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giovedì 4 giugno 2015

N PARDINI: LETTURA DI "CLEOPATRA" DI ANTONELLA RIZZO





Antonella Rizzo: Cleopatra. FusibiliaLibri. Pag. 72

Quello che al fin fine domina è l’idea della bellezza

Quei rami di cuore
avviluppati in tondo
serrati a proteggere
lembi di vita
costringeranno il nato
a non chiedermi giorni
ma stracci di pazienza
a contenere il fuoco.
Avrò gesti lascivi
dolci ricompense
e al battesimo dei sensi
affogheremo insieme
nudi come anime.

È così che inizia il racconto di Antonella Rizzo: un racconto di passione, amore, memorie, sperdimenti; turbamento di  sangue che “ribolliva come un braciere”; uso di tempi all’imperfetto che dà senso di continuità a confessioni ora tragiche ora riposanti in rievocazioni di Nili testimoni d’incontri: “Mi torna in mente la navigazione con il mio amato lungo il Nilo, viaggio fecondo”; Cleopatra che replica dopo la morte di Cesare: “Sto impazzendo./ So che il veleno continuo era/ solo brace per nutrire un amore destinato/ a finire come tutte le cose del mondo”; il tempo che passa veloce fagocitando il presente; la coscienza della precarietà del nostro vivere; il mistero della vita; la dualità intricante fra cuore e intelletto; l’inquietante ritorno delle nostre memorabili primavere; i tanti perché senza risposta che assillano la fragilità del nostro esserc/ci. Sta qui l’attualità della proposta letteraria di Antonella Rizzo. Oltre, naturalmente, alla stesura prosimetrica di particolare interesse stilistico; genere letterario, il prosimetro, che, in prosa e versi alternati in modo equilibrato, ci riporta all’età classica latina. Un genere assai  raro in letteratura,  nato, forse, con intenti parodico/satirici verso la lirica di tradizione greca, di cui uno dei primi esempi è costituito dalle satire menippee Di Marco Terenzio Varrone; genere che, poi, nel Medioevo, distaccandosi dai contenuti originali, affronta  temi filosofico-religiosi come il De consolatione philosofiae di Severino Boezio o La vita nuova di Dante. In età contemporanea i Canti orfici di Dino Campana, o Il Signore degli anelli di John Ronald Tolkien, ne divengono una specie di aveu lirico, con motivazioni completamente nuove, legate alla interiorità, al soggettivismo analitico e contemplativo di un orfismo che attribuisce un significato magico ed evocativo alla parola poetica; per cui la poesia è vissuta come fonte di salvezza, atta a ridare luce a un'anima immortale, ma da risvegliare, da strappare alle tenebre come l’immagine di Euridice. La poesia, dunque, come  missione suprema. E la Rizzo ne rappresenta una delle voci più autentiche e convincenti; più fini, e ammiccanti. Il titolo: Cleopatra. Divina donna d’Inferno. Riferimento al V canto dove “Dante descrive il secondo girone infernale, dedicato ai colpevoli di Lussuria” e dove “Cleopatra racconta con dignità ed orgoglio la Storia…” (dalla nota introduttiva dell’Autrice).. Fanno da prodromico avvio all’opera i versi contestuali che ci permettono di andare a fondo, fin dagli inizi, a quella che è l’intenzione emotivo-esistenziale della Nostra. Una ricerca di dati storici di rara potenza vicissitudinale atti a concretizzarne le emozioni; a fissarne gli stati d’animo con vivace realtà, dacché il quadro d’ensemble non fa altro che convalidare le tensioni dell’Autrice, attuando un’operazione di perlustrazione, scavo, e attualizzazione di un mondo che, se svestito della sua scorza di romanità, si fa vicenda di modernissimo stupore;  di attualissima e universale storia umana oltre i tempi; oltre il singolare accadimento, cucendo indissolubilmente passato presente e futuro per il logos del poièin; per la ritrattazione di Cleopatra, donna, con tutta la sua intensità epigrammatica, maturata gradatamente giorno dopo giorno: pericolo, paura, sacrificio, angoscia, morte, vita: “Dovevo prendere  delle scelte repentine ogni giorno, davanti a un nido di piccoli uccelli a cui erano state tagliate le ali e la mia pietà doveva liberare dall’agonia con la morte, con l’apparizione di orridi spiriti che dovevo fronteggiare con lo sguardo altero o l’esercizio dell’odio quotidiano verso umiliazioni sconcertanti connesse verso servi e malformi”;  “ La morte fu l’unico modo di fermare un Sole senza