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martedì 16 giugno 2015

VITO LOLLI, E NAZARIO PARDINI: "LE TRACCE DEGLI DEI FUGGITI"


Vito Lolli collaboratore di Lèucade

Le tracce degli dèi fuggiti                            

Un saluto a tutti voi da nessun luogo. Considerazioni sparse, queste mie. Senza ordine, senza logica. La folgore colpisce dove è attirata e quando stanno per morire gli uomini cantano, dice il verso del poeta polacco. Gli dèi sono fuggiti, cantò uno degli ultimi poeti dell’occidente, cogliendone in questo l’essenza stessa. Egli comprese il silenzio del Cielo ma mai le parole degli uomini, e suo fu infine il silenzio della follia. Dio è morto, decretò il poeta filosofo che dell’occidente chiuse il tempo; nelle sue mani si spense il fuoco rubato da Prometeo. E il divino fuoco spento fu il buio della sua mente. Ma voi, che cavalcate il vostro cantare verso la candida Lèucade, sperate che siano le sue scogliere, le sue irraggiungibili spiagge, i suoi misteriosi anfratti, a fare da lussuoso recesso agli dèi fuggiti? Considerate così altisonante il canto odierno da credere di poter valicare il clamore assordante della Macchina e che i Divini nascosti vogliano rispondere rivelandosi? Non facciamo, forse, altro che riandare i sempiterni calli, percorsi e ripercorsi, detti e ridetti, illudendoci di poetare ancora mentre, in realtà, paroliamo l’ormai inessenziale? La fuga degli dèi non è forse l’immagine del farsi sterile di un linguaggio ormai esaurito, dal quale la Poesia non può che estraniarsi, ritirandosi? E la conseguente morte di Dio non è forse l’immagine dell’agonia di un tempo che proprio nell’assenza della Poesia sta vivendo la sua conclusione? No, la fuga non è fuga. Come onda dopo onda, alla spinta verso la terraferma segue il ritirarsi del mare, che ciclicamente torna in sé lasciando le tracce del proprio avanzamento. O forse il linguaggio si è fatto sterile a causa del suo progressivo stravolgimento fuorviante, il farsi parola-che-dice in luogo di quella parola-che-ascolta e risponde alla chiamata silenziosa del dio? La fuga, allora, non è che l’assenza di risposta in assenza di evocazione. Questo ci sottrae dall’ethos che costituisce l’essenziale, il nostro essere un dialogo coi Divini – e quando il dialogo tace è il mondo stesso che viene a mancare, lasciando i terrestri nell’abisso del tempo che travolge. Non sono dunque gli dèi ad essere fuggiti. Per questo, in assenza del dialogo che ci istituisce come uomini, non può darsi Poesia. E senza Poesia il volto dell’uomo si sfigura, si ritira in un riflusso immemore dell’esperienza ispirativa. Cessano le visioni, il sonno è morte senza più sogni. Il vuoto di tale oblìo è l’angoscia ma non si può poetare la non-poesia e restare indenni. Non esiste un canto del dialogo assente. Dopo il canto che annuncia il ritiro nel riflusso e l’oblìo dell’essere bisogna tacere.
La forza di ogni verso è la misteriosa eco della parola nascosta che orienta la rotta verso l'orizzonte di tale ritirarsi, annunciato dalla poesia stessa. Vagabondi nel tempo della povertà, naufraghi in un infinito ove solo possenti primevi uccelli volarono spinti dal turbine di ali angeliche e un giovane, piccolo Icaro prigioniero misurò le sue misere finzioni di smisurata libertà, poetiamo per rimemorare le tracce degli dèi rifluiti e aprire una via per lasciarci bagnare, o sommergere, dalla prossima onda, per sognare il dio venturo e poetarne la Misura. Forse anche per cogliere l’eco lontana, e ancora inudibile, che ci annuncia la mai avvenuta morte di alcun dio. Ma l’udibile aderisce all’inudibile, come il visibile all’invisibile e il pensabile all’impensabile: al di là dell’orgoglio tragico, figlio della miope idea della morte, non c’è più spazio e tempo per rimpiangere dèi fuggiti o morti. Nulla di tutto questo, che non sia la nostra misera alienazione, la de-funzione dei nostri superiori canali di comunicazione, il mortale sonno della coscienza avvelenata dalla volontà di potenza. E noi siamo ancora l’ebbrezza di Icaro, divenuto uccello d’acciaio che strazia un Cielo non più grembo angelico.                 Gli ultimi angeli hanno cantato il compiersi di un destino già rivelato, e i lampi che ne hanno lacerato i cuori e le menti sono il viatico di un crepuscolo inquietante. Queste sono le ultime folgori di Zeus. E su queste tragiche folgori della poesia ultima, che chiudono il tempo dell’occidente annunciando, dopo il tramonto, la notte in cui tutto si cela nell’oscurità della latenza che custodisce la rigenerazione del divino, le ceneri del linguaggio, con tutte le illusioni della conoscenza, attendono l’istante di oblìo silenzioso che rivela la parola mai ascoltata.    La fenice rinasce dalle sue stesse ceneri. Tramontate le parole, le cose non sono più quello che erano. Non sono più. Periscono nel silenzio, ma da questo silenzio ex-periscono. Una nuova esperienza per una nuova Poesia. Nuove parole, nuovo ethos, nuovo tempo, e le cose risorgono.
