Sandro Angelucci collaboratore di Lèucade |
PRESENTAZIONE
IL CIELO INCOMPIUTO
DI
DOMINICK FERRANTE
Per iniziare a dissertare di Dominick Ferrante
e del suo Cielo incompiuto prenderò
in prestito una citazione di cui – prima di me – ha fatto buon uso Gian Ruggero
Manzoni, curatore della profonda ed esaustiva introduzione all’opera.
“Ha detto Brodskij – riferisce il prefatore – .
. . se il tempo avesse una penna e decidesse di scrivere una poesia, i suoi
versi parlerebbero di foglie, erba, terra, vento, pecore, cavalli, mucche, api.
Ma non di noi. Al massimo delle nostre anime.”.
L’assunto dell’ultimo grande interprete del
lirismo russo non solo è condivisibile ma può essere pienamente accolto laddove
si faccia estrema chiarezza sull’idea stessa di tempo. Le opinioni al riguardo
sono essenzialmente riconducibili alle due posizioni: quella immanentistica e
quella trascendentale; è mia convinzione, tuttavia, che optare per l’una o per
l’altra corrente di pensiero finirebbe con l’allontanarci tanto da questa
poesia quanto dal suo artefice.
Dominick – lo sappiamo – oggi non è con noi, ma
possiamo tentare (per ciò che è dato alle nostre possibilità, ovviamente) di
stabilire un contatto, una connessione; tranquilli: nessun rito, nessuna
intercessione di carattere mediatico; questa sera, qui, si può fare di più:
colmare la distanza al punto di scorgerlo – velato ma vivo – dietro la cortina
che divide la sua dalla nostra dimensione. Se noi abitiamo la trascendenza o
l’immanenza e, dunque, la relatività del tempo; egli esiste nella trascendenza e
nell’immanenza, nel contingente e nell’assoluto contemporaneamente, ossia in
quello che mi piace definire (quasi paradossalmente) il non-tempo.
Quale altra occasione, allora, può presentarsi
migliore: dialogare tramite una parola diversa, la parola che, con queste poesie,
ha voluto lasciarci in dono. Un testamento spirituale, senza dubbio, ma non un
memoriale “in quanto – convengo con Manzoni – non rappresenta il … passato ma
lo riattiva, prolungando(ne) le immagini fino al presente”, ed oltre – aggiungo
– se è vero, come è vero, che questi versi saranno “nuovi semi per le
generazioni che verranno”.
Si delineano così, sempre più apertamente, i
tratti di una poetica convinta, singolare e già radicata: una poetica
dell’intimo ma non intimistica; attenta al sociale ma – mi si passi il termine
– non civilistica. A dimostrazione del fatto che quando è autentica, la poesia
non ha bisogno d’essere applicata: è per quello che è, e quindi può dimorare
ovunque. Ragione, questa, per cui in Ferrante la stessa assume forme camaleontiche;
non certo per nascondersi ma per interamente calarsi nella realtà che, di volta
in volta, costituisce il suo habitat naturale.
Si legge, di nuovo, nello scritto prefativo
(che invito il lettore a non trascurare per l’ampia finestra che apre
sull’orizzonte creativo del Nostro): “Il pudore di Dominick Ferrante del
potersi dire uomo e, soprattutto, poeta è costante nella sua produzione
letteraria, ma è proprio tale pudore, quel suo essere umanamente schivo, ma non
arreso, che già lo rappresenta strutturato e pronto all’impresa.”. Quel pudore
(che è giusto definire ‘onestà intellettuale’) che induce l’autore
dell’introduzione ad una felicissima comparazione: quella con il primo
Pasolini, “combattuto fra impegno, militanza, lo schierarsi netto e, parimenti,
il desiderio di pace, di luoghi familiari, di calore, di comprensione,
d’infanzia”. Tangibile il suddetto travaglio se si pensa ai versi dedicati al
maestro friulano; dai quali trapelano i segni inequivocabili di quella che ha
tutta l’aria di sembrare una frattura esposta, difficilmente ricomponibile,
causata dall’urto violento tra le pulsioni profonde dell’io e il muro di una
massa compatta ed omologata, che lo schiaccia sotto il peso del vuoto e
dell’indifferenza.
Eppure, ciò che appare irrimediabile può essere
sanato. Come? Riconoscendo nel proprio cammino il viaggio stesso della poesia.
