Una riflessione su "Il Bandolo"
Condivido il
pensiero di Claudio Fiorentini, laddove sostiene che, al di sotto del sistema
dominante fatto di strepiti e di massificazione, si muove un'umanità ancora
viva ed una cultura verace cui bisognerebbe dare più spazio ed offrire maggiori
attenzioni. Sarebbe l'unico modo per uscire dalla palude, superando le sabbie
mobili di quel pensiero moderno, e ancor più postmoderno, giunto alla
dispersione di ogni umanesimo e all'espulsione dell'uomo dalla scena principale.
Ogni processo
culturale presenta una curva parabolica. C'è un momento iniziale, di grande
fervore innovativo, cui fa seguito una flessione del pensiero, un suo
conformarsi alle intuizioni sorgive, ripetendole a pappagallo, senza più guizzi
creativi. E' il manierismo in cui cade inevitabilmente ogni intuizione sorgiva.
E' la mitologia che prende il sopravvento sulla mitopoiesi, la decadenza
inevitabile che fa seguito ad ogni fioritura di civiltà. Va da sé che non è il
mito in sé ad esaurirsi (il mito non si deteriora), ma è l'intelletto dell'uomo
a flettere, non riuscendo più a reggere quell'alta tensione morale.
Per queste ragioni
ritengo che la cultura postmoderna debba esser vista come il declino della
modernità. Non c'è divario tra le due
epoche, ma continuità. Le differenze
sussistono, indubbiamente, ma non c'è cesura
tra i due momenti storici, bensì consequenzialità.
Non sto parlando, sia chiaro, di uno sviluppo lineare, bensì di un percorso
parabolico dove il pensiero postmoderno, manieristico, viene a concludere la
fase eroica e mitica della modernità.
Intendo dire che la
necessità del declino era già nelle formulazioni originarie, nelle premesse del
pensiero contemporaneo, nato tra la fine del Diciannovesimo e l'inizio del Ventesimo
secolo, con l'avvento di quella cultura novecentesca
destinata a dare scacco matto al pensiero razionalistico precedente. Il
postmoderno pertanto non deve esser visto come un rinnegamento, o una
deviazione delle intuizioni originarie del Novecento, quanto piuttosto come un
logoramento di esse, una fine del tutto naturale e prevedibile.
I fuochi ideali del
secolo scorso ruotarono indistintamente intorno ad un mito: quello della fusione Io-Mondo. E ciò in antitesi con il
pensiero-guida della precedente cultura razionalistica, dominata invece dal
principio della distinzione tra i due
poli. Non è questa la sede per analizzare le varianti culturali avvicendatesi
nella storia del Novecento in nome di quell'ideologia della fusione, ma ciò che qui preme ricavare è
che in quell'ideologia c'è già il seme della massificazione che affligge l'attualità.
Ovviamente c'è il
rovescio della medaglia, e a questo lato negativo si deve contrapporre il lato
positivo del vitalismo, della sferzata di fresca energia con cui la cultura
contemporanea ha spazzato via l'intellettualismo antico. Con il passare dei
decenni, tuttavia, il desiderio di aderire alla vita, così tipico della cultura
contemporanea, ha finito per trasformarsi, facendo emergere il lato oscuro
dell'adesione stessa: la trappola con cui la vita assimila gli esseri,
rubandoli a se stessi ed eliminando la loro identità.
E' questa,
sostanzialmente, la crisi in cui oggi viviamo. Il progetto iniziale era
diverso, era buono, ma noi ci siamo gettati nell'avventura, come al solito, non
calcolando i rischi della delicatissima impresa. Così l'omologazione dei nostri tempi, il cosiddetto villaggio globale, il pensiero unico a livello mondiale, si sono rivelati
figli di quel progetto di fusione dell'uomo
con il mondo che troviamo alle origini del rinnovamento proposto dalla
contemporaneità.
