Maria Rosaria Capasso
Gli anni che vanno dall’ultimo
scorcio del secolo diciannovesimo fino ai nostri giorni sono stati anni di
profondi cambiamenti evidenti nell’espressione artistica e letteraria alla
stregua di quanto è avvenuto nell’evoluzione delle tecnologie e delle
comunicazioni.
L’obiettivo che ci si prefigge in
questa sede non è tanto quello di effettuare un saggio sulla poesia napoletana
di questi anni, quanto quello di una breve conversazione sull’argomento; il nostro contributo non è tanto di dissertare sulla
poesia a Napoli quanto di offrire lo spunto al dialogo ad
ampio raggio.
A tale proposito riguardo alla
quantità e alla tipologia della poesia a Napoli riportiamo le parole del
Tilgher in La poesia dialettale napoletana: «Il mondo di affetti e
passioni, concetti e preconcetti, giudizi e pregiudizi, ideali e convenzioni di
cui la poesia dialettale napoletana si alimentava è in piena avanzatissima
dissoluzione.[…] Profondissima, soprattutto, la trasformazione che sta subendo
il sentimento di cui pressoché esclusivamente la poesia dialettale napoletana
si alimentò per quasi mezzo secolo».
La trasformazione della società
incide quindi sul modo di esprimere i sentimenti, dall’amore tra uomo e donna,
che da sempre è il sentimento per eccellenza della poesia napoletana al
sentimento dell’amore per i figli, l’amicizia, il lavoro, per Napoli.
La poesia dialettale napoletana
rispecchia una società di stampo
maschilista con ruoli ben definiti e distinti tra uomo e donna; il maschio che
fa da padrone e la donna a casa che aspetta il marito, immersa nelle faccende
domestiche. In seguito, con l’evoluzione
dei costumi, anche i contenuti della poesia partenopea cambiano.
Sarebbe paradossale oggi sovrappore ai
vecchi ruoli le nuove immagini di ragazze in jeans a vita bassa, viso bucato da
piercing, ipod con auricolare. Ve l’immaginate così attillata, affacciata alla
finestra, che attende la serenata dal
suo spasimante?
«Un fenomeno d’arte così fervido -
commenta De Mura - come quello della
poesia napoletana avrebbe meritato, in altri paesi, un rigoglìo di saggi e di
investigazioni, un amoroso fervore critico ed illustrativo. Invece la nostra
poesia è ancora da fare, di molti poeti si conosce pochissimo, scarseggiano i testi
a stampa, mancano le edizioni critiche. Per taluno difettano anche le più
elementari indagini, diciamo, di cronaca: si è insicuri sulle date della vita,
ancor più su quelle delle opere, anche se, a quel che pare, tutto quanto
riguardi Napoli è, in questi termini oggetto di attenzione».
Cambiano i costumi, cambia la
poesia.
Nel rivolgere questo nostro breve
sguardo sulla poesia a Napoli negli anni che vanno da Matilde Serao
all’attualissimo Roberto Saviano si è pensato di individuare delle tematiche
come fili conduttori della poesia a Napoli nel periodo che va dal
diciannovesimo al ventunesimo secolo. Le poesie che ci sono parse più
interessanti e che proponiamo
all’attenzione sono quelle legate ai temi del lavoro, tra cui si segnala Fravecature
di Raffaele Viviani in cui si affronta il tema della morte bianca e quello
della solidarietà sociale. Per
quest’ultimo si affronta il problema della dispersione scolastica con Guaglione
di Raffaele Viviani, il problema delle diverse abilità con ’E cecate e Caravaggio,
di Salvatore Di Giacomo e ’O surdo e ’a cecata di Luciano Somma.
Attualissima è la tematica dell’integrazione riguardante sia gli immigrati con Faccella
nera, sia coloro che vivono ai margini della società con Barboni entrambe
del contemporaneo Luciano Somma. Merita un cenno anche il tema della malavita con So’
bammenella ’e copp’ e quartiere di Viviani che descrive in modo
alquanto realistico la vita di una donna di strada napoletana pronta a tutto pur di difendere il suo uomo che
oltre a sfruttarla ogni sera “l’accide ’e mazzate”. Questo tema è presente
anche con in altre poesie di Salvatore Di Giacomo, E.A. Mario, Libero Bovio
e Luciano Somma. A Napoli, le poesie dei
grandi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento sono talvolta diventate
anche canzoni. Per questo motivo è stato quasi necessario occuparci, in questa
sede, anche della canzone napoletana.
Negli ultimi decenni del
diciannovesimo secolo la canzone napoletana vive la sua epoca d’oro. In tutti i
luoghi della città, dalle osterie popolari ai ritrovi più mondani, dai bassi
alle nobili dimore, si cantano le stesse canzoni, che diventano così patrimonio
di tutte le classi sociali. Spesso i versi
vengono musicati. Fino a questo momento la canzone napoletana non era
assurta a dignità artistica, finora si trattava solo di canti nei quartieri
popolari e villanelle colte nelle case aristocratiche, ora nasce la canzone
napoletana nazionale e internazionale apprezzata anche all’estero.
Nel presentare i poeti inseriti in
questo nostro lavoro oltre a dare un cenno biografico, si è scelto di riportare i giudizi che gli autori hanno
espresso su loro stessi, al fine di essere il più possibile fedeli al messaggio
di questi grandi della poesia
napoletana.
Bibliografia
E. De Mura , Poeti napoletani
dal seicento ad oggi, Marotta, 1989
La poesia a Napoli 1940-1987, a cura di Matteo D’Ambrosio ,1992
A.Tilgher,
La poesia dialettale napoletana 1880-1930, Roma, 1930
Salvatore
Di Giacomo
L’autore
«Fin
dal primo anno di vita di Salvatore di
Giacomo la città di Napoli stava vivendo una nuova fioritura, ricca com’era
di giardini, fiori, e gli incantevoli panorami che tutti conosciamo. La città
di Napoli era popolosa più di ogni altra del regno. Il contesto è
indispensabile per presentare la vita di Salvatore Di Giacomo che fu il poeta
napoletano per eccellenza e le cui poesie, come tutti sanno sono state anche
canzoni.
Nasce
a Napoli il 13 marzo 1860 da Francesco Saverio, medico pediatra e da Patrizia
Buongiorno, figlia di un insegnante di musica del Conservatorio napoletano di
San Pietro a Maiella. Studia al liceo Vittorio Emanuele. Dopo gli studi
classici si iscrive alla facoltà di Medicina dell’università di Napoli , ma un
episodio raccapricciante lo indusse, dopo tre anni, ad abbandonare
l'università: una mattina, un bidello soprannominato "Setaccio",
cadendo dalle scale gli versò, quasi addosso, una bacinella ricolma di resti
umani che erano serviti agli studenti per esercitarsi... Salvatore sgomento si
rese conto all'istante che quella intrapresa non era la sua strada ed abbandonò
gli studi.
Già
nel 1879 a
soli 19 anni pubblica sul Corriere del
Mattino, diretto da Martino Cafiero, alcune novelle di tono autobiografico
e collabora alla Gazzetta letteraria
diretta da Vittorio Bersezio. Negli anni successivi 1881 e 1882 frequenta gli
ambienti artistici e letterari e collabora con numerose riviste come Il fantasio , Pro
patria, La Gazzetta , Il
Pungolo.
Pubblica
nel 1883 le novelle Minuetto settecenesco
che viene notato dalla Serao.
A
questo punto la sua produzione letteraria diviene serrata e non c’è anno che non pubblichi novelle,
bozzetti, sonetti, commedie drammi poesie e quant’altro. In seguito passò al
giornalismo militante ed al Corriere di
Napoli di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao e cominciò il suo tirocinio di cronista. Dopo
un breve periodo però, accettò di dirigere la Biblioteca Lucchesi
Palli sezione della Biblioteca Nazionale dove tuttora si possono ritrovare le
annotazioni fatte con la sua scrittura minuta ma chiarissima. Nel frattempo la
sua fama era diventata grande dopo lo strepitoso successo di Assunta Spina nel 1908. Conobbe in
biblioteca Elisa Avigliano, una ragazza appena laureata, della quale si
innamorò. Il poeta pur avendo raggiunto il 46° anno di età decise di sposarla.
Nel 1924 Mussolini nominò Di Giacomo senatore insieme con Ugo Ojetti. Il Senato
però bocciò la nomina, che era stata molto caldeggiata da Benedetto Croce,
perché si disse: "Piedigrotta non può entrare in Senato" ed Ugo
Ojetti ebbe a scrivere dopo aver rifiutato: "arrossirei al pensiero di
entrare per censo al Senato dove, solo perché povero, non ha potuto entrare un
grande poeta". Ebbe una piccola rivincita don Salvatore quando, nel 1929,
fu nominato Accademico d'Italia, ma non potè mai partecipare alle sedute anche
perché non possedeva la divisa. Aveva soltanto un vecchio cappotto che
cominciava a diventare impresentabile: "Era di un così bel colore marrone,
ma ora sta diventando Rousseau; bisogna che lo faccia
Voltaire"...scherzava Di Giacomo.
Di
Giacomo ha scritto di tutto e moltissime sono le poesie assurte a dignità
artistica divenute canzoni tra le migliori della tradizione napoletana e
immortali tanto che ancora riescono ad emozionarci, nonostante l’evoluzione, a
volte troppo rapida, della nostra società. Morì la notte del 4 aprile 1934».
Poesie
scelte
Molteplici
i temi da lui affrontati nella sua produzione poetica, non va trascurata anche
la sua nota sensibile ma tra gli altri
abbiamo scelto per questa nostra breve disamina quelli della solidarietà
sociale e della malavita.
’E
cecate ’e caravaggio
Dimme na cosa. T’allicuorde
tu
’e quacche faccia ca p’ ’o munno e’ vista,
mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?
’e quacche faccia ca p’ ’o munno e’ vista,
mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?
- Si, m’allicordo; e tu? - No
frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì cielo
pe mme murtificà, vulette Dio…
io so’ nato cecato. Accussì cielo
pe mme murtificà, vulette Dio…
- Lassa sta’ Dio!...Quant’io
ll’aggio priato,
frato, nun t’ ’o può manco mmaggenà,
e Dio m’ha fatto addeventà cecato.
frato, nun t’ ’o può manco mmaggenà,
e Dio m’ha fatto addeventà cecato.
- È overo ca fa luce pe la via
’o sole?…E comm’è ’o sole? - ’O sole è d’oro,
comme ’e capille ’e Sarrafina mia…
’o sole?…E comm’è ’o sole? - ’O sole è d’oro,
comme ’e capille ’e Sarrafina mia…
- Sarrafina? …E chi è? Nun
vene maie?
Nun te vene a truvà? – Sì…quacche vota…
- E comm’è? Bella assaie? – Sì…bella assaie…
Nun te vene a truvà? – Sì…quacche vota…
- E comm’è? Bella assaie? – Sì…bella assaie…
Chillo ch’era cecato ’a che
nascette
suspiraie. Suspiraie pure chill’ato,
e ’a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.
suspiraie. Suspiraie pure chill’ato,
e ’a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.
Dicette ’o primmo, doppo a nu
mumente:
- Nun te lagnà, ca ’e mammema
carnale
io saccio ’a voce… ’a voce solamente…
io saccio ’a voce… ’a voce solamente…
E se stettero zitte. E attorno
a ’lloro
addurava ’o ciardino, e ncielo ’o sole
luceva, ’o sole bello, ’o sole d’oro…
addurava ’o ciardino, e ncielo ’o sole
luceva, ’o sole bello, ’o sole d’oro…
Si
ripropone il tema della solidarietà sociale verso coloro che sono stati privati
dell’uso della vista
La
poesia, inserita nella raccolta Poesie del 1907, narra
l’incontro e il dialogo tra due non vedenti di cui uno nato cieco e l’altro
divenutovi. Quello nato cieco consola in qualche modo l’altro che dice: di mia
madre conosco solo la voce, l’altro
cerca di spiegargli il mondo com’è fatto con il ricordo del colore del sole e
dei capelli dell’amata spiegando all’altro il sole con l’oro della chioma.
E
intanto tutto continua a scorrere come prima, il sole d’oro brilla, il giardino
è profumato…
La
poesia, dedicata a chi non ha più la “luce” e a chi non l’ha mai avuta, propone
il tema della solidarietà nei confronti delle persone con diversa abilità.
Tenerissimo il confrontarsi di entrambi i ciechi che, pur nella sfortuna, si
consolano a vicenda.
’O ’nteresse
Quante so’? . So’ se’ solde…
Embè?… Scusate:
ll’ati quatto v’’e ddongo
viernarì…
Sette, allora. – Comm’è?
M’aumentate
tre solde pe tre ghiuorne, se’
Marì?!
