Pagine

martedì 18 novembre 2014

SANDRO ANGELUCCI: "SI AGGIUNGONO VOCI"

Sandro Angelucci



Sandro Angelucci: SI AGGIUNGONO VOCI
LietoColle. Faloppio (Co). 2014. Pg. 96. €. 13,00



PREFAZIONE 
DI 
NAZARIO PARDINI


Un cammino verso una natura perduta, una terra abbandonata, verso la madre più antica



L’anima della fune resta intatta,/si snoda intorno al mondo/collega gli universi./Niente, nessuno sfugge:/un solo filo/può tenere insieme/la vita con la morte (L’anima della fune).
Opera compatta, acchitante, generosa, i cui versi, con euritmica sinfonia, abbracciano gli abbrivi emotivi del Poeta. Divisa in due sottotitoli, Icaro e Il grande respiro, si scioglie in una versificazione da battima marina con il suo andare e venire, col suo alternarsi di misure brevi ad altre più ampie, con le sue sortite in endecasillabi che esplodono in significanti metrici orientati verso marcate interiorizzazioni. La prima cosa che salta alla mente e all’anima è proprio questa simbiotica fusione fra dire e sentire; fra slanci iperbolici, fra cospirazioni di proteiforme metaforicità e sicurezza del ductus poetico. Uno slancio verso l’ignoto, un odisseico azzardo oltre colonne, oltre quelle siepi che delimitano il nostro essere-ci; e che l’Autore già configura, con proficua resa simbolica, nella copertina: un uomo che, solo, si sperde in una strada senza fine. In una strada brumosa che tanto si avvicina all’inquietudine dell’essere e dell’esistere. A quella dualità fra la nostra terrenità e l’aspirazione all’oltre di memoria pascaliana, un azzardo verso confini di problematica soluzione. Ma anche un approssimarsi schietto e volitivo, sincero e a braccia aperte verso le rivelazioni significanti di Pan. Di un mito che prolunga la sua forza epifanica e misterica in un futuro di luce e di Sole lucente. Un cammino verso una natura perduta, una terra abbandonata, verso la madre più antica, smarrita, tormentata da figli su strade senza sbocchi; un agognato riavvicinamento verso i suoi palpiti mortali; un invito a rigenerarla e a rigenerare l’uomo, farlo nuovo, in un abbraccio che sappia di altri tempi, ma che assuma il valore di novella fusione, di ritrovato amore, amore oblativo, di ritrovato rispetto, per un futuro che parli de reditu suo, dei suoi fecondi tramonti e del suo gioioso respiro, voluto da viandanti ormai sperduti in materialismi senz’anima, ricredutisi per il bene di tutti gli esseri del creato: Saranno i voli/che portano gli insetti dentro i nidi/a dare l’appetito/a chi, da noi,/si aspetta in dote il dono del futuro (Saranno i voli).
E quale stagione migliore dell’autunno per concretizzare queste inquietudini tanto esistenziali, quanto fertili per un ricco poema? La stagione dei poeti, delle melanconiche soluzioni umane, delle foglie smeraldo che si fanno memorie, del redde rationem. È questa la stagione di Angelucci, perché è il tempo des feuilles mortes che lo invita alla meditazione sul vivere e il morire; sul destino ed il mistero del nostro limitato soggiorno e su quello della Poesia. Sì, della poesia, questo racconto infinito della vicenda umana, che sa di realtà, d’immaginazione, ma  tanto di folgorazioni in voli eterei, in spazi di abbrivi verticali che connotano la pienezza ontologica del Poeta. Quel Poeta che ricorre alla Natura, ai suoi messaggi, alle sue approssimative soluzioni, alle sue cromatiche identificazioni. Ed è ad essa che volge tutto il suo poema, alle sue configurazioni plurime, alla significazione della sua plurivocità, dacché in quei corpi vuole leggere la malinconia delle sottrazioni, o la gioia per gli sperdimenti in tanto naturismo. Di certo, iniziare da questa citazione incipitaria significa andare a fondo nella poesia di Sandro Angelucci. Un prodromico avvio per scoprire il suo canto. Il suo intento di plurale empatia, di creatività contaminante per eufonica sonorità e accostamenti di luci ed ombre, di bianco e nero, di contrapposizioni di memoria eraclitea. Ed il vero della  vita sta tutto nella simbiotica fusione degli opposti. Meditazioni che in Angelucci si trasferiscono agilmente dalla soglia del soggetto a quella dell’universo. Perché ognuno di noi si identifica in questo impulso a superare  i limiti dell’orizzonte.