Si tratta di un
progetto di massificazione, di aggregazione, tendente al totalitarismo,
all'univocità. E dunque all'omologazione,
senza alcun rispetto per le singole identità. Questa è la crisi del mondo
attuale: una crisi prevedibile, a parer mio, considerate le premesse
fagocitanti della tipologia di vitalismo che abbiamo voluto creare. Vitalismo
che, dopo una prima fase trionfalistica, ha ceduto il passo ad un movimento
depressivo di proporzioni inarrestabili.
E allora che fare? Di
fronte all'aridità del mondo d'oggi, sono in molti a rivolgere le proprie
attenzioni al passato, ai padri della modernità per l'appunto, nella speranza
di poter ritrovare la spinta di un cammino che in realtà è già stato compiuto
integralmente ed ha condotto nel punto in cui siamo arrivati. Altri, ancora più
nostalgici, pensano di poter rinnovare addirittura i fasti
dell'intellettualismo antico, inciampando nelle panie di una non meno rigida
aridità.
Non si può opporre
al mito della fusione dell'uomo con
il mondo, il mito della distinzione
con cui si è andati avanti nei secoli passati, dominati dall'antropocentrismo
umanistico. Oggi occorrono miti nuovi. Non possiamo rispolverare quelli
antichi, né possiamo vivere privi di sogni, addormentandoci nello squallore
della quotidianità. E allora occorre fare silenzio, dedicarci all'ascolto
profondo, lasciando che siano i sogni a parlare, i fuochi interiori, gli
archetipi di sempre, capaci di incarnarsi in ogni tempo e luogo per rinnovare
dal profondo l'umanità.
Quel che oggi
occorre è scoprire differenti tipologie di aggregazione,
di condivisione, di unità: un senso comunitario del vivere
non più fondato sulla fagocitazione, ma sullo scambio; non più fondato sulla
dialettica pretestuosa e prevaricatrice, ma neppure sulla presuntuosa e sciocca
assertività. Occorre fare spazio al dialogo sobrio ed autentico, a partire da
quello che ogni singolo può tessere all'interno di se stesso, per poi
estenderlo ad altri fuori di sé. Ed è il linguaggio tipico dell'arte, un
linguaggio che si forma nei territori del silenzio, al di fuori della retorica
e del narcisismo, unicamente per cogliere il senso ed il cuore profondo dell'umanità.
Sono questi gli obiettivi
che il nostro manifesto culturale, "Il Bandolo", persegue. Un nuovo
umanesimo, che non faccia riferimento al passato, alle opere del passato
(libri, monumenti, musei, e via dicendo), ma che faccia riferimento
all'interiorità, ai valori nascosti ed autentici, agli archetipi universali,
alle essenze. Un umanesimo interiore
da cui far nascere nuovi sogni e nuovi miti, nuova umanità. E sarà una cultura
innovativa, che nel tempo diverrà certamente obsoleta, ma dalla cui usura
nascerà ancora, come sempre, l'urgenza di rinnovare, di proporre nuove stagioni
di civiltà.
Franco Campegiani
Trovo che il percorso speculativo di Campegiani sviluppato in questa pagina sia illuminato, solido e condivisibile. Io integrerei il suo concetto di umanesimo -che, è chiaro, non può assolutamente prescindere da una interiorità pensosa, attiva e responsabile- con la ricchezza affettiva e poetica, storica e culturale che ci viene dal passato: perché il passato, oltre che "libri, monumenti, musei", è rappresentato da uomini in carne ed ossa- i nostri padri o "maiores"- che hanno vissuto e sofferto, che hanno comunque fatto un cammino di civiltà, che ci hanno tramandato in eredità saperi e conoscenze fondamentali e della cui esperienza non mi pare il caso di fare a meno, perché potremmo pure ritrovarci senza radici e punti di riferimento. Il passato è storia di “humanitas”. Nello stesso tempo però l'uomo d'oggi non può evidentemente dipendere dall'autorità degli antichi ma, acquisiti (anche dal passato) gli strumenti del pensiero e le conoscenze necessarie, deve piegarsi su se stesso e interrogarsi sull’esistenza, scegliere la propria strada, seguirla nella massima libertà possibile. Costruire, cioè, la propria vita. La vera scienza non può mai basarsi su un autolesionistico ripudio del passato, ma neppure può assumere l’insegnamento che ci viene dal mondo antico a principio di autorità, a "ipse dixit"; giacché tutto deve essere passato al vaglio della verifica e della riprova. In piena maturità di giudizio.