-
Te cummiene? – Ma comme? Ve pigliate
chisto nteresse ? – Oi
ne’, tu ’e buo’ accussì?
M’è ditto niente quanno
t’aggio date?…
È troppo giusto… che ve pozzo
dì?…
Penzate
ca maritemo sta a spasso,
ca nun me porta niente pe
magnà,
ca sta facendo ll’arte ’e
Micalasso!…
- Bella mia tu che buò ? Che
t’aggia fa’?
È giusto, è giusto…nun ve
mporta niente…
Vevitevillo ’o sango de la
gente! …
La
poesia, inserita nella raccolta Poesie e Prose, ripubblicata nel
1990, affronta il tema del prestito ad usura. La poesia sciorina un dialogo tra
la debitrice e l’usuraia, dove la debitrice cerca, invano, di diminuire il
debito adducendo il motivo che il marito è disoccupato e quindi non può
restituire il denaro con un interesse tanto forte. Ovviamente l’usuraia,
indurita dall’avidità di danaro, non cede alle richieste della povera donna in
difficoltà.
Efficacissima
l’ironia “E’ giusto, è giusto non ve ’mporta niente” e sferzante la chiusa
“Bevetelo il sangue della gente!”.
Furtunata
E ce steva ’na guagliona
cu ’na faccia ’e ’na Madonna,
cu ’na capa ionna ionna ,
c’’a salute assai suttile,
e cu n’anema gentile.
Puverella! A dudece anne
Primma ’a mamma lle murette
Sola sola rummanette
Cu nu pate scimunito
p’’a miseria e ll’appetito.
- Moro – dicette ’a mamma
- e nun me lagno:
ma chello ca mme coce è ca rummane
figliema abbandonata!…
(Ah povera povera Furtunata!)
E teneva sidece anne
Quanno ’o pate lle murette:
i’ chessà che lle venette
ca passaie dopp’’o spitale,
a ngrassà Puggeriale.
Se vendette n’anelluccio
Pe doie cere e na curona,
chella povera guagliona…
Lle spiaino: - E mo’ addò ’e
ppuorte? –
Rispunnette : - Ogge so’ ’e
muorte…
E ’a llà ncoppa turnaie cu
ll’uocchie russe…
E nu giuvanuttiello ’e mala
vita
piglie e ncuntraie p’’a
strata…
( Ah povera Furtunata!)
E ched’è sta vita nosta!
Quant’è amara e quant’è
triste!
Furtunata !… ah che faciste!…
Sta creatura ca t’è nata
Mo’ addò a lasse? A Nunziata…
(Penzatece a stu nomme ca
teneva,
e a sta barbara sciorta. A
sidece anne
è morta e s’è atterrata…)
( Ah povera Furtunata!)
Anche
questa poesia è inserita nella raccolta Poesie e Prose e affronta
il tema della povertà che nella
tradizione napoletana è portatrice anche di altri mali come la
delinquenza. La mamma muore quando lei, Fortunata, ha solo dodici anni; il padre viene a mancare
alcuni anni dopo ed è costretta a vivere in povertà e a vendersi qualche
oggettino d’oro per portare dei fiori al cimitero nel giorno in cui si
commemorano i defunti.
Priva
di una guida, incontra un giovane di malavita col quale concepisce una bimba.
La povera creatura viene portata all’Annunziata non potendo mantenerla.
Giovanissima, a soli 16 anni, muore.
Triste
il destino della povera Furtunata e meno male che il suo nome è Fortunata!
Sfregio
Ha tagliata la faccia a
Peppenella
Gennareniello de la Sanità :
che rasulata! Mo’ la
puverella,
mo’ proprio è stata a farse
mmedecà.
Po’ ll’hanno misa int’a ’na
carruzzella,
è ghiuta a ll’ispezzione a
dichiarà;
e ’o delicato don Ciccio
Pacella,
ll’ha ditto: - Iammo! Dì la
verità.
Ch’è stato, nu rasulo, nu
curtiello?
Giura primma , llà sta nu
crocefisso
( e s’ha tuccato mpont’a lu
cappiello).
Dì, nun t’ammenacciava spisso
spisso?
- Chi? – ha rispuost’essa. –
chi? Gennareniello!
- No! … Ve
giuro signò! Nun è stat’isso!…
La
poesia, inserita nella raccolta Poesie, descrive un episodio di
violenza su una donna. Infatti Gennareniello della Sanità ha inferto un colpo
di rasoio sul viso di Peppenella che essendo andata a medicarsi in ospedale
viene interrogata dall’ispettore. Costui, dopo averla fatta giurare, le chiede
con insistenza: “Chi è stato?” E lei risponde: “Ve lo giuro non è stato lui.”
Il meccanismo dell’ottenere il silenzio attraverso la violenza è una delle
peculiarità della malavita napoletana.
Ma è altrettanto vero che esiste un altro meccanismo per cui la violenza per
alcune donne è un modo in cui sentono di avere l’”attenzione”, come se la donna
dicesse: “mi picchia quindi mi cerca, mi desidera, ecc…” Ovviamente si sottolinea
che si tratta di manifestazioni quanto meno condannabili ed esecrabili.
Ll’acciso
Si ve conviene nu
dichiaramento,
tant’onore pe mme. – L’onore è
moi…
Ccà stesso ?? – Pe’
dimane. Appuntamento
A mezzanotte. – resta fatto. –
Addio –
Quatto parole. E doppo
mezzanotte,
’a sera appresso, Carmine De
Riso,
pe’ mmano ’e Ciro Assante e cu
tre botte,
nterra, ’int’’o vico,
rummanette acciso.
Pe’ mbriaco ’o pigliano
albante iuorno:
lle s’accustaie ’na femmina
vicino,
e se mettette a ffa’: - Te
miette scuorno?!…
Porco! A primma matina vive
vino!…
Vino?
Era sanco. Lle parette vino,
nterra, ’na macchia e
sancofriddo e mollo…
-Sciù
nnanz’’a chiesia ’e santo severino!…
E lle menaie nu cato d’acqua
ncuollo…
La
poesia, inserita nella raccolta Poesie e Prose affronta il
tema della sfida a duello all’ultimo sangue tra due persone. Il morto viene
trovato di primo mattino da una donna alla quale sembra vino la macchia di
sangue che scorre sulla strada e pensa si tratti di un ubriaco. La tematica
della malavita è una piaga purtroppo sempre attuale nella nostra società.
Incisiva la chiusa: “ E le buttò un secchio d’acqua addosso”, come se volesse
lavare il delitto con un po’ d’acqua.
’O guaio
- Arresta! Arresta!… ferma!… -
Uh mamma mia!
Che sarrà?… Vuie sentite?… Che
sarrà?…
Scetateve!… - Faranno
…pe’…pazzià…
-Arresta! Arresta! - Vuie
sentite, oi ma?
-Secutanno a quaccuno mmiez’
’a via…
Iamm’a vedè… - No… che
n’avimma fa?…
Bene mio! Sta saglienno ’a
pulezzia!
Giesù chi è stato?! … Oi
ma’…Ma’…Ascite cca’
- Ch’è stato? – Siete voi
Giuseppa Aiello?
- Sissignore sign’… - ci avete
un figlio?
- Nu figlio… sissignore…
Peppiniello…
-
Ha avuto quattro colpi di cortello…
Madonna!… - E ’a chi?… - Da un
certo Ciro Giglio,
- Figlio mio!... - Frate mio!…
- Figlio mio bello!
La
poesia, tratta da Poesie e Prose, descrive un’aggressione a colpi di coltello
nei confronti del figlio della signora Giuseppa Aiello. Efficace la
disperazione della madre e la reazione immediata del popolo che pensa si tratti di uno scherzo. Si evidenzia il
concetto della solidarietà delle persone con la madre in contrapposizione
all’atteggiamento della malavita che, incurante di chi potrebbe vedere, agisce
in pieno giorno in strada e priva, senza troppo pensare, una donna di suo figlio.
Bibliografia
Salvatore
Di Giacomo, Poesie,1907
Salvatore
Di Giacomo, Poesie e prose, 1990
La
poesia a Napoli a cura di Matteo D’Ambrosio, 1992
Libero Bovio
L’autore
«Figlio
di un filosofo con ideologie repubblicane (da qui il suo nome) e di una brava
pianista, Libero Bovio nacque l'8
giugno 1883 a
Napoli. Anche se frequentava i corsi universitari di Medicina non arrivò mai
alla laurea perché appassionato di teatro in lingua. Infatti la sua prima
realizzazione risale al 1902, appena diciannovenne. Morto il padre, fu esortato
a trovarsi un impiego che gli consentisse il sostentamento. Trovò lavoro prima
in un quotidiano locale Don marzio
poi al Museo Nazionale di Napoli fino a diventare direttore dell'Ufficio
Esportazioni: attività che gli daranno l’opportunità di scrivere molto. Gode di
una popolarità strepitosa e gli aneddoti raccontano delle scene di vero e
proprio entusiasmo al suo passaggio per le strade della città. Con la sigaretta
sempre tra le labbra diventa ben presto uno dei più grandi personaggi della
Napoli dell’inizio del secolo scorso. Amore, gioia e dolore si alternano
continuamente nella sua produzione e nella sua vita. Sempre pronto alle
battute, in possesso di una grande comunicabilità, rappresenta a lungo uno
stimolante interlocutore nei salotti di una Napoli alla ricerca della sua
identità. Grandissima la varietà dei temi, trattati sempre con immediatezza
popolaresca, anche nelle poesie non destinate alla musica. Perché, se è vero
che viene ricordato come autore di versi intramontabili in vernacolo, è anche
vero che evidenziò condizioni e temi comuni ai grandi poeti del decadentismo italiano
ed europeo. La sua poesia Vespero, ad esempio, tratta il tema della
solitudine, tema che si ritrova, com’è noto, nei grandi poeti del nostro
Novecento: si notano la stessa contemplazione stupita del paesaggio, la
fugacità della vita e alla ricerca fanciullesca del linguaggio della natura. Fu
giornalista, autore di teatro e novelliere. Della sua produzione ricordiamo
titoli famosissimi: Passione, Silenzio cantatore, Chiove,
Guapparia, Signorinella. I musicisti furono i maestri Gaetano
Lama, Nicola Valente, E. Nardella, E. de Curtis, Rodolfo Falvo, ed altri. Nella
canzone napoletana Bovio inventò anche il genere drammatico.
Si racconta che un giorno Libero Bovio, nella sede della
casa musicale La canzonetta di Francesco Feola, seduto alla scrivania,
leggeva a Mario Spera, direttore della rivista omonima, una sua nuova lirica.
Entra un gerarchetto fascista, inviato dal federale per informare il poeta che
era arrivato Edmondo Rossoni, un alto esponente del partito, il quale
desiderava vederlo; avanza fino alla scrivania e pronunzia con molto sussiego
il suo nome preceduto dal grado. Bovio, che vuole terminare la lettura della
poesia, gli dice: “Pigliatevi una
sedia”. Il gerarchetto, con tono offeso, risponde: “Non avete capito chi sono?” E ripete
il proprio nome e grado. Bovio, senza alzare la testa: "Ah!... Allora pigliatevi ddoi segge!".
Grazie a compagnie di prosa farà del resto conoscere a tutta l’Italia la sua
personale inesauribile vena poetica così come quella dell'intera città. Poi,
costretto da una malattia a rinchiudersi in casa, come definitivo poetico atto
d'amore dedica alla sua compagna il suo ultimo canto: Addio Maria. A
raccogliere l'eredità artistica è il figlio Aldo, giornalista de Il Mattino ed autore oltre che di
canzoni e sceneggiature di colonne sonore.
Organizzatore e regista da molti anni rappresenta il polo
di numerose manifestazioni artistiche della città. Altre sue composizioni sono:
Carulì Carulì; ’A canzone ’e Napule; Nun volio fa niente; Sona chitarra;
Tarantella luciana; Carufanella; Guapparia; Nonna nonna; Tu ca nun chiagne;
Fron’ ’e cerase; Regginella; Ncoppa ’a ll’onna; Brinneso; Silenzio cantatore;
Chiove; Lacreme napulitane; ’O paese d’
'o sole; Tarantella scugnizza; Zappatore; Guappo song’io; Passione.
Così dice di lui Ettore De Mura: «Di grande ingegno e di
solida cultura, di squisita sensibilità, scrisse poesie e canzoni
originalissime ch’ebbero vasta risonanza. Fu il pioniere della “canzone
drammatica”, con la quale ottenne successi indimenticabili. […]
Poeta
vigoroso in ogni suo comportamento seppe inquadrare con sintetici ma profondi
tocchi, un dramma, uno squarcio di vita, tormentata ed amara, rievocativa e
nostalgica. Vita trasfusa in lirica, l’arte sua. Questo il segreto dei suoi
successi innumerevoli».