D’altronde è proprio la simbiotica fusione fra le antinomie del vivere che dà una lucida idea della realtà: No, io non ti condanno./Come potrei? A cosa servirebbe?/Ripetere l’errore/per consumare ancora altro sangue/per giungere ad odiarmi./Meglio ammettere,/una volta per tutte,/che ho le ali, che sono un demone:/solo così posso sentirmi un angelo (Icaro).
Una chiara visione di un soggiorno da cui tanto ambiamo sottrarci per elevarci oltre. Ed il poeta lo fa con un volo di generosa levatura, con una apertura d’ali che gli permette di aliare sulle cime innevate, da cui lo sguardo può estendersi verso distanze infinite, ma anche irraggiungibili per il nostro essere mortali. Ed è umano, fortemente umano aspirare all’al di là delle nostre inconsistenze, delle nostre ristrettezze di esseri apodi, coscienti delle labilità e delle precarietà del tempo e del luogo, ma anche spinti dalla nostra superbia a cercare paradisi inesistenti a scapito di un amore più vicino: Proprio quello l’errore: la superbia./Mentre pioveva amore/non accorgersi/che stavi camminando sulla stella/che più desideravi,/e tu, in volo, a cercarla chissà dove,/in quali mondi,/in quali paradisi inesistenti (Icaro).
Per il poeta la poesia è verticalità, sostanza umana, affondo intimistico, spiritualità esplorativa, e soprattutto visione di un futuro luminoso, ammesso che poggi su nature rigeneranti di epifanica rivelazione. Un vero affondo nel pozzo del mistero dei meandri dell’anima; è da là che il Nostro, con tutta la sua potenzialità creativa e introspettiva, parte per concretizzare il suo pathos nella metaforicità e nel fonosimbolismo del verso; per configurare i suoi abbrivi emotivi e speculativi nelle esplosioni di panica consistenza che, comunque, non annullano mai l’essere nella loro vivacità visiva o auditiva, ma, anzi, ne rafforzano la valenza. Dacché l’anima, dopo una fuga dalla soma del corpo verso piane rigeneranti, verso colline luminescenti, o tramonti decadenti, rientra carica di vitalità a incrementare un serbatoio da cui attingere Bellezza; sostanza da affidare ad intrecci di narratologia o a commistioni di verbi e contenuti di rara resa poetica. Di  parole, nessi, combinazioni fonoprosodiche che abbracciano, con urgente sintonia, gli input emotivi, la grande ascesa delle emozioni. Sì, per Angelucci far poesia significa prima di tutto rovesciarsi sul foglio, ricercare quella verità che si trova fra le pieghe di un mistero che alimenta il poièin. Sta qui il forte impatto con questa silloge; sta nel sorprendersi di fronte all’espansione delle strutture verbali oltre l’etimo al fine di agganciare lo slancio delle intime meditazioni verso i confini vasti della vita.
                                                                         

                                                      Nazario Pardini




 ESTRATTO DA:

Sandro Angelucci
SI AGGIUNGONO VOCI
LietoColle

Parte Prima

ICARO

  
Abiezione

Abbrutiti. Schizofrenici. Impazienti.
Ma l’uccello non finisce di cantare,
il vento
prende a respirare con le foglie
e le montagne
(immobili, sicure)
aspettano l’arrivo della luce.
Era già alto il Sole
e intorno
ancora s’ascoltava la preghiera.
Noi,
soltanto noi
(distratti, inebetiti)
a spargere catrame, a bestemmiare.