RispondiEliminaPasquale Balestriere
Trovo giusta questa osservazione e ringrazio l'amico Pasquale. Purtroppo però esistono anche padri degeneri, e la nostra generazione in buona parte lo è stata, se i risultati sono quelli che vediamo, di una sostanziale e deleteria inciviltà. C'è da sperare, in questi casi, che i figli non imitino i padri. Che sappiano ricollegarsi, più che al passato, all'uomo di sempre, all'archetipo "uomo" che vive fuori del tempo. Alle radici spirituali che ci vivono dentro e che in continuazione darebbero nuove gemme e nuovi frutti, se noi non interrompessimo questa naturale continuità. Bisogna tornare a far si che il frutto ed il seme siano l'uno nell'altro; che i padri siano nei figli, e viceversa, senza sforzi di emulazione, ma semplicemente essendo se stessi, in assoluta indipendenza e libertà.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Concordo perfettamente perché, caro Franco, con il temine "passato" intendo significare appunto quello che tu chiami "archetipo uomo", l'identità umana e l’eredità culturale -spesso male interpretate- che ci connotano, che scorrono nel nostro sangue e impregnano la nostra mente - cose vive, ardenti, libere, generose di sé e, oserei dire, "democratiche", se non temessi di essere frainteso-. L'uomo che io dico cerca di riagganciarsi alle origini, diventa esploratore di se stesso, è sempre sulle tracce di verità e giustizia, libertà e bellezza. E coltiva l'amore come bene prezioso. Senza indietreggiare. Per questo può stare degnamente nel presente e, fidente, progettare il futuro.
EliminaPasquale Balestriere
Ebbene sì, essere se stessi in assoluta indipendenza e libertà, inseriti nel nostro spazio e nel nostro tempo. Questo bellissimo dibattito nasce proprio da alcune parole di Tronti che, come tanti, troppi pensatori, trova stimolante parlare dei tempi andati trovandoli migliori. Il punto è che il Passato è già storicizzato, e il Contemporaneo ancora no. Noi siamo il Contemporaneo! E non mi va di pensare che passeremo alla storia come quelli che non hanno combinato un granché perché incapaci di adattarsi alla rapidissima evoluzione di ciò che ci circonda. Noi abbiamo solo il nostro tempo da vivere, altri hanno vissuto il passato. Per questo occorre rivendicare il ruolo che abbiamo nella società. Le nostre parole, i nostri atti, le nostre idee sono un seme di storia. Per questo è importante agire, pensare, fare qualcosa essendone coscienti. Se il passato viene visto come qualcosa di migliore del presente, noi che siamo il presente siamo dei grandi cialtroni. Sta a noi vivere questa situazione come un fallimento, o come l'opportunità di seminare nuove idee.E forse, quando Tronti si chiede dove sono i grandi pensatori, i grandi artisti, la grande letteratura, in realtà ci sfida, e ben venga. I grandi pensatori, i grandi artisti, eccetera, esistevano allora ed esistono ancora, esisteranno sempre... valli a trovare! Ecco perché occorre districare la matassa, occorre trovare, appunto, il bandolo!
RispondiEliminaCarissimo Claudio, voglio tirare con te le somme del dibattito nato dalla tua, come al solito brillante, provocazione. Il discorso si è ampliato a dismisura, anche con il mio contributo, e questo è un segno della validità e dell'interesse dei temi affrontati. Ambizioso è l'obiettivo de "Il Bandolo", perché non è impresa da poco affrontare le paludi in cui la cultura e la civiltà si sono impantanate. Sicuramente dobbiamo armarci di molta umiltà per far comprendere che il desiderio del nuovo non è desiderio di recidere le radici. Questo perché il desiderio delle radici è proprio quello di rinnovarsi al fine di dare nuove gemme e nuovi frutti, all'infinito.