Libero
Bovio morì nella sua casa di via Duomo a Napoli il 26 maggio 1942.
Ettore
de Mura, Enciclopedia della Canzone Napoletana
Ettore De Mura, Poeti
napoletani dal seicento ad oggi, 1989
Poesie
scelte
Lacreme napulitane
Mia cara madre,
sta pe’ trasí Natale,
e a stá luntano cchiù mme sape amaro....
Comme vurría allummá duje o tre biangale...
comme vurría sentí nu zampugnaro!...
A ’e ninne mieje facitele ’o presebbio
e a tavula mettite ’o piatto mio...
facite, quann’è ’a sera d’’a Vigilia,
comme si ’mmiez ’a vuje stesse pur’io...
E ’nce ne costa lacreme st’America
a nuje Napulitane!...
Pe’ nuje ca ce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule,
comm'è amaro stu ppane!
Mia cara madre,
che so’, che so’ ’e denare?
Pe’ chi se chiagne ’a Patria, nun so’ niente!
Mo tengo quacche dollaro, e mme pare
ca nun so’ stato maje tanto pezzente!
Mme sonno tutt’ ’e nnotte ’a casa mia
e d’ ’e ccriature meje ne sento ’a voce...
ma a vuje ve sonno comm’a na "Maria"...
cu ’e spade ’mpietto, ’nnanz’ ’o figlio ’ncroce!
E nce ne costa lacreme st’America
e nuie napulitane…
sta pe’ trasí Natale,
e a stá luntano cchiù mme sape amaro....
Comme vurría allummá duje o tre biangale...
comme vurría sentí nu zampugnaro!...
A ’e ninne mieje facitele ’o presebbio
e a tavula mettite ’o piatto mio...
facite, quann’è ’a sera d’’a Vigilia,
comme si ’mmiez ’a vuje stesse pur’io...
E ’nce ne costa lacreme st’America
a nuje Napulitane!...
Pe’ nuje ca ce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule,
comm'è amaro stu ppane!
Mia cara madre,
che so’, che so’ ’e denare?
Pe’ chi se chiagne ’a Patria, nun so’ niente!
Mo tengo quacche dollaro, e mme pare
ca nun so’ stato maje tanto pezzente!
Mme sonno tutt’ ’e nnotte ’a casa mia
e d’ ’e ccriature meje ne sento ’a voce...
ma a vuje ve sonno comm’a na "Maria"...
cu ’e spade ’mpietto, ’nnanz’ ’o figlio ’ncroce!
E nce ne costa lacreme st’America
e nuie napulitane…
Pe’ nuie ca nce chiagnimmo ’o
cielo ’e Napule
Comm’ è amaro stu ppane!
Mm’avite scritto
ch’Assuntulella chiamma
chi ll’ha lassata e sta luntana ancora...
Che v’aggia dí? Si ’e figlie vònno ’a mamma,
facítela turná chella “signora”.
Io no, nun torno...mme ne resto fore
e resto a faticá pe’ tuttuquante.
I’, ch’aggio perzo patria, casa e onore,
i’ so’ carne ’e maciello: So’ emigrante!
E nce ne costa lacreme st’America
e nuie napulitane…
Mm’avite scritto
ch’Assuntulella chiamma
chi ll’ha lassata e sta luntana ancora...
Che v’aggia dí? Si ’e figlie vònno ’a mamma,
facítela turná chella “signora”.
Io no, nun torno...mme ne resto fore
e resto a faticá pe’ tuttuquante.
I’, ch’aggio perzo patria, casa e onore,
i’ so’ carne ’e maciello: So’ emigrante!
E nce ne costa lacreme st’America
e nuie napulitane…
Pe’ nuie ca nce chiagnimmo ’o
cielo ’e Napule
Comm’è amaro stu ppane!
Questi
versi struggenti, tratti dalla raccolta Poesie
e canzoni e musicati in una famosissima canzone, ci riportano ai primi
decenni del Novecento quando numerose erano
le navi che partivano piene di napoletani che emigravano per l’America.
Vi è
descritto il quadro di una famiglia divisa sia dalla necessità di emigrare del
capofamiglia sia da incomprensioni che hanno portato alle separazione dei
coniugi. Ma umano il risvolto sentimentale nelle parole «Facítela turná chella
"signora"». Nonostante abbia sbagliato, la moglie è ammessa a tornare
in famiglia perchè la figlioletta la cerca e la vuol vedere.
Senza sole
Dint’a nu vecariello senza
sole
J’ sentivo ’e cantà matina e
ssera;
erano belle musica e parole;
e ’a voce era cchiù fresca ’e
Primavera.
Penzaie: “Forse è ’a cchiù
bella ’e sti figliole
Chella che canta spensierata e
allera,
e tene ll’uocchie ca so’ doie
viole
ca danno luce a ’na faccela e
cèra.”
E le mannaie ’na lettera
d’ammore
- ’na lettera ’a cchiù ardente
e ’a cchiù
sincera
a
’stu bello canario cantatore.
Ma
avette pe’ risposta sta mmasciata;
“
Chella che canta d’ ’a matina a’ sera
e tene
‘a voce d’oro, è ’na cecata.”
Questi
versi, tratti dalla raccolta Poesie e
canzoni del 1993 toccano il tema delle solidarietà sociale in cui un
giovane si innamora di una bellissima voce e pensa che altrettanto bella è la
ragazza che canta e allora decide di scriverle una lettera
d’amore . Riceve, però, una risposta che lo gela: “Quella che canta dalla
mattina alla sera è una cieca”.
Incisiva la chiusa che, come una lama affilata,
trafigge il cuore del giovane innamorato.
Bibliografia
Libero Bovio, Poesie e
canzoni, Napoli 1993
Raffaele Viviani
L’autore
«Raffaele Viviani nacque a Castellammare
di Stabia il 10 gennaio del 1888 da famiglia povera, il padre cappellaio e poi
vestiarista teatrale e la madre casalinga. Ad appena 4 anni e mezzo fece il suo
esordio in un teatrino di marionette sito in via Foria, di proprietà di Aniello
Scarpati. A soli dodici anni Raffaele rimasto orfano del padre rimase in un
profondo stato d'indigenza e col gravoso compito di badare alla madre ed alla
sorella Luisella. Gli anni della sua gioventù, semmai ne ebbe una, li spese a
girare in lungo ed in largo l'Italia intera allo scopo di ricevere una
scrittura, affermarsi e quindi provvedere alla sua famiglia. A 20 anni
compiuti, grazie alla sua forza di volontà, alle sue doti artistiche, ed al suo
spirito di sacrificio, il nostro Papiluccio era già conosciuto ed apprezzato
nei teatri di tutta la penisola, la sua bravura e la sua fama lo portarono ben
presto fuori dai patri lidi. Nel 1911 lo troviamo a Budapest, nel 1915 a Parigi, nel 1925 a Tripoli e poi ancora
in Brasile, Uruguay e Argentina. Papiluccio portò alla ribalta di tutti i
teatri quei tipi da lui resi celebri, come: ’O
scugnizzo, ’O scupatore, ’O cucchiere, ’O sunatore ’e pianino, ’O tramviere, ’O
mariunciello, Il mendicante e moltissimi altri ancora. Raffaele Viviani é
stato l'attore più importante della prima metà del 1900, nelle sue bellissime
opere ha raccontato una Napoli viva, quella Napoli dei vicoli, dei mille
mestieri, con i suoi tanti nei: prostitute, guappi, lenoni, ladri, ma anche
commercianti, lavoratori, operai, contadini. Viviani con i suoi toni, le sue
armonie ed i suoi colori, ha costituito per lungo tempo l'unica nuje stà».
(Pausa) A miseria nun te fa capì niente cchiù ! S'addiventa
n'incosciente.
Alternativa al teatro pirandelliano, creando egli stesso
una nuova forma di fare teatro, una nuova forma che purtroppo (e lo diciamo a
malincuore) é rimasta lì, ferma, senza che nessuno, che ne fosse degno, abbia
ripreso il suo discorso. La sua arte era immensa, la sua maschera era stupenda,
Viviani fu anche poeta ed autore di bellissime canzoni. Egli divenne uno dei
maggiori esponenti della drammaturgia napoletana, e ci fa piacere ricordare,
tra le sue più belle opere: ’O vico,
Tuledo ’e notte, Lo sposalizio, Circo equestre Squeglia, I pescatori e Morte di
Carnevale. Si spense il 22 marzo del 1950 e, prima di morire, dopo esser
stato zitto per più di 12 ore, trovò la forza di chiedere, con un ultimo sforzo
e con un tenue filo di voce: “Arapite, faciteme vedé Papule”».
Viviani
racconta Viviani
«1888...
Nacqui a Castellammare di Stabia, la notte del 10 all'una e venti, figlio di un
cuor d'oro di donna e di un padre cappellaio, più tardi vestiarista teatrale.
Mio
padre, Raffaele, anche lui, era l’impresario teatrale dell’Arena Margherita, dove recitavano i poveri “Pulcinelli” del
tempo, specialmente in estate... le cose andarono a male e proprio all’indomani
della mia nascita, in pieno battesimo, un sequestro tributario costrinse mio
padre a venirsene a Napoli... sua città natale... S’era creato un vasto corredo
di attrezzi teatrali e di costumi e cominciò a fornire i teatrini dei quartieri
popolari... Lo accompagnavo... e stavo là a godermi lo spettacolo.
M’interessava la recita dell’Opera dei
Pupi del teatrino della Porta di San Gennaro... Cantava tra i “numeri” che
completavano lo spettacolo marionettistico un certo Gennaro Trengi, tenore e
comico... Una sera si ammalò...Fui vestito con l’abito di un pupo che mia madre
raffazzonò alla meglio... Avevo quattro anni e mezzo e cantai... con voce
tremula, esitante...Dopo qualche mese... ebbi anch’io la mia paga... ed anche
tanti bei vestitini a colori, come li usava il Trengi... Ebbi ben presto anche
una duettista, Vincenzina Di Capua, una bellissima adolescente... ed io la
corteggiavo, sia nelle vesti di monaco, nel duetto “Fra Bisaccia” che in quello
di un ufficiale del 700 - il duetto Un
bacio rendimi... dall’opera comica Le
educande di Sorrento dell’Usiglio - e, a stento, le arrivavo alla vita!
Vincenzina, per darmi un bacio, in iscena, doveva piegare il busto in
avanti...Mio padre voleva che non sbagliassi mai, che non mutassi una virgola
di quanto mi aveva pazientemente insegnato. Una mossa non fatta a tempo, appena
rientravo in quinta... giù una frustata ed io piangevo; e lui mi vestiva e mi
asciugava gli occhi buttandomi fuori per l’altra canzone».
Raffaele
Viviani, Dalla vita alle scene,
Napoli, Guida editori, 1988
Poesie
scelte
Fravacature – 1930
All’ acqua e a ’o sole fràveca
cu na cucchiara ’mmano,
cu na cucchiara ’mmano,
pe’ ll’ aria ’ncopp’ a
n’anneto
fore a nu quinto piano
fore a nu quinto piano
Nu pede miso fauzo,
nu movimento stuorto,
nu movimento stuorto,
e fa nu volo ’e l’angelo:
primma c’arriva, è muorto
primma c’arriva, è muorto
Nu strillo; e po’ n’accorrere
gente e fravecature.
gente e fravecature.
- Risciata ancora… È Ruoppolo!
Tene ddoie criature!
Tene ddoie criature!
L’ aizano e s’ ’o portano
Cu na carretta a mano.
Cu na carretta a mano.
Se move ancora ll’ anneto
Fore d’ ’o quinto piano.
Fore d’ ’o quinto piano.
E passa stu sparpetuo
cchiù d’uno corre appriesso;
cchiù d’uno corre appriesso;
e n’ato, ’ncopp’a n’anneto,
canta e fatica ’o stesso.
canta e fatica ’o stesso.
‘Nterra, na pala ’e cavece
cummoglia a macchia ’e sango,
cummoglia a macchia ’e sango,
’e sghizze se scereano
cu ’e scarpe sporche ’e fango.
cu ’e scarpe sporche ’e fango.
Quanno ’o spitale arrivano,
’a folla è trattenuta,
’a folla è trattenuta,
e chi sape ’a disgrazia
racconta comm’è gghiuta.
racconta comm’è gghiuta.
E attuorno, tutt’ ’o popolo:
-Madonna!—Avite visto?
-Madonna!—Avite visto?
-D’ ’o quinto piano—’E
Virgine!
-E comme, Giesucristo…?!
-E comme, Giesucristo…?!