Saranno i voli

Sono i nidi delle rondini.
Sono le traiettorie
senza nessuna logica apparente
la speranza.
E non la linea retta
che si perde
nella sua stessa, vuota inesistenza.
Non è la strada comoda e sicura
che percorre
chi non conosce cosa voglia dire
picchiare, risalire
e poi planare.
E poi picchiare ancora,
ancora risalire, fino a sera
finché c’è fede
e amore e forza nelle ali.
Saranno i voli
che portano gli insetti dentro i nidi
a dare l’appetito
a chi, da noi,
si aspetta in dote il dono del futuro.



Icaro

Proprio tue erano le ali
che mai permetteranno di volare.
Sulle spalle, invece,
deve gravare il peso di una croce
che non è zavorra
ma polvere di cielo che si sfalda
ed incessante, da secoli,
cade sulla terra.
Proprio quello l’errore: la superbia.
Mentre pioveva amore
non accorgersi
che stavi camminando sulla stella
che più desideravi,
e tu, in volo, a cercarla chissà dove,
in quali mondi,
in quali paradisi inesistenti.
No, io non ti condanno.
Come potrei? A cosa servirebbe?
Ripetere l’errore
per consumare ancora altro sangue
per giungere ad odiarmi.
Meglio ammettere,
una volta per tutte,
che ho le ali, che sono un demone:
solo così posso sentirmi un angelo.



Merlo infinito

Le bacche che pilucchi
merlo infinito
sono le parole che non so ridire,
piccolissimi grani di un rosario
che solo tu conosci.
Mentre ti guardo, mangi.
Mentre tu preghi, ascolto
becco giallo.
Ma dove voli, dove ti rifugi
quante ali possiedi
quanto sei grande?
È questo che mi sfugge.
E non perché non parli.
La vita che tu vivi non inganna.
Quella che vivo io m’insospettisce.
E non perché non taccia.
Se fossero di piombo le tue bacche,
se al posto del becco
avessi una mitraglia
t’inviterei a spararmi addosso
perché nella mia carne
con il tuo cibo
penetri il volo, la libertà,
l’immensità di un merlo.



Da terra verso i rami

In volo.
Tutti insieme.
Da terra verso i rami.
E l’albero
torna con le foglie.
Come se non le avesse
mai perdute.
Come se ancora fosse
primavera.



  
Parte Seconda

IL GRANDE RESPIRO



Il grande respiro

L’inchino dell’erba piegata dal vento:
preghiera e bestemmia.
Parola che sento diversa,
più vera del suo stesso silenzio.
Rimango.
Mi stringo al suo soffio
ma nulla trattiene l’abbraccio.
Non posso legarmi alla fuga
del Grande Respiro,
non posso.
Mi è dato soltanto (soltanto ma è tutto)
d’unirmi al peccato e alla gloria,
genuflesso
di fronte al mistero
e in piedi
di spalle all’altare del vento
per non rinnegarlo
mentre bestemmio.



Salto d’acqua

Solo ieri
erano gialle, erano alte
le corolle delle dalie.
Oggi però
somigliano alla sabbia dei deserti,
sono terra bruciata
sono spente. Effimero,
e tu lo chiami effimero
questo rapido succedersi del tempo.
Eppure
così lento non è stato mai
se nel volgere di un giorno
sento
tutta insieme l’eternità
uscire da se stessa
e riversarsi
come fiume in piena
nella cascata delle perplessità,
nel salto d’acqua
di cui mi bagno e non conosco altezza.