EliminaFranco Campegiani
Molto interessanti e stimolanti le argomentazioni proposte, di virtuosa chiarezza - di Franco Campegiani - nel suo sviluppo consequenziale e soprattutto nel dialogo aperto e nel confronto con le note (altrettanto ragionate e coinvolgenti di Pasquale Balestriere.Un dibattito costruito sul consenso reciproco e su un filo dialettico-culturale di grande profondità e pregnanza, che spazia nei tempi dilatati del presente e del passato,fino alla condizione esistenziale "dell'uomo nella sua fusione col mondo", dove al "mito della fusione...non si può opporre il mito della distinzione ...dei secoli passati". "Oggi occorrono miti nuovi", continua Campegiani. Certo, il problema (e direi le sue soluzioni) oggi non è quello di aggrapparsi al mito e vivacchiare così nel e del passato, ma è quello di una nuova mitografia. Ma, incalza Balestriere, L'uomo che io dico cerca di riagganciarsi alle origini, diventa esploratore di se stesso, è sempre sulle tracce di verità e giustizia, libertà e bellezza". Mitografia e -aggiungerei- attualizzazione del mito, Mito come avventura dell'anima, come passione sempre spendibile e sperimentabile. Attualizzazione del mito, perché oggi la bellezza ma anche i drammi e le tragedie ineluttabili che segnano la nostra contemporaneità, sono, sebbene cambiati l'ambiente e la cultura dei popoli, non molto diversi dal passato. Se una donna, oggi, uccide i suoi figli perché il suo sposo l' ha abbandonala distruggendo i suoi sogni e le sue speranze, se un'infermiera che non viene riassunta al lavoro si lascia morire facendosi togliere un poco di sangue ogni giorno, un poco per volta, per porre sotto accusa "il potere" disumano e indifferente, incapace di soluzioni: ebbene queste due donne che cosa hanno di tanto diverso da Medea e da Antigone, l'una ripudiata dal marito l'altra suicida contro una legge "umana" ingiusta e blasfema? Noi oggi siamo anche la coscienza del nostro passato. E chi non ha un passato non ha neppure un futuro. Non possiamo non tenerne conto.
RispondiEliminaUmberto Cerio
L'ideologia del passato ritenuta obsoleta insieme alla coscienza di una umanità in pieno delirio fa supporre che le prerogative e i modelli precedenti siano andati tutti a decadere, la qual cosa lascerebbe supporre il preciso dovere di sostituirli con altri. Non si possono togliere i valori necessari e complementari della specie umana, senza il rinforzo indispensabile ad accogliere nuove strutture, precipuamente perché non si può fare a meno delle stesse. Il genere umano ha bisogno di modelli di riferimento, magari nelle diversità di confronto, come è bene augurarsi, ma che vi siano...Ben venga quindi il Bandolo che propone linee-guida per poter dare aspettative e speranze a questa nuova post modernità che avanza, a grandi passi, tutti discordanti e contraddittori in un ripudio quasi assoluto del vecchio, senza provvedere al "NUOVO", non credo potrà andare molto lontano, decadendo in toto quel profilo ontologico che rende l'umanità credibile, perfettibile e civile.