Il nulla, il pericolo, l'insperabile: un linguaggio sterile, l'incapacità del parlare di generare il silenzio fecondo, il sentimento del non-più come nascondimento del non-ancora. Chi non spera l'insperabile non può trovarlo. 
Fu detto che dov’è il pericolo là sorge la salvezza; ma non è forse l’oblìo della salvezza già sorta il pericolo più grande, quello per il quale non c’è salvezza? Il pericolo è il luogo della prova suprema, quello dove coabitano il perire e l’esperire, dove cioè si può morire la vita o vivere la morte, momento in forza del quale la coscienza della salvezza è una lampada che si accende nel buio; il perire e l’esperire fondano lo sperare che accende l’insperabile e lo rende, cioè lo restituisce, esperibile. Ma quando non sappiamo di essere in pericolo, o se ancora banalmente pensiamo che il pericolo sia una situazione da evitare, non è per ciò stesso che non possiamo intendere la salvezza, per cui l’insperabile resta lontano? E non è questa la Tenebra della vera morte, quella che la Luce della Vita non può raggiungere perché non è altro che oblìo? E non è dunque, per questo, il pericolo stesso a salvare? Non è il pericolo, allora, il luogo non-luogo dell’essere stesso che si fa presenza?
Allora, nell’occidente già crepuscolo, il solo autentico Poeta è stato Gesù di Nazareth. Il nulla, il pericolo, l’insperabile, convergono in una sintesi originaria; il perire e l’esperire trasmutano quella tenebra in una folgore  che accende l’oscurità di un sepolcro chiuso, e avevano già risorto la lettera morta in Parola viva. Questo è lo sperare che fa del pericolo, sintesi di perire ed esperire, la salvezza. Questa è la Poesia. No, non c’è spazio per gli orpelli della religione, perché Gesù ne ha distrutto le fondamenta svelando, come mai nessuno prima o dopo, quale sia la sola vera creazione del pensiero religioso, il denaro.
Non si possono servire due padroni. E il signore di questo mondo, ora più chiaramente di quanto non lo sia mai stato, è il denaro. Può essere ridicolo riproporre una critica del denaro ora che non ci si occupa altro che di “spread”, finanziarizzazione dell’economia, accumulazione di capitali, profitti da non reinvestire ed economia di crisi. Ed è già un bel po’ che la paralisi della critica si afferma come segno dei tempi. Come il numero, unità di misura, inventammo il denaro per creare, al di sotto di un mezzo per trasformare l’economia dello scambio fondata sul baratto, una misura di valore per le cose che non fosse soggetta a decadenza. Astratta. Le cose vengono ad essere poi scompaiono, si consumano, sono soggette a corruzione e distruzione. La stessa natura, la Physis che ama nascondersi nel creare, ciclicamente crea e dissolve mondi, civiltà, vite. Numeri e denaro, invece, no. Realtà virtuali, astratte, spirituali; concetti puri incorruttibili, assoluti, iperuranici. Divini. Questi sono gli strumenti con cui portiamo avanti il sacrificio salvifico del mondo, di cui trasformiamo la ciclica decadenza transeunte nel puro valore astratto: la conoscenza fondata sul numero e il valore fondato sul denaro. Sottrarre a Dio il mondo, dominarlo e trasformarlo nel valore che abbiamo creato. Sostituirci a Dio, farci padroni del mondo trasformandolo in denaro posseduto da un solo uomo, che in quell’istante compie la storica apoteosi. Il cerchio si chiude, nell’illusione che le cose siano come le pensiamo e vogliamo. Forse, semplicemente, mai schiavi quanto ora perché di questo ethos profondo siamo ormai inconsapevoli. Non sappiamo quello che facciamo e in questo non sorge il senso del pericolo, e questo aliena la salvezza. L’alienazione della salvezza è l’assenza della Poesia.
L’essenza dell’Immagine è il lasciar vedere qualcosa. Copie e imitazioni sono degenerazioni dell’Immagine autentica. L’Immagine autentica, che è visione e vista, lascia vedere l’invisibile, e in tale modo, lo immagina, lo fa entrare in qualcosa che gli è estraneo, appunto l’immagine stessa, che riguarda l’umano in modo essenziale. Siccome il poetare coglie quella misura segreta celata nel volto del cielo, esso parla in immagini e per immagini. Per questo le immagini poetiche sono immaginazioni in un senso elevato, non mere fantasie o illusioni, ma immaginazioni in quanto inclusioni visibili dell’estraneo nell’aspetto di ciò che è familiare. Il dire poetante delle immagini riunisce in un Uno lo splendore e il suono delle manifestazioni celesti con l’oscuro e il silenzio dell’estraneo. E’ qui che il Dio folgora e rapisce come un che di strano, e in questo spaesamento estraniante mostra la sua continua vicinanza. Qui il perire, l’esperire e lo sperare svelano l’arcano dell’Uomo come Immagine del Divino, Arca di Dio e non fantasma dell’acqua e della terra. Qui, la Poesia. Non ci sono dèi fuggiti o morti, ma Poesia nascosta nel lontano. Vi ascolto.

