La Vite e La Vela
Di
Gianlivio Fasciano
Di
questo breve romanzo si posso dire tante cose, ma io ne dirò solo alcune per
non annoiare troppo con il mio sproloquio, anche perché a parlare preferisco
che siano sempre i libri e non le persone, in quanto di solito i libri dicono
cose più interessanti delle persone…
Il
primo punto che mi ha colpito di questo libro è sicuramente lo stile, uno stile
che in certi sensi è più attrattivo della storia in sé, non che la storia sia
noiosa, ma di certo lo stile del Fasciano è sicuramente molto particolare.
Dinamico e impetuoso, non si ferma mai, ti fa correre dietro la storia, che di
solito è sempre più avanti di te di qualche pagina e così ti ritrovi a
percorrere quasi 600 km in poche pagine e non ti sei accorto di come hai fatto…
(qui devo dire che in alcuni punti ho faticato parecchio a stargli dietro,
addirittura mi veniva il fiatone…).
Altro
elemento singolare e accattivante sono i paragoni. Paragoni assurdi, senza
senso, eppure al tempo stesso,
esplicativi. Colgono il nocciolo della similitudine in maniera così
calzante che alla fine pensi che il concetto non poteva essere espresso in
nessun altro modo.
Uno
stile che in alcuni punti mi ha fatto pensare molto ad un altro illustre
napoletano: Erri De Luca.
Ma
un buon libro non può definirsi tale se accanto a uno stile accattivante non ci
fosse anche una bella storia.
Quindi
ecco che siamo a Napoli città magica, piena di vicoli e di bassi, dove una
ragazza, Linda, lavora in nero come lavascale nei condomini. Attorno a Linda si
sviluppa un’umanità varia. Amici onesti, amici disonesti, amici ingenui, amici
buoni e amici approfittatori, amici innamorati, amici gay, amici rivoluzionari
e amici politici. Insomma in una città in cui Linda stenta a trovare i confini
dei quartieri, vi è un umanità senza confini.
La
storia, nella prima parte, ha tre scenari ben definiti: il palazzo dove Linda
fa le pulizie e dove impara a fumare le Ledy come veicolo aristocratico di
evasione sociale, la rotonda in cui aspetta il suo amico Mino, rotonda
infestata dai regni del male, come quello del perfido ferramenta, che solo
Linda riesce a domare, e il balcone del suo appartamento, da cui ogni sera
intrattiene comizi con i suoi vicini di
balcone.
L’Autore
descrive una città in cui si vive forse un po’ troppo ai limiti dell’umanità e
della legalità, in cui non si riesce più a capire quali siano i propri diritti
e soprattutto i proprio doveri. Così alla fine di un incidente sul posto di
lavoro, Linda acquista la consapevolezza di dover cambiare, di dover capire ma
soprattutto di dover prendere in mano le redini del suo destino, che come un
fiume in piena, rischiava di travolgerla. Pensa, medita, legge e come spesso
accade dopo che si è letto, si pone delle domande. Domande che necessitano di una
risposta. risposta che non può essere trovata a Napoli, perché ormai Napoli è
irrimediabilmente compromessa dalla vita di Linda.
Ed
ecco quindi che la donna compie il tipico errore che facciamo tutti quando non
riusciamo più a reggere il peso dei nostri problemi.
Scappiamo.
Scappiamo
lontano nella stupida illusione che la felicità, quella vera, sia sempre
lontano da noi, sempre lontana dal posto in cui viviamo e da Napoli Linda
scappa lontano fino ad arrivare a Trieste. Trieste che con Napoli e i napoletano
non ci “azzecca” proprio nulla, ma è
proprio lì che lei pensa di poter ricominciare da capo scrollandosi di dosso
quella sua indolente napoletanità.
Nulla
di più sbagliato, perché come sovente accadde, il destino ha un grande senso
dell’umorismo, avvolte anche cinico ed ecco che se non è lei a tornare sui suoi
passi, sono i sui passi che tornano su di lei. A poco a poco, infatti, si
accorge che tutto quello da cui voleva scappare, dal suo datore di lavoro, dal
suo affascinante politico troppo onesto per fare il politico e soprattutto da
Mino, sono anche loro approdati a Trieste con lei.
A
Trieste, dove si svolge la seconda parte del romanzo, si consuma un'altra
grande tragedia, - perdonatemi il termine così forte - il fallimento del voler
cambiare la propria condizione sociale attraverso la violenza e la lotta
armata. In un periodo di fermento politico e sociale, di manifestazioni
tutt’altro che pacifiche, Linda realizza, in un senso quasi Verghiano, che non
ci si può elevare dalla proprio condizione sociale e non si può cambiare il
proprio destino con la lotta armata.
Al
contrario, realizza che solo attraverso la cultura e il sostegno reciproco,
passando attraverso il dialogo fra le varie parti sociali (qui rappresentato
dall’incontro fra Silvan metalmeccanico e capo del movimento di protesta e
Giustino politico onesto e mediatore fra gli operai e il governo), si può
veramente cambiare la propria condizione, ma soprattutto capisce che non è
scappando dai propri fantasmi che si risolvono i problemi, perché tanto prima o
poi loro torneranno a bussare alla
porta, ma solo affrontandoli a viso aperto senza averne paura.
Finisco
con un solo un appunto, puramente di stile (ma soprattutto puramente
personale), forse avrei evitato la scelta di non dare un titolo ai vari
capitolo del libro.
Nessun commento:
Posta un commento