E po’ accumpare pallido
chillo c’ ha accumpagnato:
chillo c’ ha accumpagnato:
e, primma ca ce ’o spiano,
fa segno ca è spirato.
fa segno ca è spirato.
Cu ’o friddo dint’a ll’anema
’a folla s’alluntana
’e lume gia s’appicciano
’a via se fa stramano.
’a via se fa stramano.
E ’a casa, po’, ’e mannibbele,
muorte, poveri figlie,
muorte, poveri figlie,
mentre magnano, a tavola ,
ce ’o diceno a ’e famiglie.
ce ’o diceno a ’e famiglie.
’E mamme ’e figlie
abbracciano,
nu sposo abbraccia ’a sposa …
nu sposo abbraccia ’a sposa …
E na mugliera trepida ,
aspetta, e nn’ arreposa.
aspetta, e nn’ arreposa.
S’appenne ’a copp’ ’a ll’asteco
sente ’o rilorgio : ’e nnove!
Se dice nu rusario…
e aspetta nun se move.
L’acqua p’ ’o troppo vòllere
s’è strutta int’ ’a tiena,
s’è strutta int’ ’a tiena,
’o ffuoco è fatto cènnere
Se sente na campana.
Se sente na campana.
E ’e ppiccerelle chiagnano
pecchè vonno magnà’ :
pecchè vonno magnà’ :
-Mamma, mettiamo ’a tavula!
-Si nun vene papà?
-Si nun vene papà?
‘A porta! Tuzzuleano:
-Foss’isso? - E va ’arapi’.
-Foss’isso? - E va ’arapi’.
-Chi site? - ’O capo d’opera.
Ruoppolo abita qui?
Ruoppolo abita qui?
- Gnorsì, quacche disgrazia ?
Io veco tanta gente…
Io veco tanta gente…
- Calmateve, vestiteve…
- Madonna! - È’ cosa ’e niente.
- Madonna! - È’ cosa ’e niente.
È sciuliato ’a l’anneto
d’’o primmo piano. - Uh, Dio!
d’’o primmo piano. - Uh, Dio!
e sta ’o spitale? - È logico.
- Uh, Pascalino mio!
- Uh, Pascalino mio!
’E ddoie criature sbarrano
ll’uocchie senza capì;
ll’uocchie senza capì;
’a mamma, disperannose,
nu lamp a se visti’;
nu lamp a se visti’;
’e cchiude ’a dinto; e
scenneno
pe’ grade cu ’e cerine.
pe’ grade cu ’e cerine.
- Donna Rache’! - Maritemo
che ssà, sta ’e Pellerine.
che ssà, sta ’e Pellerine.
È sciuliato ’a ll’anneto.
- Si, d’ ’o sicondo piano
- Si, d’ ’o sicondo piano
E via facendo st’anneto,
ca saglie chiano chiano.
ca saglie chiano chiano.
- Diciteme, spiegateme.
- Curaggio. - È muorto?! - È muorto!
- Curaggio. - È muorto?! - È muorto!
D’ ’o quinto piano.
’All’anneto.
Nu pede miso stuorto.
Nu pede miso stuorto.
P’ ’o schianto, senza
chiagnere,
s’abbatte e perde ’e senze.
s’abbatte e perde ’e senze.
È Dio ca vo ’na pausa
a tutte ’e sofferenze.
a tutte ’e sofferenze.
E quanno a’ casa ’a portano,
trovano ’e ppìccerelle
trovano ’e ppìccerelle
’nterra, addurmute. E luceno
’nfaccia ddoie lagremelle.
’nfaccia ddoie lagremelle.
commento
nello stesso link: «Meravigliosa poesia di Raffaele Viviani la mia preferita
sfido chiunque leggendo questo capolavoro di poesia a non piangere».
Viviani
artista versatile, scrisse numerose poesie dialettali, ispirate a soggetti
reali della vita di quartiere. Grazie alla straordinaria bellezza del dialetto
napoletano, il “genio stabiese”, seppe enfatizzare con singolare abilità,
alcuni aspetti tipici della vita sociale d'epoca.
Attualissima
purtroppo ancora oggi la poesia del 1930 che affronta il tema delle morti
bianche, sempre troppe nel nostro Paese.
La descrizione dell’incidente occorso a questo muratore,
tale Pasqualino Ruoppolo, assume un tono, man mano che la narrazione va avanti,
sempre più incalzante e serrato. Questo crescendo è presente anche nella
descrizione della moglie che lo aspetta a casa con i figli, a cui viene in
seguito detto che il marito si trovava al primo piano, poi al secondo e infine
al quinto. Struggente l’immagine dei colleghi di lavoro che raccontano
l’episodio alle mogli che abbracciano i loro sposi. Ancora più commovente
quella dell’andito che ancora si muove dopo la caduta come ad indicare
l’inesorabilità sia del tempo che dell’accaduto.
’A
canzone d’’a fatica - 1928
Staje ’mbracato ’ncopp ’a
ll'anneto.
- Scenne ’o vi'! na caurara.
- Pronta ’a càvece! Piglia ’a cucchiara! Jammo, ’e pprete!
- Scenne ’o vi'! na caurara.
- Pronta ’a càvece! Piglia ’a cucchiara! Jammo, ’e pprete!
- E s'accummencia ’a fatica'.
- Saglie ’o vi'! Guagliù,
sbrigàmmoce
ca ’a jurnata se ne va.
Tira ’ncoppa! Guè, spicciàmmoce:
stu balcone, pe' stasera, se ha da fa'.
ca ’a jurnata se ne va.
Tira ’ncoppa! Guè, spicciàmmoce:
stu balcone, pe' stasera, se ha da fa'.
’A scala! ’O cato ’e ll'acqua!
Chi va svelto, nun se stracqua!
Dduie cuòfene ’e mattune
’ncopp' ’e spalle ’e sti guagliune!
Chi va svelto, nun se stracqua!
Dduie cuòfene ’e mattune
’ncopp' ’e spalle ’e sti guagliune!
’A càvece! doie prete!
Votta ’e mmane! ha perzo ’e ddete!
Cummuoglie sti parete
e ’o balcone è fatto già.
Votta ’e mmane! ha perzo ’e ddete!
Cummuoglie sti parete
e ’o balcone è fatto già.
Fravecammo ’a casa ’o
prossimo,
sulo ’a nosta sta ’mprugetto:
’o ’ngigniere contr'a ll'architetto
pecchè ’appardo nun se sape a chi ’hann' ’a da'.
sulo ’a nosta sta ’mprugetto:
’o ’ngigniere contr'a ll'architetto
pecchè ’appardo nun se sape a chi ’hann' ’a da'.
Leva mano! Chi se côpera?
’E mattune? hann' arriva'.
Maie pe' nuje sta mano d'opera
s'è pututa, pe' na vota, autilizza'!
’E mattune? hann' arriva'.
Maie pe' nuje sta mano d'opera
s'è pututa, pe' na vota, autilizza'!
E arronza sti cucchiare,
sti sciamarre e’'e ccaurare;
si no perdimmo ’o trammo:
n'ora e mmeza ’ncopp' ’e ggamme.
sti sciamarre e’'e ccaurare;
si no perdimmo ’o trammo:
n'ora e mmeza ’ncopp' ’e ggamme.
E cu ’o cappiello ’a sgherra
cu ’a salute nun m'attierre.
Vicino ô palo ’e fierro
ce ’a sapimmo dichiara'.
cu ’a salute nun m'attierre.
Vicino ô palo ’e fierro
ce ’a sapimmo dichiara'.
Ancora
una poesia sul lavoro, ancora muratori, ma un’atmosfera meno grave della
precedente. È il momento corale del lavoro, il momento in cui si trasmette
tutto l’entusiasmo oltre che l’allegria per il lavoro che dura tutta la
giornata fino al rientro a casa: prendiamo questo, prendiamo quello ecc…Amara
la nota che trafigge come una lama: “Ricostruiscono le case degli altri ma la
nostra è solo un progetto inteso come
pensiero ed esiste solo nella nostra mente.”
’O scupatore - 1910
“ Mannaggia ’a mazza ’e scopa e quanno maie
patemo me menaje dint’ ’a scupata!
Jette a du na perzona altolocata;
e chillo: “ Vo’ nu posto? Ha da scupa’!”
Mo ca te lagne, parle d’aumento:
te faie nemice, pierde ‘e dignità;
e siente ’e di’: “ Ccà n’ati cincuciento
già stanno pronte pe’ ve rimpiazzà!”
Tutte sti muorte ’e famma
cresceno comm’ ’e microbe:
so’’a summa d’’a miseria
patemo me menaje dint’ ’a scupata!
Jette a du na perzona altolocata;
e chillo: “ Vo’ nu posto? Ha da scupa’!”
Mo ca te lagne, parle d’aumento:
te faie nemice, pierde ‘e dignità;
e siente ’e di’: “ Ccà n’ati cincuciento
già stanno pronte pe’ ve rimpiazzà!”
Tutte sti muorte ’e famma
cresceno comm’ ’e microbe:
so’’a summa d’’a miseria
’e tutt’ ’a società!
Ngutte? T’abbutte ’e collera.
Sfuoghe? Cu cchi? Cu ll’aria!
’A vocca ’a tiene? E ’nzerrala,
pecchè nun puo’ parla’.
E scerùppate tutt’ ’e pponte ’e pietto,
tutte sti strate, sempe malamente!
E quanno è doppo vene nu sergente
e dice ca si’ muscio a fatica’.
E’ nu brutto mestiere, ’o scupatore!
E i’ v’’o dico cu tutta l’esattezza,
pecchè ce songo nato ’int’’a munnezza;
e tengo competenza e serietà.
Sulo na cosa sta ’int’ ’a classa nosta:
ca nun te truove nu privilegiato.
Nuje simmo tutte uguale, uno cu n’ato,
cu ’a stessa scopa ’mmano pe’ scupa’.
Comme a tutte nuje aute,
forze, ched’è, nun scopano
pure ’ncoppa “San Giacomo”
chille ca stanno llà?
Nuje pulezzammo ’e scale,
’e strate, ’e piazze ’e Napule,
lloro, cu ’a penna, scopano
’e sorde d’’a città.
Siente dint’ ’e discurse : “Scioperate!”
E va buono, d’accordo, sissignore.
Ma che vuo’ sciopera’ si l’assessore
nun ce fa caso si scupammo o no?
Nun è comme a muglierema che, a’ casa,
quann’io ce vaco cu sti bbracce rotte,
è capace ’e me di’ quase ogne notte:
- Ma comme, sulo ccà nun vuo’ scupa’?-
E io po’ che aggi’ a rispondere?
Me ’nquarto, me murtifico,
ma è sempe tutto inutile:
’a vita accussì va.
’E fforze nun me rejeno
’e fa chisti servizie.
Si a’ casa me sacrifico,
servo a ll’umanità.”
Ngutte? T’abbutte ’e collera.
Sfuoghe? Cu cchi? Cu ll’aria!
’A vocca ’a tiene? E ’nzerrala,
pecchè nun puo’ parla’.
E scerùppate tutt’ ’e pponte ’e pietto,
tutte sti strate, sempe malamente!
E quanno è doppo vene nu sergente
e dice ca si’ muscio a fatica’.
E’ nu brutto mestiere, ’o scupatore!
E i’ v’’o dico cu tutta l’esattezza,
pecchè ce songo nato ’int’’a munnezza;
e tengo competenza e serietà.
Sulo na cosa sta ’int’ ’a classa nosta:
ca nun te truove nu privilegiato.
Nuje simmo tutte uguale, uno cu n’ato,
cu ’a stessa scopa ’mmano pe’ scupa’.
Comme a tutte nuje aute,
forze, ched’è, nun scopano
pure ’ncoppa “San Giacomo”
chille ca stanno llà?
Nuje pulezzammo ’e scale,
’e strate, ’e piazze ’e Napule,
lloro, cu ’a penna, scopano
’e sorde d’’a città.
Siente dint’ ’e discurse : “Scioperate!”
E va buono, d’accordo, sissignore.
Ma che vuo’ sciopera’ si l’assessore
nun ce fa caso si scupammo o no?
Nun è comme a muglierema che, a’ casa,
quann’io ce vaco cu sti bbracce rotte,
è capace ’e me di’ quase ogne notte:
- Ma comme, sulo ccà nun vuo’ scupa’?-
E io po’ che aggi’ a rispondere?
Me ’nquarto, me murtifico,
ma è sempe tutto inutile:
’a vita accussì va.
’E fforze nun me rejeno
’e fa chisti servizie.
Si a’ casa me sacrifico,
servo a ll’umanità.”