Vito Lolli 



Terre di nuovo vestite

Gli dèi sono morti perché sono gli uomini che hanno fornito loro il veleno della vita. Gli dèi sono fuggiti perché gli uomini hanno dimenticato l’alito del vento, il pianto del gabbiano, le fiabe degli avi, il messaggio dei campi.
E come è possibile che i terreni utilizzino veleni tanto possenti da far morire gli dèi?; che posseggano TANTO MALE DA METTERLI IN FUGA; da farli fuggire dalla terra prescelta. Loro che rifiutarono l’Olimpo per questo miracolo in terra.

Sì, perché i divini abitavano le grotte, le spelonche dei nostri monti; e dall’alto gioivano della madre primigenia, più antica; della virtù parsimoniosa, della felicità paziente, degli abbracci alle albe, delle preghiere ai loro altari, e dei ringraziamenti per le mèssi procaci; amavano quelle grotte a cui giungeva il profumo di selve prospicienti agli incavi. E gli dèi non volevano più allontanarsi dalle offerte alle vigne, dai respiri fecondi di una natura generosa e sana. In lei vedevano il loro tempio, e si sentivano appagati dalle melodie degli zeffiri sui grani maturi. Se ne cibavano. Quelli erano l’ambrosia e il nettare della loro esistenza; del loro vivere destinato all’eternità. Ne campavano, si nutrivano della cristallinità dei fiumi, e della purpurea polpa dei frutti. Ne avevano fatto un nuovo Olimpo. E in sintonia con l’uomo si beavano dell’equilibrio perfetto, dove passato, presente e futuro si contenevano. I viventi tutti contribuivano a questa assonanza umana e divina. Ma gli umani, coscienti della precarietà del tempo, insoddisfatti della loro breve permanenza, e del fatto di vivere in spazi ristretti; attratti dalle ricchezze che avrebbero demolito il monte sacro; dalla materia che lo avrebbe rimpiazzato; dimentichi dei colori del mare, e del fiorire dei colli, si nutrirono carpendo il cuore e il sangue di quegli dèi che li vollero felici; non ci fu più purezza, anche il verbo non ebbe più forza per toccare le vette del nuovo Olimpo; si frantumò e restò povero suono. Virtuale inchiostro asservito alle ingordigie di società liquide, corrotte, moderne e post-moderne, incapace di raggiungere le vette divine dell’anima pura. Si tentò con  la poesia di acchiappare quelle cime, ma la parola si sperse nei fiumi malati, nei cieli nebbiosi di nubi malefiche. Il canto rimase; rimase coi suoi pochi cantori a gridare memorie di terre feconde, di tempi inviolati da tramandare ai figli, ai nipoti, dacché i figli dei figli potessero vivere della rinascita di un nuovo respiro. Fu l’unica parte dell’uomo che più si accostava al giardino dei sogni. Ed è su Lèucade che quei cantori continuano a tendere sguardi ad orizzonti lontani e vicini. Quegli orizzonti che portano dentro e che dicono il Bello. Mitopoiesi da donare al futuro per farlo passato, presente; per farlo senza tempo; timbro di naturale abbandono che contiene ogni giorno, a ché questo divino equilibrio rinasca novello, più forte, ed umano; a ché respiri di zolle, di solchi di padri;  di mani di madri ricurve su prode che davano vita, nemiche di morte. E’ allora che l’uomo potrebbe tornare ad essere parte dell’anima eterna; e solo