EliminaNinnj Di Stefano Busà
C'è chi crede di avere trovato il Bandolo, e questi non siamo noi. C'è invece chi il Bandolo lo sta cercando, sono tantissimi, e fra questi figuriamo anche noi. Ciò che, nell'umiltà della ricerca, tentiamo di indicare, è soltanto una direzione, un cammino. Non c'è la pretesa di indicare "linee-guida", ma soltanto l'appello a perseguire una via: lo scavo interiore, l'"humanitas" che risiede in ciascuno di noi. E' un'esigenza da molti avvertita, come anche da te, Ninnj, che non a caso risulti tra i primi firmatari del Bandolo. Ed è un'istanza di essenzialità, di autenticità, sicuramente molto scomoda in un mondo di strepiti e prevaricazioni come quello attuale. Ma è un percorso da fare per riprendere quota, perché tutto ciò che nella storia è stato prodotto di valido è nato da questa attenzione verso il mondo interiore. E' da lì che sono sempre scaturite le opere migliori, per cui non è vero che il passato sia tutto da rigettare. Ci mancherebbe altro! Ma è solo questa disposizione d'animo che a mio parere noi dovremmo ereditare dagli avi. La "Divina Commedia" l'ha già scritta Dante, non dobbiamo riscriverla noi. Noi scriviamo altro, ma per tentare di farlo come l'ha fatto lui, dobbiamo farci illuminare dal suo coraggio e dalla sua forza d'animo, dalla sua fierezza e dalla sua autonomia spirituale. E' questo che oggi occorre, in un mondo di fotocopie dove l'originalità è purtroppo uscita di scena.
EliminaFranco Campegiani
Sono d'accordo con te, Umberto, quando sostieni che i fatti "che segnano la nostra contemporaneità, sono, sebbene cambiati l'ambiente e la cultura dei popoli, non molto diversi dal passato". Proprio per questo, a mio avviso, non dobbiamo pensare più di tanto al passato. Più ci pensiamo e più lo allontaniamo, perché lo storicizziamo, lo collochiamo in un tempo e in un luogo, invece di lasciarlo fluire dentro di noi. Il passato è vita che ci vive dentro, come il seme è nel frutto, come il padre è nel figlio, silenziosamente, senza bisogno di chiacchierare. E' questa l'"humanitas" che si tramanda da sempre, e che se appartiene al "sempre", non è identificabile con un tempo ed un luogo precisi. I miti ci sono da sempre e sono da sempre gli stessi, ma ogni generazione ed ogni persona sono chiamate a riscoprirli autonomamente, percorrendo vie singolari. In ciò sta la creatività dei miti. Sono eterni perché stanno nella vita, vivono in me, qui ora, come vivono nel sangue e nelle cellule di qualsiasi altro essere umano, a prescindere dal luogo e dal tempo in cui esso vive. Ciò non significa che i miti agiscano meccanicamente, tanto meno nei periodi di flessione culturale, come quelli in cui viviamo.
EliminaFranco Campegiani
Condivido appieno il pensiero di Franco (non per niente sono tra i firmatari del manifesto) e vorrei prendere spunto proprio da queste considerazioni per insistere sul concetto di umanesimo.
RispondiEliminaIl nuovo umanesimo - perché di questo c'è bisogno - deve essere interpretato, ma soprattutto vissuto, fuori e oltre le categorie spazio-temporali, e non perché - tutt'altro - lo stesso non abbia a che fare con la storia: l'umanità è una nostra prerogativa e, in quanto tale, c'era, c'è e sempre ci sarà, almeno fino a quando si potrà parlare di uomo. Ed è da lì, certo, che prendono vita i miti (chi scrive sotto ispirazione sa bene - pur ignorandone la fonte - come si origina l'opera).
Solo così potrà nascere una cultura davvero innovativa "che nel tempo diverrà certamente obsoleta, ma dalla cui usura nascerà ancora, come sempre, l'urgenza di rinnovare, di proporre nuove stagioni di civiltà.".
Con le parole di Franco concludo: mi sembra il modo migliore per suffragare e sorreggere le nostre speranze di futuro.
Sandro Angelucci
Ti sono grato, carissimo Sandro, per il pensiero che esprimi. Ciò che risiede al di fuori del tempo intride profondamente di sé il tempo e la vita. Questa è cangiante, è mobilissima, proprio in virtù dell'energia incorruttibile che le giunge da altrove. Il mondo è sempre altalenante tra una nascita e una fine. Oggi occorre riscoprire il percorso che dai tramonti conduce alle aurore.
EliminaFranco Campegiani