cicala
che sottovoce cantilena ai piedi
della vallata dietro i nostri volti,
le nostre ombre opache, i sentimenti
che scorrono atterriti, disattenti
lungo il sentiero senza suono solo
con passi lievi inesistenti. Quasi
come un nonnulla.
NUMERO
QUATTROCENTOOTTANTATRE’,
MASCHIO, FORSE APPENA TRE ANNI
MASCHIO, FORSE APPENA TRE ANNI
Tu non c’eri tra le onde
quella sera
mentre si scatenava la
bufera.
No, tu non hai provato la paura,
il gelo che l'assenza di una luce
nelle viscere getta al fuggitivo.
No, tu non hai provato la paura,
il gelo che l'assenza di una luce
nelle viscere getta al fuggitivo.
Tu non eri nel panico,
travolto,
alla ricerca ostile di un riparo
improbabile col passar del tempo.
alla ricerca ostile di un riparo
improbabile col passar del tempo.
Non hai visto le mani
disperate,
bagnate e gonfie
sussultare, uscire
sotto la pioggia dell’Indifferenza,
di un mattino feriale uguale ad altri
e dove un nome è un nome e niente più.
sotto la pioggia dell’Indifferenza,
di un mattino feriale uguale ad altri
e dove un nome è un nome e niente più.
NUMERO
QUATTROCENTOOTTANTATRE’,
MASCHIO, FORSE APPENA TRE ANNI
MASCHIO, FORSE APPENA TRE ANNI
In riva tanti corpi e
poche facce
ancora calde nel precario
stato
tra la vita e la morte. Tu non c'eri.
tra la vita e la morte. Tu non c'eri.
Tu eri dentro l’angolino
d’ombra
tranquillo, e cavalcavi le
stesse onde,
gli intrecci. Sotto un sole
illuminato.
Oggi anche gli uccelli,
indaffarati,
ai tralicci non sanno cosa
fare.
Mentre tu
sempre là nel tuo cantuccio
sospeso aspetti
il seguito di un sogno
con carovane
misere che vanno
lentamente in
attesa di una Voce
Come Odisseo per
cedere Speranza.
Una voce che circola
dabbasso,
il volto nudo senza mai
vergogna
e che nasconde il sole tra
le pieghe
dell’Incoscienza. Come
sempre. Vaga.
Inutilmente vana. Come
sempre.
E dici che non è successo
niente.
Eppure sai che le sirene
non
sanno cantare più. Ma non fai niente.
sanno cantare più. Ma non fai niente.
LA VOCE DELL'AMORE TRA LE MANI
(per una mamma non udente)
Ho visto le tue mani farsi voce
e gridare nel vento. E sulla fronte
fili di seta bianca, riluttanti
sfidare oltre le stelle, l’Universo.
Ho visto nei tuoi occhi sempre ardenti
fiumi di luce mite e imperativa.
E il pensiero si lega al gesto, il segno
al senso. Senza mai nessun bisogno
di inventarsi sirene. La dolcezza
delle tue dita elastiche e sottili
come un tam tam percuotere il silenzio
e farsi canto di contralto. E d’ombra.
Quanta forza nel fondo, senza orecchi
per udire la voce di tuo figlio
che solitaria canta nel tuo buio,
che non riesce a vincere il silenzio,
ma lieve sfiora le tue labbra mute.
Forse bisognerebbe saper dare
di più. Vorrei poggiare le mie mani
sullo schermo magnifico del cielo
vivendo sempre in questo mondo
ostile,
così placando con la mia passione
la tua feroce dissonanza e darti
una rosa del mio muto giardino.
Perché io amo i balsami segreti
delle tue mani che sanno attenuare
le mie pene del vivere. Le tue
celesti dita che sanno cantare
sulle mie gote canti di innocenza.
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