Sul fondo del bicchiere

Una goccia di miele
che cade nel latte bollente,
precipita sul fondo del bicchiere
e si dissolve.
È questo
la parola di un poeta.
Un grumo di bellezza che si scioglie
per rendere più dolce
la bevanda.
Ma la sua forza,
ciò che la distingue
più dello zucchero è quel dissolvimento
quello sparire
per regalare ancora una speranza,
quel velocissimo
battere le ali
che tiene l’ape in stallo
e il cielo in equilibrio sul creato.



A VOI LA LETTURA COMPLETA DEL TESTO ACQUISTABILE DIRETTAMENTE DALLA CASA EDITRICE O NELLE MIGLIORI LIBRERIE

7 commenti:

  1. Sono poesie molto belle e suggestive, che lasciano traspirare una intensa e palpabile sinergia con il dettato lirico, che già mi è noto in questo poeta. La parola si fa intimo afflato di una dottrina poetica che ha dalla sua tutta la potenza espressiva di un linguaggio maturo, eclettico, vigoroso quel tanto che basti per proporsi come incipit di rara perizia. Il poeta sa ricreare atmosfere ed aleggiare sui pendii della memoria con empito addolorato, ma indomito, consapevole di una rinascita, o per lo meno di una rivisitazione della perdita. Basterà ricordare questi versi che da soli riescono ad esumare dalla cruda realtà quotidiana, la bellezza imponderabile della salvezza:
    "così lento non è stato mai
    se nel volgere di un giorno
    sento
    tutta insieme l’eternità
    uscire da se stessa
    e riversarsi
    come fiume in piena
    nella cascata delle perplessità,
    nel salto d’acqua
    di cui mi bagno e non conosco altezza."
    Complimenti vivissimi, con stima
    Ninnj Di Stefano Busà

    RispondiElimina
  2. Complimenti, Sandro. La tua nuova raccolta poetica, già dal titolo, si preannuncia accattivante e ricca di spunti. Nei testi qui riportati emerge una parola marcata e vibrante, che attinge alla profondità del mondo nel suo continuo fluire, nella coesistenza dei contrari, come preghiera - bestemmia. Una parola che diviene voce della natura e si esalta "nell'immensità di un merlo", "nell'inchino dell'erba", nel sogno di primavera. Una poesia permeata di ragione e soprattutto di passione, ancora una volta sguardo verso l'alto.

    Anna Santarelli

    RispondiElimina
  3. Caro Sandro, ti giungano i miei complimenti per questa tua nuova silloge. Nell'attesa del piacere di poterla leggere mi lascio trasportare dalla bellezza e dall'intensità delle poesie che accompagnano la bella prefazione del Prof. Nazario Pardini.
    Sonia Giovannetti