allora la poesia potrebbe innervarsi del verbo sacro nascosto tra i tigli e  tra gelsi di Spiriti in fuga. Si ricuciranno gli animi, ritroveranno quel giardino divino, e in terra, nelle grotte dei monti, torneranno gli dèi a sposarsi coi colli. La Poesia riavrà il suo verbo per toccare le vette dell’anima; per poter rispondere al richiamo che ci viene dall’alto. Dacché la scala per raggiungere il cielo è fatta di semplici cose: amore, fratellanza, profumo di un fiore, o voce di albe che chiamano uccelli all’inno del giorno. Non ci sarà più  paura di morte; farà parte della vita, perché la contiene, come il figlio il padre, il padre il figlio; come la notte il giorno che chiaro illumina terre di nuovo vestite. 

Nazario Pardini

2 commenti:

  1. Dio non nasce e non muore, ma muore e nasce nel cuore e nella mente degli umani. Là infatti incanti e disincanti si alternano in una strana e necessaria pulsazione. Il processo storico che ha condotto all'offuscamento degli dei parte da molto lontano, probabilmente dalla nascita del razionalismo nel mondo classico, che al tempo stesso segnò la nascita della tragedia (ma forse anche da prima). Tuttavia non è lecito generalizzare. Ogni uomo fa a sé e la storia non è mai a senso unico, a dispetto delle tendenze omologanti da cui è seminata. Ci sono indubbiamente indirizzi dominanti, ma il leitmotiv razionalistico-metafisico della cultura occidentale non ha impedito, ad esempio, al Poverello d'Assisi di far sentire la sua voce nettamente distinta e contraria. La storia, pur procedendo in una direzione, non è mai univoca ma plurivoca. Ed è ciò a consentirle di non essere lineare ma ciclica. Ci sono semi apparentemente scomparsi che germoglieranno al momento opportuno. Verrà il momento del silenzio (sta già venendo) per la babele che abbiamo creato. Sarà quello il segno dell'inversione di rotta, l'indizio della rinascita, che a sua volta non potrà essere univoca, se è vero che la testa di Orfeo, sbranato dalle Menadi, continuerà in eterno a piangere nelle acque del Lete. Incanto e disincanto si giovano l'uno dell'altro. E' vero che non si possono servire due padroni, ma è pur vero che si deve dare a Cesare e a Dio in equa misura. Non bisogna demonizzare il denaro. Il demonio è l'uomo, non il denaro. Con il denaro si possono anche fare, e si fanno, le opere buone. Caino è esistito molto prima dell'invenzione del baratto e di ogni tipo di scambio commerciale. L'umanità è sempre la stessa: un'altalena di azioni distruttive e costruttive. Occorrono le une alle altre e lo scoglio di Leucade, in fondo, non è altro che l'uomo stesso, in questa sua ricchezza di angelici voli e di perversioni. Leucade è l'isola dell'armonia dei contrari. Non è soltanto il dirupo della disperazione e della tragedia saffica, ma è anche l'oasi della speranza, verso cui Ulisse il naufrago, il disperso, da sempre orienta la prua.
    Franco Campegiani

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  2. Errata corrige: "leitmotiv razionalistico-nichilistico", al posto di letmotiv razionalistico-metafisico".
    Franco Campegiani

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