La
poesia, dolcissima, parla del lavoro dell’operatore ecologico che tiene pulite
le vie di Napoli con la sua scopa. Ha trovato lavoro grazie all’interessamento
di una persona altolocata. Poi non può lamentarsi o chiedere aumenti perché per
uno che lascerebbe molti altri sarebbero pronti a rimpiazzarlo: purtroppo la
disoccupazione è tanta. Quindi è costretto a sottostare anche a coloro che
dicono che non lavora abbastanza. Non riceve comprensione neanche in famiglia
perché arriva sempre a casa stanco e non riesce
ad assecondare i desideri di sua moglie. Ma una soddisfazione c’è. “Si a
casa me sacrifico servo a ll’umanità” e , proprio oggi, alla luce dei problemi
sorti con l’emergenza rifiuti non si può
negare quanto sia importante e utile alla società il lavoro di chi rende pulito
l’ambiente. Dignitosi e incisivi gli ultimi versi: “servo all’umanità”.
Guaglione
- 1931
Quanno
pazziavo ô strummolo,
ô
liscio, ’e ffiurelle,
a
ciaccia, a mazza e pìvezo,
ô
juoco d''e ffurmelle,
stevo
’int''a capa retena
’e
figlie ’e bona mamma,
e me
scurdavo ’o ssolito,
ca me
murevo ’e famma.
E
comme ce sfrenàvemo:
sempe
chine ’e sudore!
'E
mamme ce lavaveno
minute
e quarte d'ore!
Giunchee
fatte cu ’a canapa
'ntrezzata,
pe’ fa’ a pprete;
sagliute
’ncopp'a ll'asteche,
p’annaria’
cumete;
po’ a
mare ce menàvemo
spisso
cu tutte ’e panne;
e
’ncuollo ce ’asciuttàvemo,
senza
piglià malanne.
’E
gguardie? sempe a sfotterle,
pe’
fa' secutatune;
ma ’e
vvote ce afferravano
cu
schiaffe e scuzzettune
e à
casa ce purtavano:
Tu,
pate, ll'hè ’a ’mparà!
E
manco ’e figlie lloro
sapevano
educà.
A
dudece anne, a tridece,
tanta
piezz’ ’e stucchiune:
ca
niente maie capévamo
pecché
sempe guagliune!
’A
scola ce ’a salavamo
p’
’arteteca e p’ ’a foia:
’o
cchiù 'struvito, ’o massimo,
faceva
’a firma soia.
Po’
gruosse, senza studie,
senz'arte
e senza parte,
fernevano
pe' perderse:
femmene,
vino, carte,
dichiaramente,
appicceche;
e
sciure ’e giuventù
scurdate
’int'a nu carcere,
senza
puté ascì cchiù.
Pur’io
pazziavo ô strummolo,
ô
liscio, ê ffiurelle,
a
ciaccia, a mazza e pìvezo,
ô
juoco d’’e ffurmelle:
ma, a
dudece anne, a tridece,
cu ’a
famma e cu ’o ccapì,
dicette:
- Nun pò essere:
sta
vita ha da fernì.
Pigliaie
nu sillabario:
Rafele
mio, fa’ tu!
E me
mettette a correre
cu A,
E, I, O, U.
La
poesia è del 1931. La lunga poesia di Raffaele Viviani sugli scugnizzi di
strada mostra a quanti hanno ormai dimenticato i vecchi giochi che i ragazzi di
strada facevano nelle vie di Napoli, quant’era allegra la vita nei vicoli.
Tuttavia all’età della scuola media il nostro comincia a capire l’importanza dell’istruzione
e che la retta via è quella dell’abbecedario e di imparare a scrivere e a
leggere.
Amicizia -
1931
Amicizia
è n'acqua chiara,
cristallina,
trasparente,
ca
s'appanna dint'a niente
e
pirciò ch'è cosa rara.
Cchiù
'amicizia è bella e cara,
cchiù
se sporca facilmente:
'mmisturata
'a tanta gente
ca te
lassa 'a vocca amara.
Chi 'a
vo' limpida 'e durata,
nn' 'a
sfruttasse pe' prufitto,
s' 'a
tenesse, comm'è nata,
dint'
'o core. E llà, 'amicizia,
quanno
'o calculo sta zitto,
nun se
sporca e nun s'avvizi
La
poesia è un inno all’amicizia paragonata ad un’acqua chiara e cristallina da
non utilizzare con spreco, senza calcolo alcuno. Il poeta la descrive con una
freschezza in un sonetto dove il confronto tra l’amicizia e l’acqua è efficace
e lascia senza fiato tanto è pertinente. Tenero il pensiero: se la vuoi
duratura non la sfruttare per uno scopo personale, ma tienila così com’è nata
nel cuore, solo così puoi coltivarla come una tenera piantina.
So’
Bammenella ΄copp’e Quartiere -1915
So’
Bammenella ’e copp’e Quartiere
Pe
tutta Napule faccio parlà
Quanno
annascuse p’e vicule ’a sera
’ncopp’
’o pianino me metto a ballà.
Veco
a’ ’mbulanza, int’a niente m’ ’a squaglio!
E si
m’afferra me torna a lassa’!
‘Ncopp’a’
quistura , si ’e vvote ce saglio,
è pe’
formalità.
Cu ’a
bona maniera
Faccio
cade’ ’o brigadiere,
piglio
e lle vengo ’o mestiere:
dico
ca ’o tengo ccà.
‘O
zallo s’ ’o mmocca,
l’avota
’a capa e s’abbocca,
ma nun
me tocca,
me
n’ha da mannà.
Me
fanno ridere certi perzone
Quanno
me diceno: Penza pe tte!
Io
faccio ’ammore cu ’o capo guaglione
E spengo ’e llire p’ ’o fa’ cumpare’.
Sto
sotto ’o debbeto, chisto è ’o destino :
ma c’è
chi pava pirciò lassa fa’.
Tengo
a nu bello guaglione vicino
Ca me
fa rispettà!
Chi
sta int’ ’o peccato
Ha da
tene’ ’o nnamurato
Ch’appena
dopo assucciato ,
s’ha
da sapè appiccecà’.
E
tutte ’e serate,
chillo
m’accide’e mazzate!
Me vo’
nu bene sfrenato,
ma
nun’o dà a parè!
Mo so’
tre mise ca’o tengo malato,
sacc’io
che spenno pe farlo sanà!
Però
‘o dottore cu me s’è allummato,
pe
senza niente m’ ’o faccio curà’.
E tene
pure ’o mandato ’e cattura.
Presto
’a’mbulanza s’ ’o vene a piglià.
Io
ll’aggio ditto: sta’ senza paura,
pe’
tte ce stongo io ccà!
Cu’a
buona maniera
Faccio
cadè ’ ’o brigadiere.
Isso
have ’o canzo’ e scappà.
Pe’
mme’o’ssenziale
È
quanno me vasa carnale.
Me fa
scurda’ tutt’ ’o mmale ca me facette fa’!
La
poesia è stata l’emblema della bellissima canzone che affronta il tema della prostituzione. La
poesia scritta nel 1915 e composta originariamente sul motivo del valzer
brune fu musicata in seguito dal poeta e
inserita nella commedia Tuledo
’e notte.
Descrive
la realtà di una donna costretta a vendere il proprio corpo perché innamorata
dell’uomo che la sfrutta. Tutta la turpitudine del lavoro che è costretta a
fare viene in un lampo dimenticato quando riceve i suoi baci appassionati. La
chiusa, dolcissima, di una donna capace
di amare, ma purtroppo schiava del sentimento più bello.
‘O
malamente -1914
E
sissignore:
m’ha
fatto piacere
ca
t’he truvato a n’atu ’nnammurato!
Ma,
pe’ favore,
almeno
‘int’ ’o quartiere,
nun
fa’ accapi’ ca m’he licenziato,
si no
t’aggi’ a sfriggia’
pe’
dignità
Pe’ me
‘a prigione
comme
fosse nu casino
ca ce
vaco a villeggia’.
Senza
raggione,
na
carriera ’e malandrino
nun m’
’a pozzo ritarda’
pe’
fa’ ’ammore cu tte!
I
dint’ a niente,
me
sceglio a n’ata amante:
tengo
’a cinquanta femmene ’e riserva.
C’è
l’avvenente,
ce sta
l’affascinante;
e
ognuna ’e cheste me facesse ’a serva,
p’ ’o
sfizio ’e se vede’
vicino
a me.
Sciurillo
giallo,
che
aggi’ a fa’, s’io songo bello?
Te ne vaje? Peggio pe’ tte!
Vutanno
’e spalle,
doppo
n’uocchio a zennariello,
vide
’e femmene ’e cadè,
comm’
’e carte ’a juca’
E pe’
favore
mi
devi ritornare
’o
fazzoletto ’e seta (sta tre llire!).
Certo
un signore
Non se
lo fa ridere.
Ma io
me lo piglio poi per non sentire:
“
Ll’oggette, comme va,
nun s’
‘e ffa da’?”
Rutto
pe’ rutto:
damme
pure ’e brillante’.
Certo
fa brutto:
ma’ ’e
riale ca te dette
nun t’
’e pozzo rummane’.
L’aggi’
a ancora pava’.
Sulla
stessa falsariga della precedente anche questa poesia scritta nel 1914 ci parla del “cattivo”. Il
personaggio è uno sfruttatore da strapazzo Inserito in “Toledo di notte”. E’ indicativa di un tipo di mentalità
fortunatamente desueta; secondo quest’ultima il guappo non poteva essere
lasciato da una certa donna perché ci
faceva una brutta figura. Da notare che “’Nnamurato” sta per protettore e non
per innamorato. Si evince dal fatto che ha cinquanta femmine di riserva, tutte
belle e gradevoli di aspetto.
'O
muorto 'e famma - -1910
Si
appiccio nu cerino ’nnanze ’a panza
se
vede ’o ttrasparente ’areto ’e rine.
’A
verità, parlanno cu crianza,
ce
tengo sulo ll'acqua ’int’ ’e stentine.
Ah! Sto debbole abbastanza.
Me
saglie tutto ’o sanghe ’a parte ’a capa.
Mme
veco ’e palummelle ’nnanze a ll'uocchie.
Pare
ca ’a terra, ’a sotto, me s’ arape
e già
sto scunucchianno ’int’ ’e ddenocchie.
Comm’è ppesante ’a vita!
Uh,
mamma mia! aiutateme!
Mo
moro! Gente! Gente!
No,
m'è passato: è niente:
m’ ’o
ffa primm’ ’e magna’.
Diceno:
«Va te sfame ’int’ ’a taverna».
«E ’e
sorde?» «Faie nu pigno». «E che
me ’mpigno?»
Io, si
’a miseria fosse na lucerna,
rappresentasse
’a parte d’ ’o lucigno.
Pe’ me nun c'è risorsa!
Me
vengo quacche oggetto? E che me danno?
Avarri’
’a truva’ quacche amatore.
Ce sta
sta sciassa, già se sta sfrangianno,
ma è
sempe nu capetto d'autore.
Papà spusaie cu chesta!
E i’
scapestrato, ’a sciupo,
ma è
pe’ necessità:
pecchè
n’ata sciammeria
mo nun
m’ ’a pozzo fa'.
Ce sta
n’amica mia ca mme vo’ bene:
e io
mo m’ ’a sposo e ’a levo ’a miez’ ’a via.
’A
voglio fa’ fà ’a vita d’ ’a signora:
nun
’mporta ca nun mangia a’ tratturia,
nè a’ casa, nè all'otèl.
Ma, si
nun magna, ’a faccio vesti’ bbona:
comme
vest’io. E pare ca, addò jammo,
’a
ggente sott’ ’o colpo se n'addona
ca
simmo ’a marca ’e fabbrica d’ ’a famma:
’o stemma d’ ’a miseria.
Embè,
tra ll’ati guaie,
’a
notte è n’arruvina:
me
sonno a Cuncettina
pe’
mme ferni’ ’e ’nguaia’.
La
poesia, inserita in Santa Lucia Nova,
descrive simpaticamente e con ironia la sensazione della fame e quindi della
povertà. Tenerissimo il pensiero, in un frangente così particolare, di pensare
a sposarsi con un’amica che gli vuol bene per farle fare “una vita da signora”!
E complimenti per l’ottimismo!
La crisi - 1931
Dice
‘o pate: - Ma addò jammo?
Figlie
mieie , ccà appena uscimmo,
limitate, addò accustammo
so’
denare ca spennimmo.
Quatte
passe, a riva’e mare,
si
vulite, v’accuntento;
ma
però a caccia’ denare,
nun
c’è cchiù divertimento.
E si
piglio ‘o tramme e ghiammo,
nun ve
dico: e ghi’ e veni’:
simmo
nove, addò arrivammo?
E
pecchè nun voglio ascì?