tempo, senza rivali. E quale donna non sarebbe impazzita dinanzi a una creatura ciclopica e immensa che non teme morale né leggi dinanzi a un amore comparso di notte avvolto in  un tappeto di pregio?”; potere, amore, sorte, simbiotica fusione di contrapposizioni di sapore eracliteo che rendono fresche le occasioni; contenuti portati all’ipoebole come spesso pretende la buona Poesia con lo sguardo rivolto all’oltre. Un testo di grande valenza letteraria, originale e sentito; nuovo e vissuto con generosa vis creativa, in cui l’Autrice, attraverso una vicenda erotico-esistenziale, fa della Storia una materia umana trasversale e verticale. Una materia che partendo dai minimi particolari diviene oggettiva e plurale attraverso un linguismo di urgente resa poematica e ontologica; ed è affondando la lama nella interiorità dei personaggi e ricorrendo ad ogni stratagemma per farne risaltare l’entità psicologica, che l’Autrice dimostra effettive capacità semantico/analitiche di ampio respiro morfologico; di potente intrusione drammatica che cerca canali altri per la sua esigenza oggettivante. Il culto per la Storia che si declina in mito, la sua rivisitazione in tinte moderne, la capacità di farne fonte di simboli ora erotici ora thanatici, ora passionali, ora struggenti e melanconici, sembrano essere i punti focali di un racconto che si diluisce in urgente ed espansa resa verbale dove la parola, per raggiungere le fughe emotive, si dilunga, si scorcia, si arrotonda, si contrae, si rigenera, si fa arcaica, anche,  traducendosi ora in brillanti stagioni, ora in cupe occasioni. Insomma c’è la  vita, con tutta la sua complessità, con tutta la sua polisemica struttura emotivo/contemplativa, dove il verso appare non  sufficientemente ampio a declinare tanta potenzialità esistenziale; per cui si alterna a prose che definire poetiche non è azzardato in tale narratologia che, ben integrata nella fluente  versificazione, ci offre un quadro compatto e organico. Anche forte nelle aspre confessioni di una donna che patisce lo stato del suo essere ed esistere: “… Sono la settima e la sola/ cobra femmina della  notte/ parendo in eterno la bestemmia/ di gravide e luride serve/ e dei loro infami montoni”; di una donna che “odiava essere una Dea e che voleva gettarsi nel fango come una serva, spogliarsi della sua divinità e mostrarsi nuda agli occhi di chi avrebbe incendiato il suo cuore con mani virili e non con maschere d’oro e promesse di immortalità”. Quanta verità umana, quanta sincerità trasversale in questi sentimenti che, in un rapporto, tendono a rivelarsi nudi, senza sovrastrutture e orpelli, né maschere pirandelliane. Ma quello che al fin fine domina è l’idea della bellezza. Un’idea per la quale vale la pena immolare tutto noi stessi. E quella Morte che più volte viene invocata o citata nel testo assume valore di catartica purificazione; di grande attaccamento alla vita, al suo irripetibile accadere, alla sua meravigliosa cabala. Dacché la morte ne fa parte ed è proprio perché esiste continuamente in noi che amiamo questa precaria, imperscrutabile, e fittizia presenza del vivere; e vogliamo lasciarla quando ne abbiamo smarrito la vitale potenza per la quale l’abbiamo amata: “Potrei assolvermi in qualunque momento ritirandomi  nelle stanze buie della vedovanza amorosa ma forse non basterebbe, e cadrei pericolosamente nell’oblio delle vittime di guerra… Lascio che la Morte, amica adorata, suoni trionfante lo strumento della vittoria  e consegni quella verità ai miseri di spirito… Non avrà importanza il talamo a cui affiderò il trono malato e la grazia con la quale spoglierò le mense nuove per nutrire i figli dell’Egitto”     

Ecco.
Mi incanta l’ultimo,
caro respiro della bellezza
che vaga nelle stanze di Roma.

La bellezza, sì, che incanta e frastorna; che percepiamo, ma che mai riusciamo a toccare o a vivere completamente per la sua mancanza di corpo, per la sua vaghezza, per la sua indeterminata consistenza; quella bellezza che, nella sua sostanza, si fa etica, universale; che trae qualcosa da ognuno di noi; ed è per questo che non riusciamo ad afferrarla del tutto; ed è per questo che sentiamo di far parte della sua plurale totalità.


Nazario Pardini

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