    RispondiElimina
  4. Concordo con il Prof. Pardini nei due punti salienti della sua luminosa prefazione: quello in cui sottolinea il potente richiamo degli elementi nel canto del poeta reatino, e quello in cui specifica che la natura di cui qui si parla è costituita da una plurivocità ricca di contrapposizioni. Ciò è fondamentale per mettere a fuoco le valenze genuinamente edeniche di un canto che si sbaglierebbe a confondere con le amenità del sentimentalismo bucolico-idillico di chi osserva con banale e frivola superficialità la natura. L'Eden non corrisponde all'edulcorata visione di una Terra tutta carezze e baci, tutta fiorellini ed augelli svolazzanti nei prati. C'è una violenza ed una crudeltà, nella natura, che non va leopardianamente (se così si può dire) rifiutata, ma al contrario accettata senza battere ciglio, giacché il Male contribuisce come il Bene alla costruzione coscienziale. E qui è d'uopo rammentare che, nel Genesi, i frutti dell'"albero proibito" sono proprio quelli della discriminazione tra il Bene ed il Male: "Meglio ammettere, / una volta per tutte, / che ho le ali, che sono un demone: / solo così posso sentirmi un angelo" ("Icaro"). Il vero Bene e il vero Male sono fratelli inseparabili e tra di loro collaborano per l'armonia universale. Quello di Angelucci è un registro poetico di altissima vibrazione. "Altissima" ovvero "terrena", perché non c'è nulla di più "celeste" della terra, come sovente ci diciamo con Sandro in interminabili telefonate serali che hanno il sapore di inedite e suggestive preghiere. Spero di poter tornare a parlare di questo autentico capolavoro. Intanto auguro al libro un successo non superficiale ed effimero, ma profondo e reale. Un successo nelle profondità dell'anima, come è giusto che sia per un canto generoso e ispirato, davvero capace di dare voce al mistero.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  5. Leggendo questa meravigliosa recensione introduttiva del caro Professor Nazario, le liriche e i commenti esaustivi di Ninnj, di Sonia e di Franco, mi sento pronta spiritualmente ad accogliere il nuovo 'figlio' del mio amico carissimo... Più volte ci siamo detti che le Opere vanno fatte decantare e Sandro è stato coerente con l'assunto, infatti la sua Silloge "Verticalità", pubblicata nel 2009, dopo una catena di meritati successi, ha passato il testimone a questa nuova Raccolta di liriche, che non ho avuto la gioia di leggere, ma di cui colgo l'essenza in questa pagina. E so, oggi più che mai, che il cammino 'verticale' di questo grande, autentico Poeta, che non esibisce la sua Arte, continua, si concretizza, diviene, come asserisce in modo superbo Franco, 'preghiera terrena'... Le liriche narrano del volo di Icaro, sottolineando:
    "Proprio quello l’errore: la superbia.
    Mentre pioveva amore
    non accorgersi
    che stavi camminando sulla stella" . E l'anima non può che trasalire, di fronte a un senso così alto di umanità e di lirismo... E, nella poesia dedicata alla natura, leopardianamente madre - benigna, recita ancora:
    " E l’albero
    torna con le foglie.
    Come se non le avesse
    mai perdute"
    La caducità lascia il posto all'eterno ciclo del rifiorire, miracolosa allegoria del tempo che passa e non cancella, non distrugge. Tutto rinasce. Tutto torna a respirare e a vivere. Un inno alla primavera dei sogni, delle speranze, delle promesse. e cosa dire dei versi di luce della lirica "Sul fondo di un bicchiere"? In diciotto versi, cesellati con sinestesie, con alcuni endecasillabi puri come diamanti, narra la storia del Poeta puro, la propria. La storia del 'fanciullino pascoliano' che osserva la vita e ne trae immagini atte a rapire, a incantare, a insegnare:
    " Una goccia di miele
    che cade nel latte bollente,
    precipita sul fondo del bicchiere
    e si dissolve.
    È questo
    la parola di un poeta".
    So che "Si aggiungono voci" sarà il libro dal quale non potrò separarmi. Che vivrà nel cuore, sul comodino e nei pensieri per molti anni, esattamente come "Verticalità"! Sandro non ha bisogno di auguri,ma di gratitudine. Esiste, ci dona il senso stesso dell'essere Poeti ed è dono in ogni sua manifestazione. "Cammina sulla stelle" ...
    Un abbraccio a tutti.
    Maria Rizzi