Si trasimmo
‘a nu dulciere,
pe’ na
pasta e nu cafè,
quanno
e doppo , ‘o cammariere,
me
svacanta nu gilè.
Pure
‘e cineme so’ care:
siimo
nove, ‘e terze poste,
cinche
e trenta e so’ denare:
ve
mangiate ‘e ddote voste.
Nun ce
sta ch’a ghi’ ô triato,
comme
fanno tutta ‘a gente.
Ce
spassammo ed è assodato:
nun
pavammo ‘o riesto ‘e niente!
Songo
amico ‘e nu cugnato
D’’o
‘mpresario d’’o “Russini”,
e
conosco pure ‘o frate
d’’o
custode d’’o “Bellini”.
Addò
jammo, ce razziammo,
E addù
chisto e addù chill’ato:
sempe
a scoppole passammo .
Quacche
vota aggio pavato?
O
triato nun se paga
s’have
gratis ‘o biglietto.
E ‘na
piaga che dilaga:
Potrei
avere ‘nu palchetto?
E cu’o
capo d’’a famiglia
Uno
passa ‘a voce a n’ato,
e
ogneduno cerca e piglia
‘n’amicizia
a nu triato.
E na
sfera sbafa ô “Nuovo”,
n’ata
sera ô “Mercadante”.
Ce
vulesse ‘nu rirtrovo
Comme
‘o llargo a piazza Dante.
Vide
‘a ggente, ma ‘a cascetta
Te fa
pena d’’a guardà.
C’è
una crisi maledetta.
Ccà
nisciuno vo’ pava’.
La
poesia attualissima ancora oggi , così come può essere attuale in ogni periodo
di crisi, affronta il problema dei pochi soldi e dei molti bisogni.
Praticamente pare che non si possa fare nessuna cosa per distrarsi tranne
passeggiare in riva al mare senza entrare in nessun bar. Simpatica la trovata
di andare a teatro senza pagare il biglietto ingraziandosi l’impresario o il
custode. La poesia induce a spunti di riflessione sui tempi che corrono e le
difficoltà materiali della vita.
Bibliografia
Raffaele
Viviani, Poesie, Napoli, Guida editori,
1974.
E. A. Mario
L’autore
«E.A. Mario, il
cui vero nome era Giovanni Gaeta, nacque a Napoli il 5 maggio del 1884, al vico
Tuttisanti nel popoloso quartiere Vicaria. Le condizioni precarie della
famiglia, il padre era barbiere, sembravano precludergli gli studi. Nonostante,
però, egli lavorasse come garzone nella bottega del padre, riuscì a conseguire
la licenza elementare, ma, in seguito, per le ristrettezze economiche della
famiglia, abbandonò la frequenza dell’Istituto Nautico. All'età di quindici
anni, Giovannino lasciò la bottega paterna e s'impiegò come postino in un
ufficio postale di piazza Garibaldi. Segretamente, però, cominciava a
strimpellare ed a scrivere versi, nonché a scrivere articoletti sui giornali,
finché un giorno non ebbe un incontro che gli cambiò letteralmente la vita. Era
il 1904, Giovanni aveva solo vent’anni, nel suo ufficio postale capitò
l’illustre maestro Segré al quale tentò di consegnare una lirica. Il tentativo
andò a vuoto. Ma il giorno dopo gli consegnò i versi di Cara Mammà;
Segré, entusiasta, li pubblicò. Giovanni Gaeta, però, non volle firmarla col
suo nome e scelse lo pseudonimo di E. (iniziale di Ermes come si firmava al
giornale), A. (iniziale di Alessandro, redattore capo del suo giornale) e Mario
(nome di una scrittrice polacca che dirigeva il giornale Il Ventesimo). Dopo alcune canzoni musicate da altri, E.A. Mario
decise di musicarle in proprio e nacquero così: Maggio, si' tu, Funtana
all'ombra e Io’na chitarra e ’a luna. Al grande pubblico nazionale,
E.A. Mario, regalò La leggenda del Piave. Giovanni divenne anche editore
di se stesso e ogni anno pubblicava un fascicolo di articoli intrisi di
polemiche, contro tutto e tutti. La morte lo colse il 24 giugno 1961. Nel 1984,
primo centenario della sua morte, Mario Gili ha pubblicato, in una serie
limitata di mille esemplari, la raccolta Funtane e funtanelle, poesie
inedite che E.A. Mario affidò a Ottavio Nicolardi, figlio di Edoardo e suo
genero, poco prima di morire.
Così
lo ricorda l’amico Roberto Esposito:
«E.A. Mario assunse tale pseudonimo in onore e
ricordo del patriota e scrittore Alberto Mario, uno dei Mille. Dà una lettura
differente Max Vajro che a tal proposito dice che la "A" fu presa dal
nome di Alessandro Sacheri, direttore del giornale II lavoro che era un suo protettore e che gli permise di
collaborare nel giornale. Mario invece gli venne dallo pseudonimo col quale la
poetessa slava Maria Clarvy firmava le sue apparizioni nello stesso giornale II lavoro. Era talmente affezionato al
suo pseudonimo che la sua dolce moglie lo chiamò sempre "Mario" a
guisa di nome. L'arte di scrivere versi e la collaborazione col giornale non
gli consentivano un reddito adeguato e pertanto s'impiegò alle Poste, il cui stipendio
lo metteva al sicuro per il quotidiano. Tramite il suo "ufficio"
conobbe il Maestro Segrè: ne nacque una collaborazione che sfociò nella sua
prima canzone Cara Mammà. Tutte le sue poesie erano frutto di una
sorprendente vena melodica e siccome non aveva mai frequentato un
conservatorio, riusciva con l'aiuto del suo fidatissimo mandolino a creare
tante canzoni che sono ancora oggi fra le più belle e più colte, di cui, a
volte ne era anche l'appassionato esecutore canoro. Mentre lavorava come
impiegato postale, pubblicò numerose raccolte di versi e novelle. Raggiunse la
fama grazie a canzoni come Io, ’na chitarra e ’a luna, Ladra, Vipera,
Santa Lucia Luntana, Le rose rosse, Balocchi e profumi, Tammunata
nera, Duie paravise, Funtana all'ombra, Canzona
appassiunata, Presentimento, Maggio si’ tu e tante altre
ancora. Legò il suo nome alla canzone patriottica La leggenda del Piave
della quale fu anche primo interprete, immortalando quei tragici momenti della
guerra 1915-1918.
Ho
conosciuto personalmente il Comm. Mario, perché frequentava il salotto Phonotype dove incontrava i maestri
Tagliaferri e Giannini, i quali si prestavano a trascrivergli le canzoni da lui
fischiate o suonate sul mandolino. In particolare ricordo la nascita delle
canzoni ’O vascio e Tammuriata nera. E.A. Mario fin dall’infanzia
fu grande amico di mio padre Americo Esposito, fondatore della Phonotype Record, ma fra loro non riuscì
mai a concretizzarsi un rapporto confidenziale e per tutta la vita lui e mio
padre si dettero sempre del "Voi", in segno di stima e rispetto.
Ricordo con tanto affetto quando, in occasione dei funerali per la morte di mio
padre; prese la parola con la mano tenuta sulla bara e le sue prime parole
furono: "Consentimi Amerì in questo triste momento di darti del tu per dichiararti
tutto l'affetto, la stima ed il rispetto che ci ha uniti fino ad ieri quando
moristi lasciando affranta tua moglie e nove figli…
Aniello
Costagliola, giornalista e poeta d’una rara acutezza, cosi definì Giovanni
Gaeta: "II signor tutto della canzone napoletana, poeta, musicista,
editore e spesso esecutore deliziosissimo delle cose sue".[…]».
Il poeta nel ricordo della
figlia Bruna Catalano Gaeta:
«Mio padre E.A. Mario (al secolo
Giovanni Gaeta) figlio di genitori salernitani, fu un personaggio di rilievo,
dotato di una straordinaria intelligenza che si evidenzia per la poliedricità
della sua vasta e profonda cultura letteraria, poetica, storica e musicale. La
sua creatività era immediata, impulsiva, spontanea ed estremamente sincera, una
sincerità senza limiti ed una generosità senza barriere. Autodidatta (per
necessità economiche) fece leva sulla sua voglia di conoscere, di ricercare, di
capire, di indagare, di appropriarsi insomma di tutto ciò che lo incuriosiva,
lo allettava, lo affascinava. Facendo leva sui ricordi della mia lontanissima
adolescenza, mi accorgevo che quando papà, caratterialmente allegro, era
irretito da uno stimolo creativo, trasformava l’espressione del suo volto, che
acquisiva un aspetto quasi ascetico, i suoi begli occhi color d’oro, assumevano
uno sguardo più intenso, mentre il suo recondito pensiero poetico o musicale, o
tutt’insieme lo estraniava dagli altri e poi, con immediatezza d’artista,
trasferiva sulla carta le sue emozioni, realizzandole in poesie, canzoni e
quant’altro il suo estro gli suggeriva. Per conversa, e con la stessa nobiltà
d’animo, era innata in lui una grande umiltà, forse perché tutte quelle
potenzialità di cui era dotato le considerava assolutamente normali, ma da
custodirle con amore, senza inorgoglirsi
come la sua dignità gli suggeriva. Di carattere gioviale e scherzoso, attirava intorno a sé ammirazione e simpatia, ed era tipico quel suo sorriso che gl’illuminava il volto. Rotondo ed anche la sua risata spontanea e coinvolgente. Purtroppo non gli fu risparmiata l’ingratitudine e peggio ancora, l’invidia, che dilagò apertamente tra coloro che “navigavano nelle stesse acque”, cioè i canzonieri, poeti anch’essi affermati o musicisti anch’essi acclamati, di cui gli uni avevano bisogno degli altri per far canzoni, mentre papà realizzava tutto da solo, musica e poesia. E per queste ragioni papà fu costretto a difendersi, affidando alla sua penna, così scorrevole nell’arte poetica e letteraria, a diventare una lancia in testa per difendersi da malcelate malelingue perché era un uomo d’onore e non ammetteva l’insulto. Per questo fu tacciato “uomo polemico” con un cattivo carattere, espressioni parecchio azzardate se si pensa che egli non fu mai un opportunista, non ebbe mai un influente protettore e non fu nemmeno “un figlio di papà” per poter sfruttare una nascita privilegiata.[…] Umorista sottile, mordace, umano, ironico, cogliendo, per le sue contraddizioni che la vita stessa ci pone innanzi, elementi di comicità e…sottofondi drammatici.».
come la sua dignità gli suggeriva. Di carattere gioviale e scherzoso, attirava intorno a sé ammirazione e simpatia, ed era tipico quel suo sorriso che gl’illuminava il volto. Rotondo ed anche la sua risata spontanea e coinvolgente. Purtroppo non gli fu risparmiata l’ingratitudine e peggio ancora, l’invidia, che dilagò apertamente tra coloro che “navigavano nelle stesse acque”, cioè i canzonieri, poeti anch’essi affermati o musicisti anch’essi acclamati, di cui gli uni avevano bisogno degli altri per far canzoni, mentre papà realizzava tutto da solo, musica e poesia. E per queste ragioni papà fu costretto a difendersi, affidando alla sua penna, così scorrevole nell’arte poetica e letteraria, a diventare una lancia in testa per difendersi da malcelate malelingue perché era un uomo d’onore e non ammetteva l’insulto. Per questo fu tacciato “uomo polemico” con un cattivo carattere, espressioni parecchio azzardate se si pensa che egli non fu mai un opportunista, non ebbe mai un influente protettore e non fu nemmeno “un figlio di papà” per poter sfruttare una nascita privilegiata.[…] Umorista sottile, mordace, umano, ironico, cogliendo, per le sue contraddizioni che la vita stessa ci pone innanzi, elementi di comicità e…sottofondi drammatici.».
Ettore De Mura, Poeti napoletani dal
Seicento ad oggi,1989
Poesie scelte
Santa Lucia luntana
Partono ’e bastimente
pe’ terre assaje luntane...
Cántano a buordo:
so’ Napulitane!
Cantano pe’ tramente
’o golfo giá scumpare,
e ’a luna, ’a miez’ ’o mare,
nu poco ’e Napule
lle fa vedé...
Santa Lucia!
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
E sònano...Ma ’e mmane
trèmmano ’ncopp’ ’e ccorde...
Quanta ricorde, ahimmé,
quanta ricorde...
E ’o core nun ’o sane
nemmeno cu ’e ccanzone:
Sentenno voce e suone,
se mette a chiagnere
ca vo’ turná...
Santa Lucia,
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
Santa Lucia, tu tiene
sulo nu poco ’e mare...
ma, cchiù luntana staje,
cchiù bella pare...
È ’o canto d’ ’e Ssirene
ca tesse ancora ’e rrezze!
