Nell'incanto
selezione silloge per stampa
Molto
breve sarà la mia stagione:
fiorirò
come la rosa di maggio,
e
null'altro resterà di me
se non
l'onore ed il coraggio.
Maurizio
Donte
Maurizio
Donte: Nell'incanto
III-Bolero
Vaga sulle onde un fremere
d'incanto,
mentre trema la luce della
Luna
e alzo nel vento a te un
notturno canto
che flebile s'inizia sotto il
cielo;
con arte io vengo a te, mia
sola amata,
tu danzi quasi fossi una
sirena
nel mare dell'estate che è
passata.
Mi ricordo il motivo della
danza
ed il tuo passo al muoversi
del suono,
lento Bolero, dentro la
risacca,
in languide movenze
d'abbandono.
Iniziare
da questa citazione testuale significa andare a fondo, da subito, nella
epigrammatica vicenda del canto di Maurizio Donte. Un canto dolce, estremamente
musicale, nutrito di cospirazioni emotive di grande abbandono
erotico-intimistico, dove il verso, con tutta la sua potenza ermeneutica, si fa
corpo risolutivo degli abbrivi vitali del Poeta. Sì, c’è l’amore, vissuto con
plurima collaborazione panica, con espansioni iperbolico-allusive, e con
abbracci semantici di urgente vocazione narratrice, ma un amore plurimo,
totale, universale che coinvolge la vita nella sua polisemica significanza: il
sogno, la realtà, il tempo, la memoria, la pace, la società e
quell’inquietudine che nella poesia si fa flauto sotterraneo ad accompagnare il
fluire dello spartito: “Mi ricordo il motivo della danza”, una rievocazione che
si traduce in alcova rigenerante, in edenico ritorno, in visione incantatrice
trasferita in mondi dal sapore neoplatonico, dove tutto è leggero, inviolabile
e sonoro come una musica sublimante. Ed è l’endecasillabo - trattato in tutte
le salse, in tutte le sue tonalità, a maiore, a minore di sonetti ed odi… - a
evidenziare l’esperienza metrica del Nostro; la sua abilità versificatoria,
aduso, Egli, al verso nobile del canto: “con arte io vengo a te, mia sola
amata,/ tu danzi quasi fossi una sirena/ nel mare dell'estate che è passata”.
Un mare d’infinita portata, i cui orizzonti si estendono fino all’inverosimile,
fino a traguardi a cui l’uomo non può allungare lo sguardo, data la sua pochezza.
E il Poeta è cosciente della futilità del tempo, del gioco delle sue fauci,
della sua rapacità e voracità: “E vano è lo sperare che ritorni:/ rapido fugge
il tempo tra le dita.”, per questo si affida al memoriale, a quel “passato” che
tanto vorrebbe riattivare “in languide movenze d'abbandono”; a un eros che,
comunque, non circoscrive il panorama ispirativo del Nostro; dacché la
perlustrazione ontologica delle piecès e lo scavo analitico si estendono, a
tutto tondo, al bene e al male della vita, col ricorso a uno sguardo impegnato
e addolorato su tutto ciò che crea sofferenza; su tutto ciò che si allontana
dalla fraternità, e dalla umanità, visto che “Non più vi fosse guerra, ma
fraterno/ amore” è l’auspicio più sentito del Poeta:
Scende la nebbia e dentro
rasserena,
fuori nasconde quel che mi fa
male:
ogni pensiero ed ogni sua
catena;
l'inutil dire, quello che non
vale.
Solo il silenzio, quando il
Mondo tace,
spiega la vita, quello che la
segna.
Vorrei la Terra fosse tutta in
pace
e del Divino amor che fosse
degna.
Non più vi fosse guerra, ma
fraterno
amore. Si alza invece quel
fragore
d'armi che lentamente mi
corrode.
Guardo là fuori e l'anima si
rode
per tutto il sangue, tutto
quel dolore,
io non ho voce e scende già
l'inferno.
Sentimenti
forti, di urgente resa poematica, che confluiscono in un climax esteso e
variegato; in un climax che dall’empatia di un animo emotivamente coinvolto si
distende fino ad un acuto dolore per un esistere lontano da ogni cosa buona: “Talvolta
stanco son di questa vita/ che erra lontano da ogni cosa buona./ Rapida fugge e
passa fra le dita,/ senza che nulla la rallenti e suona…”; per tutto ciò che è
ingiusto e distante dall’amore; per tutto ciò che di brutto l’umanità ci offre:
“Viviamo nella tenebra più oscura,/poca speranza ormai mi lascia il mondo:/ la
vita di nessuno è più sicura/ e va l'umanità cercando il fondo…”. Scoramenti, illusioni, delusioni, gioie,
dolori, speranze, e abbandoni: tutto si alterna in maniera piacevole e
contaminante e tutto è affidato
all’ausilio di una natura che con i suoi fremiti di nebbie, tramonti, albe, verdi
primavere, o autunni decadenti, concretizza e rende visivi gli input emotivi di
Maurizio Donte; quegli input che non di rado fanno apparire pessimistico
l’animo del Poeta, ma che, al fin fine, lo portano ad inginocchiarsi di fronte
alla grandezza dell’Eterno:
Dall’infinito ascolto la Tua
voce,
mentre nel vento si ode suono
d’onda,
che viene e frange e fugge poi
veloce,
da quelle rive, dove il male
affonda.
Scivola l’acqua e torna
sottovoce
dentro il mare, che sempre
l’asseconda:
è questa vita, solitaria
croce,
non ho certezza in me così
profonda.
Naufraga il dire, mentre il
tempo passa,
ed ogni giorno, svelto, torna
a sera:
muore speranza ed il domani è
vecchio.
Vedo i contorni sbiadirsi allo
specchio,
ma nel silenzio quel Tuo dir
s’avvera,
se la mia fronte innanzi a Te
s’abbassa.
Nazario
Pardini
grazie davvero, Professore, gentilissimo come sempre
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