    RispondiElimina
  6. Tempo addietro mi capitò tra le mani una meravigliosa e antica poesia degli indiani d’America (*) che ben rappresenta quello che fu il loro profondo amore e rispetto per la terra, che li rendeva capaci di capirne i minimi messaggi. Leggendo questi versi ho ritrovato quello spirito contemplativo, quella capacità, per certi aspetti animale, di capire il linguaggio degli elementi. E il fatto è che gli elementi parlano con un linguaggio immenso, ma così minuscolo, così piccolo, che risulta difficile fermarsi ad ascoltare. Occorre prendere le pinze da orologiaio e fare gli stessi minimi movimenti per cogliere la brevità del volo di un’ape, la dolcezza di una piuma, il respiro del vento o il tremolio di un fiore su un prato. Non parlo di tempeste, di fiori giganteschi, ma di brezza e di fiori in un prato, un prato che non ha bisogno di essere sconfinato per stupirci, perché si riassume tutto nel nostro sguardo, canta nella sua pace, vive nel suo lasciarsi pettinare o calpestare. Mi viene in mente Vivaldi, ma non la sua tempesta, non il suo allegro, semmai qualche adagio appena accennato, che però, anche nella sua delicatezza ha il potere di trasformarsi in tuono e temporale.
    La poesia di Sandro Angelucci risveglia in me quelle sensazioni. Quindi anch’io prendo in mano quella realtà, con le pinze da orologiaio, perché a volte la bellezza è fatta di cose minuscole, e non puoi prenderla in mano perché le dita sono troppo tozze e grandi, occorre quella delicatezza che non hai, le cose belle sono tanto piccole che se tentando di prenderle con la mano ti cadessero per terra, si confonderebbero con la polvere del pavimento. E qui la poesia riesce nel suo intento: “sono le traiettorie / senza nessuna logica apparente / la speranza”, già, le traiettorie. Nulla vi è di più effimero, perché nell’attimo stesso in cui le esprimiamo loro non sono più, sono solo linee immaginarie, in realtà è il movimento che le traccia, ma non esistono, come non esiste la speranza, se non nella nostra mente. Ma traiettoria e speranza non possono essere separate, loro vivono sempre insieme. Quindi “saranno i voli” indipendentemente dalle traiettorie, che ci salveranno.
    Cogliere quindi il volo di un merlo, il battito d’ali di una farfalla, il ronzio di un’ape, il muggito di una mucca che non vedi, perché è lì nella sua stalla, lontana dal suo antico mondo. Ma non è poesia campestre, pur se il richiamo della natura è dominante, l’autore non si discosta dal suo mondo di “Abbrutiti. Schizofrenici. Impazienti.” Quel mondo siamo noi, mentre “… l’uccello non finisce di cantare / il vento / prende a respirare con le foglie / e le montagne / (immobili, sicure) / aspettano l’arrivo della luce”. Imperturbabile, la natura, continua il suo percorso, e pur se noi insistiamo “(distratti, inebetiti) / a spargere catrame, a bestemmiare”, lei ristabilisce sempre i suoi equilibri. Quindi l’autore contempla questa natura, e dice al merlo “Se fossero di piombo le tue bacche, / se al posto del becco / avessi una mitraglia / t’inviterei a spararmi addosso”.
    Ma alla fine il poeta sa che non succederà, e continua il suo volo di versi, che come “una goccia di miele / che cade nel latte bollente” si dissolvono nel lettore per diventare un nuovo pensiero, perché “un grumo di bellezza che si scioglie” ha una forza struggente e regala la speranza di un nuovo battere di ali.

    Claudio Fiorentini

    (*)
    Perso

    Fermati,
    gli alberi davanti e i cespugli di fianco a te
    non sono persi.
    Ovunque tu sia, si chiama QUI,
    e tu lo devi trattare come un potente sconosciuto,
    devi chiedere il permesso di conoscerlo
    e di essere riconosciuto
    La foresta respira. Ascolta. Risponde,
    ha creato questo luogo intorno a te,
    se lo abbandoni potresti ritornare ancora, dicendo QUI.
    Mai due alberi saranno uguali per il corvo,
    mai due alberi saranno uguali per lo scricciolo.
    Se ciò che un albero o un ramo fa non ha effetto su dite, tu sei sicuramente perso.
    Fermati.
    La foresta sa dove sei. Devi lasciare che ti trovi.

    Antica poesia degli indiani americani.

    RispondiElimina
  7. La Natura, come accade spesso nei versi di Angelucci, è qui padrona incontrastata. Soprattutto gli animali (uccelli, api, scoiattoli...). Con la loro innocente istintività, essi sono indirettamente contrapposti all'uomo moderno, "abbrutito, schizofrenico, distratto...". Sono la rappresentazione del mondo, di tutta la bellezza della vita, ma anche della sua dolente drammaticità.

    RispondiElimina