Ma cosa significa questo? Prima di tutto afferma l’insopprimibile necessità di
operare una scelta: l’artista – in genere – ed il poeta in particolare, si
trova fin dalla nascita (vorrei dire dalla pre-nascita) di fronte ad un bivio:
da una parte vede profilarsi una strada ampia, comoda, pianeggiante;
dall’altra, un sentiero ristretto, impervio, sempre in salita. Bene: quale
decisione prenderà? La più difficile, ma non perché la ragione o ciò che,
frettolosamente, viene definito il buon senso gli indichi quella direzione
(semmai dovrebbe avvenire il contrario); no, egli opta – o la poesia lo fa per
lui: nulla cambia di una virgola – per la via dove sa che sono passate e sempre
passeranno quelle che considera le coordinate dello Spirito; in altre parole:
dove inconfondibili risaltano le orme dell’Amore.
Apprendo, ancora dalla prefazione, di un altro
poeta profondamente amato da Dominick: Rimbaud; in special modo il Rimbaud de Le bateau Ivre, in cui il processo
evasivo dell’io molto si accomuna al viaggio intrapreso, sempreché non si
dimentichi che nel francese – così come in Ferrante – la visionarietà, la
simbologia, l’apporto autobiografico scaturiscono dalla medesima sorgente, “dal
‘naturale’ che ci abita”, direbbe Manzoni.
Ma torniamo a quelle impronte, ai “funambolici
sogni di un nano / infermo ch’eppure vola”, al “suo irraggiungibile urlo”. Non
sapremo mai dove conducono, se il grido s’è forse placato ma, proprio per
questo, aumenteranno le probabilità d’incontrarlo: cielo o terra incompiuti
perché perfettibili e non statici, lontani, isolati e irraggiungibili. È la
fede nell’amore vero, nella sua poesia che “ondeggia – e non posso non
riferirmi all’estratto riportato in bandella di prima – tra le ‘cose’ care e un
‘fuori’ che, dalla notte dei tempi, risulta ostile. . .molte volte brutale”, ed
al quale non c’è altro modo di opporsi, di ripristinare un minimo d’equilibrio,
se non ricorrendo alle “armi della dolcezza, della tenera ironia…, della
solidarietà, della solidità etica, della voce che non s’incrina. . .”.
Come fare a meno di pensare alle atrocità che
quotidianamente (con cattivo gusto e in nome dell’audience) i telegiornali ci
mostrano: madri che uccidono i propri figli e viceversa; uomini che compiono
stragi per un’illusoria quanto malata giustizia divina. Follia, razionale
follia. E, mentre nel Casone (Casa di
accoglienza e sezione imprescindibile della raccolta), Dominick prova a
recuperare lacerti di uomini e donne; il loro esserci (“E’ schizofrenico ma
capisce. / Meglio. Lo sa /. . . . / E’ la sua presenza, quella che parla”) e la
loro mancanza (“Sul diario di Nicola / si clonano giorni di stagno /. . . . /
Anche oggi si è svegliato alle sette, / . . . . / davanti al foglio / a
compilare la sua assenza.”), con lo pseudonimo di Dominguez, lascia alla madre
il silenzio parlante dell’ultima sua profezia d’amore: “. . .così
funziona oggi, / tutto consuma in uno sparo breve, / così funziona, / e tutti
sparano / e tutti sono brevi. / Capito mamma, non posso non pensare / a questo
se mi metto a scrivere. OK? / Bene, allora senti, sei pronta? / Ora te la
leggo.”.
Sandro
Angelucci
E la serata del 24 gennaio al Caffé Letterario Mangiaparole, che ha visto un afflusso di gente impressionante, é risultata uno degli eventi più riusciti tra le Rassegne Iplac anche e soprattutto grazie alle relazie di due colossi come Franco Campegiani e Sandro Angelucci. Quest'ultimo ha camminato sulle punte, con la levità profonda, che lo contraddistingue, sui versi di Dominick, regalando a noi profani e a coloro che avevano avuto la fortuna di conoscerLo o di leggerLo la magia della presenza. Sandro affresca gli autori intingendo la penna nei meandri dell'anima e crea acquarelli superbi che ci rendono ricchi e fieri di conoscerlo! Ancora grazie!
RispondiEliminaMaria Rizzi