Core nun vo’ ricchezze:
si è nato ’a Napule,
ce vo’ murí!
Santa Lucia,
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
pe’ terre assaje luntane...
Cántano a buordo:
so’ Napulitane!
Cantano pe’ tramente
’o golfo giá scumpare,
e ’a luna, ’a miez’ ’o mare,
nu poco ’e Napule
lle fa vedé...
Santa Lucia!
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
E sònano...Ma ’e mmane
trèmmano ’ncopp’ ’e ccorde...
Quanta ricorde, ahimmé,
quanta ricorde...
E ’o core nun ’o sane
nemmeno cu ’e ccanzone:
Sentenno voce e suone,
se mette a chiagnere
ca vo’ turná...
Santa Lucia,
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
Santa Lucia, tu tiene
sulo nu poco ’e mare...
ma, cchiù luntana staje,
cchiù bella pare...
È ’o canto d’ ’e Ssirene
ca tesse ancora ’e rrezze!
Core nun vo’ ricchezze:
si è nato ’a Napule,
ce vo’ murí!
Santa Lucia,
Luntano ’a te,
quanta malincunia!
Se gira ’o munno sano,
se va a cercá furtuna...
ma, quanno sponta ’a luna,
luntano ’a Napule
nun se po’ stá!
Questi versi, scritti nel 1919,
diventati poi una delle più famose canzoni napoletane, trattano il tema
dell’emigrazione, di chi è andato via da Napoli per cercare lavoro, argomento
sempre attuale. Nella lirica intrisa di malinconia due sono le tematiche: l’incertezza del
domani e la nostalgia per Napoli che si fondono e danno vita a momenti di
elevato vigore poetico.
Nisida
Nìsida è ’n’isola, nu scoglio
Ca tene ll’acqua tuorno
tuorno,
scoglio ca tene albere e case:
cose addò stanno ll’abitante:
e ce so’ stato ’e galiote
ca ’e ccundannaino a sta’ ‘a
spartata,
comme si nuje fòssemo ‘e buone
e lloro, invece, ‘e malamente…
Ma, si nun sbaglio, ‘a terra
intera
Sta mmiezo a ll’acqua : e
quann’è chesto,
nuje simmo tutte galiote?
Va trova ‘a chi, ma condannate
Nuje simmo tuttequante, e ‘a
terra
Chest’è: na Nitida cchiù
grossa!
Nisida
è un bel sonetto di E A Mario che fa vedere in una luce diversa i carcerati di
Nisida. Nisida è uno scoglio circondato dal mare come la terra. A Nisida
ci sono detenuti in isolamento ma, tutta
la terra è un’isola come Nisida e allora il poeta chiede: noi siamo tutti
detenuti? Si, siamo tutti detenuti e la
terra non è altro che una Nisida più grande!
Efficace e prorompente la
chiusa rende tutto il sonetto estremamente gradevole e affronta il tema della
solidarietà sociale verso i carcerati.
E. A. Mario, Pampuglie,
Napoli 1951
Tammurriata
nera
Je nun capisco ’e vote che
succede
e chello ca se vede nun se crere nun se crere
È nato nu criaturo è nato niro
e a mamma ’o chiamma ggiro sissignore ’o chiamma ggiro
e chello ca se vede nun se crere nun se crere
È nato nu criaturo è nato niro
e a mamma ’o chiamma ggiro sissignore ’o chiamma ggiro
Se vota e gira se
se gira e vota se
ca tu ’o chiamme ciccio ’o ’ntuono
ca tu ’o chiamme peppe ’o ggiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè
se gira e vota se
ca tu ’o chiamme ciccio ’o ’ntuono
ca tu ’o chiamme peppe ’o ggiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè
’O contano e cummare chist’
affare
sti case nun so rare se ne vereno a migliare
E vote basta sulo na uardata
e ’a femmena è remmasta sott’ ’a bbotta ’mpressiunata
sti case nun so rare se ne vereno a migliare
E vote basta sulo na uardata
e ’a femmena è remmasta sott’ ’a bbotta ’mpressiunata
Se na uardata se
se na ’mpressione se
va truvanne mo’ chi è stato
c’ha cugliuto bbuono ’o tiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’ ’a chè
se na ’mpressione se
va truvanne mo’ chi è stato
c’ha cugliuto bbuono ’o tiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’ ’a chè
E ddice ’o parulano embè
parlamme
Pecchè si arraggiunamme chisti fatte ’nce spiegamme
Addò pastena ’o grano ’o grano cresce
riesce o nun riesce sempe è grano chello ch’esce
Pecchè si arraggiunamme chisti fatte ’nce spiegamme
Addò pastena ’o grano ’o grano cresce
riesce o nun riesce sempe è grano chello ch’esce
Sè dillo a mamma sè
sè dillo pure a me
conta ’o fatto comm’ è gghiuto
si fuje ciccio ’ntuono o ggiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè
sè dillo pure a me
conta ’o fatto comm’ è gghiuto
si fuje ciccio ’ntuono o ggiro
chillo ’o fatto è niro niro, niro niro comm’a chè
E ssignurine ’e caporichino
fann’ammore cu ’e marrucchine
’e marrucchine se vottano ’e lanze
’e ssignurine cu ’e panze ’nnanze.
fann’ammore cu ’e marrucchine
’e marrucchine se vottano ’e lanze
’e ssignurine cu ’e panze ’nnanze.
Amerivan express
damme ’o dollaro ca vaco ’e pressa
ca sinnò vene ’a pulis
mett’ ’e mmane arò vò isso.
damme ’o dollaro ca vaco ’e pressa
ca sinnò vene ’a pulis
mett’ ’e mmane arò vò isso.
Ajere ssera a piazza dante
’a panza mia era vacante
si nunn’era po’ contrabbando
je mo’ ggià stevo ’o campusanto.
’a panza mia era vacante
si nunn’era po’ contrabbando
je mo’ ggià stevo ’o campusanto.
E llevate ’a pistuddà
e llevate ’a pistuddà
cu chisti pacch’nmane
e llevate ’a pistuddà. (2 volte)
e llevate ’a pistuddà
cu chisti pacch’nmane
e llevate ’a pistuddà. (2 volte)
Sigarette babà
caramelle mammà
fischiette bambino
e dduje dollare ’e ssignurine.
caramelle mammà
fischiette bambino
e dduje dollare ’e ssignurine.
A cuncetta e nanninella
lle piacevano ’e caramelle
mo’ s’appresentano pe’ zetelle
vanno a fernì ‘ncopp’ ’e burdelle.
lle piacevano ’e caramelle
mo’ s’appresentano pe’ zetelle
vanno a fernì ‘ncopp’ ’e burdelle.
E ssignurine napulitane
fanno ’e figlie’ ’e ’mericane
’nce verimme ogge e dimane
’nmiezo porta capuana.
fanno ’e figlie’ ’e ’mericane
’nce verimme ogge e dimane
’nmiezo porta capuana.
E cercillo ’o viecchio pazzo
s’è vennuto ’e matarazze
e l’america pè dispietto
’nc’ha scippato ’e pile ’a pietto.
s’è vennuto ’e matarazze
e l’america pè dispietto
’nc’ha scippato ’e pile ’a pietto.
Ajere ssera magniaje pellecchie
’e capille ’ncopp’e ’rrecchie
’e capille ’ncopp’e ’rrecchie
’e capille ’e capille
e ’o ricotto ’e cammumilla
’o ricotto ’o ricotto
e ’a fresella cu ’a carnacotta
’a presella ’a fresella
e zì monaco tene ’a zella
tene ’a zella ’nnanze e arreto
uffa uffa e comme fete
elle fete ’e cane muorto
uè pe’ ll’anema ’e chillemmuorto.
e ’o ricotto ’e cammumilla
’o ricotto ’o ricotto
e ’a fresella cu ’a carnacotta
’a presella ’a fresella
e zì monaco tene ’a zella
tene ’a zella ’nnanze e arreto
uffa uffa e comme fete
elle fete ’e cane muorto
uè pe’ ll’anema ’e chillemmuorto.
E llevate ’a pistuddà
e llevate ’a pistuddà
cu chisti pacch’nmane
e llevate ’a pistuddà. (a finire)
e llevate ’a pistuddà
cu chisti pacch’nmane
e llevate ’a pistuddà. (a finire)
La
poesia canzone scritta nel 1946 da Nicolardi su musica di E.A. Mario, Tammurriata nera è un canto popolare che
racconta lo stupore della gente per un evento insolito per i tempi ispirato a
un fatto di cronaca, la nascita di un bambino nero da una donna napoletana.
L'episodio, commentato in modo esplicito con l'opinione del popolo, è la saggia
constatazione di un ortolano che quando si semina il grano sempre grano cresce
e testimonia ciò che accadeva sotto l'occupazione militare degli alleati
americani.
Pur non venendo nominato, il tema di fondo è la guerra: senza di essa non
si sarebbero verificati episodi di nascita di bimbi di colore, cosa che a
quell’epoca sorprendeva non poco. A questo si aggiunge il tema non meno
incisivo dell’evoluzione dei costumi e quindi della società. Oggi con
l’immigrazione è più possibile che le razze si mescolino e che la nascita di un
bimbo di colore non faccia più notizia. Roberto Murolo incluse Tammurriata nera nella sua antologia
della canzone napoletana e la canzone apparve nella colonna sonora di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica.
Riproposta nel 1974 dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, il brano raggiunse
una buona posizione nelle classifiche di quell'anno.
Si
segnala che questa canzone è l’unica da
noi riportata di cui E.A.Mario ha
composto la musica e non i versi.
Bibliografia
E. A. Mario, Pampuglie,
Napoli 1951
Ettore
De Mura, Poeti napoletani dal Seicento ad oggi,1989
Luciano Somma
L’autore
«Luciano Somma è nato a Napoli il 18
marzo 1940. Centinaia i premi ottenuti, numerosissimi primi premi assoluti, due
volte medaglia d'argento del Presidente della Repubblica. Inserito in
moltissime antologie, anche scolastiche, e nella prestigiosa Nati per la vita stampata in Russia
dall'edizione Raduca di Mosca dove figurano firme come Quasimodo, Pasolini,
Saba, Bevilacqua, De Filippo. Iscritto
all'albo dei giornalisti nell'elenco speciale, ha pubblicato e pubblica sui
periodici e sui quotidiani più importanti d'Italia (oltre 150 testate).
Paroliere iscritto alla S.I.A.E., dal 1967 ha all'attivo oltre 500 canzoni edite o
incise. Dal 1976 al 1990 ha
condotto rubriche di poesie e canzoni in diverse emittenti private e
televisive. Per un paio di anni ha collaborato, con rubriche varie, con Tele5
Napoli. Nonostante studi irregolari, nel 1987 gli è stata conferita la Laurea Honoris Causa
in Lettere e Filosofia per chiari meriti letterari. È presente in un numero
imprecisato di siti web, diversi giornali e periodici lo indicano come il poeta
più presente on line. Il suo nome figura, tra l'altro, in antologie come: Dizionario storico dei poeti italiani, Poetica napoletana del Novecento, La poesia a Napoli, Natale napulitano. È presente dal primo anno nell'Agenda dei Poeti (Edizioni OTMA di
Milano). Ha partecipato, e partecipa, in veste di giurato, a moltissimi
concorsi di poesia e narrativa. Nell'ottobre del 2005 è stato ospite in RAI2,
nella rubrica Non è mai troppo tardi.
Ha pubblicato: Ddoje
voce ’e Napule (Ed.La Commerciale, Napoli 1968), La mia ricchezza (Ed. L’Araldo del Sud, Napoli 1971 - Ed.
www.ricordati.com 2001, eBook), Dimane (Ed.
degli Artisti, Napoli 1977-1978, I e II edizione), N’atu dimane (Ed. Del Delfino, Napoli 1982), ’E ggranate (Ed. Terre, Napoli 1990), Musica nuova (Ed. Lo Stiletto, Napoli1993), Momenti di versi (Ed. Montedit, Melegnano1997 - Ed.
www.ricordati.com 2001, ediz. telematica),
Memorie d’alba (Ed. Otma, Milano1999), Brividi
di ricordi (Ed. Oceano, San Remo 2000, I ediz. - Ed. Di Salvo, Napoli 2000,
II ediz.), Cristo napulitano (Ed.
Oceano, San Remo 2000, I ediz. - Ed. I Miei colori, Pontassieve 2000, II ediz.
- Ed. Inediti, 2001 – eBook), Il pianeta
dei silenzi (Ed. Inediti, 2001 – eBook),
Ll’appuntamento (Ed.
www.ricordati.com 2001, eBook), Immagini (Ed.
Menna, Avellino 2001), L'alba di domani (Ed.
I Miei Colori, Pontassieve 2003, e-Book - Ed. Noialtri, Pellegrino 2005 conCD),
Omaggio a Napoli (CD con 11 poesie
napoletane recitate da Antonio Mencarini».
Il
poeta si racconta:
«Mi sono
avvicinato alla poesia all'età di 13 anni, per la verità i primi lavori erano
testi per canzoni (in seguito comunque sono diventato autore di testi di oltre
2000 brani di ogni genere) ed ho iniziato a collaborare con riviste
e giornali qualche anno dopo.
Per me la poesia
è una linfa vitale, uno degli scopi principali della mia vita, scrivo sia in
lingua che in napoletano, per quest'ultimo sento un predilezione poichè
rappresenta la mia lingua madre.
Ritengo inutile
elencare i numerosi premi vinti poichè il lettore attraverso i miei scritti
potrà rilevare la moltitudine di tematiche scritte in oltre 50 anni di
attività, e da essi potrà stabilire se la mia presenza poetica è giustificata,
o meno, dalla validità di ciò che ho prodotto.
Qualcuno può
pensare, nel leggere i miei versi, che alcuni siano autobiografici ma debbo
puntualizzare che invece la maggior parte sono stati ispirati da situazioni
ambientali e/o familiari (non mie) che mi hanno colpito e che ho messo su
carta tanti anni fa a penna, poi con la macchina da scrivere ed oggi
col PC.
Ritengo internet
uno dei maggiori traguardi che ha raggiunto oggi la tecnologia e che riesce a
far conoscere al mondo cose che fino ad un decennio fa sarebbero state
impensabli.
Concludo con uno
dei miei aforisma(scrivo anche quelli)nel quale
maggiormente identifico la mia attività letteraria ed artistica.
"Per giustificare
la propria incapacità l'alibi del fallito è la sfortuna"»
’O surdo e ’a cecata
E cammenammo p’ ’e strade d’ ’o munno
mane ’int’ ’e mmane, comme ’int’a nu suonno,
nuie simme nate: io surdo e tu cecata
però cu nuie ’a sciorta nun è ’ngrata.
Veco sulo pe’ tte, tu pe’ mme siente
e ce vulimmo bbene overamente
pecch'è sincero chistu sentimento
ch'ha saputo da' tutto dint'a niente.
Pure si tu me siente e nun me vide,
e parle mentre io veco e nun te sento,
io sento mille voce ’int’ ’o silenzio
tu vide ’a luce ’int’ all'oscurità.
E cammenammo p’ ’e strade d’ ’o munno
mane ’int’ ’e mmane, comme ’int’a nu suonno,
nuie simme nate: io surdo e tu cecata
però cu nuie ’a sciorta nun è ’ngrata.
Veco sulo pe’ tte, tu pe’ mme siente
e ce vulimmo bbene overamente
pecch'è sincero chistu sentimento
ch'ha saputo da' tutto dint'a niente.
Pure si tu me siente e nun me vide,
e parle mentre io veco e nun te sento,
io sento mille voce ’int’ ’o silenzio
tu vide ’a luce ’int’ all'oscurità.
La
poesia tratta dalla raccolta Dimane
pone l’accento sul tema della disabilità sensoriale: s’incontrano un
sordo e una cieca che, pienamente consapevoli delle loro difficoltà, ritengono
che la vita non sia stata ingrata con loro: la loro difficoltà si compensa a
vicenda con il loro amore e li ripaga di
ogni difficoltà.
La
tematica della solidarietà sociale si impone in questa poesia come il desiderio
di aiutarsi l’un l’altro.
Faccella nera
’O juorno, tutte ’e juorne,
vicino a nu semaforo staje là,
’mmiscanno ’a famma toja cu’ chesta famma,
dicenno, cchiù ’e na vota, vu’ cumprà?
Chisà ’a qua parte d’Africa tu viene,
pizzo d’ ’o munno povero e stramano,
cu’ n’atu Dio, cu’ n’ata tradizione,
cu’ l’uocchie fute e na faccella nera.
Staje là ch’aspiette
vide ’e passà migliare d’automobbile
pienze ca simme ricche ma nun saje
che dint’a sta rammera ce stà ggente
ch’adda fa ’e zumpe, ogn’ora e ogni mumento,
pe’ cercà ’a strada pe’ tirà a campà?
Nun stive meglio dint’ ’a terra toja?
Che sarrà avara, che sarrà matregna,
che sarrà triste quanno scenne ’a sera
ma quanno è l’alba ’o sole ’nfoca ancora
appiccianno ’a speranza ’e nu dimane.
No, rieste llà,
dint’a chesta città che stà chiagnenno
’a secule cu’ ’e llacreme ’e na mamma
che chiagne pecché nun po’ sfamà ’e figlie
ca comme a tte se ne so’ ghiute fore
ca comme a tte forze stenneno ’a mano
chisà ’int’a quà paese furastiere
cu’ ’a faccia janca ma cu’ ’a sciorta nera
cchiù nera d’’a faccella ca tu tiene
pecché ’a miseria nun tene culore
nun tene razza o patria, è senza core!
vicino a nu semaforo staje là,
’mmiscanno ’a famma toja cu’ chesta famma,
dicenno, cchiù ’e na vota, vu’ cumprà?
Chisà ’a qua parte d’Africa tu viene,
pizzo d’ ’o munno povero e stramano,
cu’ n’atu Dio, cu’ n’ata tradizione,
cu’ l’uocchie fute e na faccella nera.
Staje là ch’aspiette
vide ’e passà migliare d’automobbile
pienze ca simme ricche ma nun saje
che dint’a sta rammera ce stà ggente
ch’adda fa ’e zumpe, ogn’ora e ogni mumento,
pe’ cercà ’a strada pe’ tirà a campà?
Nun stive meglio dint’ ’a terra toja?
Che sarrà avara, che sarrà matregna,
che sarrà triste quanno scenne ’a sera
ma quanno è l’alba ’o sole ’nfoca ancora
appiccianno ’a speranza ’e nu dimane.
No, rieste llà,
dint’a chesta città che stà chiagnenno
’a secule cu’ ’e llacreme ’e na mamma
che chiagne pecché nun po’ sfamà ’e figlie
ca comme a tte se ne so’ ghiute fore
ca comme a tte forze stenneno ’a mano
chisà ’int’a quà paese furastiere
cu’ ’a faccia janca ma cu’ ’a sciorta nera
cchiù nera d’’a faccella ca tu tiene
pecché ’a miseria nun tene culore
nun tene razza o patria, è senza core!
La
poesia è tratta dalla raccolta Cristo Napulitano e, nell’ambito della
solidarietà sociale verso i bisognosi,
ripropone la tematica dell’immigrazione. La faccia nera dell’immigrato
che al semaforo chiede l’elemosina in un luogo che è già avaro di lavoro con i
propri figli è la stessa faccia dei tanti napoletani che hanno lasciato la loro
città in cerca di miglior sorte e hanno conosciuto la sofferenza e la miseria
in terre lontane.
Cronaca
E tutt’ ’e juorne ’a stessa
tiritera
sulo disgrazie maje nutizie allere
uommene accise spisso a tradimento
senza pietà, senz’ombra ’e pentimento.
’A droga, ’o cuntrabbando, l’estorsione,
s’allargano pe’ tutt’ ’e vvie d’’o munno
pe’ tutt’ ’e rrazze e tutt’ ’e rreliggione,
l’umanità scenne sempe cchiù ’nfunno.
Qua’ Pasca, qua’ Natale cà è n’inferno
manche dint’ ’e cunviente ce stà ’a pace
chisà che sta facenno ’o Pataterno
vurria saperlo pe’ mme fa capace.
Ma forze nun ci’azzecca simme nuje
c’avimmo perzo ’o bbene d’ ’a cuscienza
’mpietto tenimmo ’o ffele ca ce struie
e ’a ’mmeritammo chesta sufferenza.
’A vita è dono ’e Dio diceva ’o nonno,
povero viecchio comme se sbagliava,
chesti criature d’ogge comme ponno
campà comme na vota se campava.
Ogge chesto àdda scrivere ’o pueta
senza truvà nè pace nè arricietto
si guarda annanze e si s’avota areto
nun po’ truvà nisciuno atu suggetto.
‘Ncopp’a nu foglio ’e carta ’nfuso ’e chianto
mette ’a cronaca d’ogge pecché è storia
’e chisti vierze nun se ne fa vanto
so’ sultanto parole senza gloria!
sulo disgrazie maje nutizie allere
uommene accise spisso a tradimento
senza pietà, senz’ombra ’e pentimento.
’A droga, ’o cuntrabbando, l’estorsione,
s’allargano pe’ tutt’ ’e vvie d’’o munno
pe’ tutt’ ’e rrazze e tutt’ ’e rreliggione,
l’umanità scenne sempe cchiù ’nfunno.
Qua’ Pasca, qua’ Natale cà è n’inferno
manche dint’ ’e cunviente ce stà ’a pace
chisà che sta facenno ’o Pataterno
vurria saperlo pe’ mme fa capace.
Ma forze nun ci’azzecca simme nuje
c’avimmo perzo ’o bbene d’ ’a cuscienza
’mpietto tenimmo ’o ffele ca ce struie
e ’a ’mmeritammo chesta sufferenza.
’A vita è dono ’e Dio diceva ’o nonno,
povero viecchio comme se sbagliava,
chesti criature d’ogge comme ponno
campà comme na vota se campava.
Ogge chesto àdda scrivere ’o pueta
senza truvà nè pace nè arricietto
si guarda annanze e si s’avota areto
nun po’ truvà nisciuno atu suggetto.
‘Ncopp’a nu foglio ’e carta ’nfuso ’e chianto
mette ’a cronaca d’ogge pecché è storia
’e chisti vierze nun se ne fa vanto
so’ sultanto parole senza gloria!
La
poesia tratta dalla raccolta Cristo Napulitano ci parla di assassini,
estorsioni, orrori e brutture di ogni genere. Il poeta si chiede come si possa
oggi vivere come si faceva una volta, quando, come diceva il vecchio nonno, la
vita era considerata un dono di Dio. Questo scrive il poeta, e la realtà è così
cruda che dei versi che la raccontano non ci si può vantare.
Barboni
Te li ritrovi all'angolo
laceri e macilenti
ombre negli occhi stanchi
su facce senza età,
le mani tremolanti
tese verso i passanti
cercano carità,
fermati se lo vuoi
forse così potresti
leggere nel passato
vite vissute ai margini
di questa società.
Ancora li ritrovi alla stazione
tra i binari dei treni
o nelle sale d'attesa
seduti sotto la biglietteria
ad aspettar probabili monete
date da viaggiatori frettolosi
che osservano nervosi e preoccupati
tutti gli orari della ferrovia...
Loro non hanno fretta
e li ritrovi
a scartocciare pasti sempre asciutti
tra una bottiglia e l'altra
la cicca tra le labbra screpolate
nell'incomunicabile silenzio...
Se resti indifferente,
fingendo d'ignorarli,
guardati per un attimo allo specchio
e ti ritrovi.
laceri e macilenti
ombre negli occhi stanchi
su facce senza età,
le mani tremolanti
tese verso i passanti
cercano carità,
fermati se lo vuoi
forse così potresti
leggere nel passato
vite vissute ai margini
di questa società.
Ancora li ritrovi alla stazione
tra i binari dei treni
o nelle sale d'attesa
seduti sotto la biglietteria
ad aspettar probabili monete
date da viaggiatori frettolosi
che osservano nervosi e preoccupati
tutti gli orari della ferrovia...
Loro non hanno fretta
e li ritrovi
a scartocciare pasti sempre asciutti
tra una bottiglia e l'altra
la cicca tra le labbra screpolate
nell'incomunicabile silenzio...
Se resti indifferente,
fingendo d'ignorarli,
guardati per un attimo allo specchio
e ti ritrovi.
Nella
raccolta Momenti di versi l’immagine del barbone misero, affamato e alla
ricerca di cibo è un’immagine troppo presente a noi tutti. Ogni tanto, dice il
poeta, dovremo fermarci e ascoltare nel nostro incomunicabile mondo il loro
mondo e non restare indifferenti: basta guardare dentro sé e ti ritrovi.
Il
tema dell’incomunicabilità e dell’emarginazione per cui si invoca la
solidarietà sociale è affrontato dal
poeta con la consapevolezza dell’uomo moderno che tende a fuggire troppo spesso
anche da se stesso.
Bibliografia
Luciano Somma, Dimane,
Ed. Degli Artisti Napoli 1977
Luciano Somma,Cristo
Napulitano, Ed. I miei Colori, Pontassieve (Firenze) 2000
Luciano Somma, Momenti di
versi, Ed. Montedit – Melegnano (Milano) 1997
Nessun commento:
Posta un commento