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domenica 16 agosto 2015

MAURIZIO DONTE: DAL "DE BELLO SARMATICO"



Maurizio Donte torna a cimentarsi nella prosa, col De Bello Sarmatico,  seguito del suo primo romanzo


Dai Diari di Agrippa  

-Lettera a Teodora-

“Nelle fredde serate di queste steppe sterminate, un baluginio di stelle troppo lontane ammanta l'oscurità di una fioca luce.
Non c'è Luna, questa notte...
Penso a te e mi ricordo il tuo sorriso e le tue braccia d'amante che m'accolsero, un tempo, che è ormai così lontano.
Mesi trascorsero e sembrano secoli, se misurati con la malinconia che mi coglie senza aver te vicino.
Mi mancano le tue labbra morbide, sulle quali, con fatica, di posare un bacio tanto a lungo mi astenni.
Ma ora, che il campo tace ed i fuochi di guardia avvampano sugli spalti, rischiarando un poco le tenebre che avvolgono la pianura e le acque del mormorante fiume che, poco discosto, scorre, solo le parole bisbigliate a bassa voce dalle sentinelle si odono, sul cammino di ronda.
Ma non è questo lieve rumore che mi tiene desto la notte, a vegliare, scrivendo una lettera che forse mai ti giungerà...è il tuo pensiero, la tua assenza, Teodora, che non mi danno pace.
Il nemico è ovunque, grave il momento, eppure non dispero, un giorno, di tornare e chissà, lo vogliano gli dei, di far di te, mia sposa.”




Diari di Agrippa (II)

“Da Marco Agrippa, a Teodora, salute.
Ho ricevuto la tua missiva a settembre; ci sono dunque voluti sei mesi, perché queste tue notizie mi raggiungessero. Perdona il ritardo con cui ti giungerà la mia risposta, ma ho dovuto attendere molto tempo prima di trovare le parole giuste per rispondere a ciò che mi hai voluto comunicare, cosa della quale comunque, ti ringrazio.
Nonostante l'autunno sia solo ai suoi inizi, qui ha già nevicato, fa freddo, ma ancor più gelo ha portato al mio cuore ciò che mi hai scritto.
Si chiama Lucio Marzio Filippo Junior, dunque, il tuo promesso sposo; mi congratulo con te, entri a far parte della famiglia di Cesare, sia pure alla lontana.
Perlomeno, a quanto ho potuto sapere, è un ottimo partito ed un brav'uomo.
Quanto al resto di quello che mi chiedi; cioè di mantenere tra noi l'amicizia, pur mettendoci tutta la possibile buona volontà, perdonami, ma proprio non ci riesco.
Già l'amicizia tra uomo e donna è spesso quasi una chimera in una situazione normale, ma fra di noi...è ben diverso.
Ci siamo amati, Teodora!Almeno, io ti ho amato e il dolore che provo adesso è troppo forte: ti ho perduta e per sempre, senza aver mai avuto davvero la possibilità di stare insieme a te, come avrei voluto.
In tutti questi anni, dall'esatto momento in cui ti ho vista la prima volta, e mi sembra ieri, non ho fatto altro che amarti: eri sempre tu, e solo tu, il fuoco che tornava a scaldarmi l'anima nei momenti più bui della mia vita e questo, nonostante (e devo ammettere, contro ogni logica) tutti i fraintendimenti e le difficoltà che ci hanno separato per così tanto tempo.
Del resto è noto a tutti che nessuno è più pazzo di un innamorato pazzo, che vuoi che ti dica: per me è sempre stato così, per te, forse, un po' meno.
Non ti giudico e non te ne voglio, capisco che tu abbia sentito la necessità di avere una sicurezza nella vita, sicurezza che io non ho mai potuto garantirti...e, tra l'altro, assurda ironia della sorte, proprio ora, che sono vedovo per la seconda volta!
Neanche adesso avrei potuto, però: ho dovuto accettare ancora una volta un matrimonio politico; con la figlia del mio vecchio amico Ottaviano, Giulia, una ragazzina viziata, a quanto mi dicono e... ora che ci penso, in tal modo diventeremo anche parenti!
Gli dei si divertono alle mie spalle...
So bene che in realtà è solo una manovra per allontanarmi dal mio vecchio mentore Mercurio, ma non posso oppormi...la chiamano ragion di stato: sono chiamato, proprio io, un plebeo, a dare degli eredi all'Impero, quasi mi viene da ridere; Ottaviano si ostina a non generare figli maschi e finché starà con quel ventre ormai avvizzito di Livia, non ne avrà mai di suoi, a parer mio.
Così i figli che avrò non potrò neanche dirli miei, saranno adottati da Augusto e diverranno, appunto, eredi al trono; anche se non sarà facile...l'imperatrice briga per ottenere l'adozione dei suoi figli di primo letto, Tiberio e Druso.
Vorrebbe che fosse uno di loro a succedere ad Ottaviano, non so come andrà a finire...
Ma ora smettiamola con la politica e anche con le parole, ho l'animo esacerbato e il cuore in fiamme, non mi va di continuare a scrivere.
Brucio. Sento che la mia vita senza di te non ha più senso.
Ti auguro ogni bene, amore e figli dal tuo sposo, lunga vita e serenità, ma non dobbiamo più né vederci, né sentirci.
Non ce la faccio, Teodora, non ce la faccio.

Si tibi vales, ego valeo.
Vipsanio.”

Abbandonò il pennino e si alzò dallo scrittoio, rigidamente. Posò il foglio sulla liscia superficie del tavolino, poi, colto da un dubbio, lo riprese in mano e lo scorse rapidamente, com'era abituato a fare da anni con gli ordini che solitamente emanava per i vari reparti.
Non c'era nulla da cambiare, si disse, lo chiuse e nell'avvolgerlo e sigillarlo con la cera fusa, sentì che in quel foglio di pergamena, così fragile e così pesante tra le sue dita, era racchiusa una parentesi della sua vita: la più importante.
Pur non superando di molto i trent'anni, si sentiva vecchio, segnato da tanti dolori e chiamato a compiti che gli piacevano sempre di meno, cui doveva assoggettarsi, suo malgrado...e ora, pure l'amore, che aveva creduto eterno, si era spento.
Sospirò, nell'allacciarsi il mantello sulle spalle, poi si ricompose, calzò l'elmo sulla fronte, si avvolse il collo nella pelliccia, lottò con se stesso, cercando di assumere un'aria risoluta, che in realtà non aveva, e uscì dal Pretorio.
Un vento gelido lo accolse, mentre le guardie scattavano sull'attenti, salutandolo.
“Ave, Imperator!”
Le lacrime che gli erano spuntate dagli occhi, nonostante tutti gli sforzi fatti per trattenerle, si ghiacciarono all'istante sulle sue guance.
Rispose al saluto con un rapido cenno del capo, senza che le sentinelle potessero accorgersi di alcunché, e si avviò deciso verso il Decumano, affondando le caligae nella neve ad ogni passo.
Sbuffi di vapore gli uscivano ad ogni respiro, condensandosi in nuvolette bianche che subito si disperdevano.
Si ingobbì, per offrire meno superficie al fischiare del Buran, come i Sarmati chiamavano quel vento, e proseguì risolutamente sulla sua strada.
Ad ogni passo, sentiva battere sul petto, come un martello, il cammeo che sempre portava sul cuore.
L'immagine di Teodora, realizzata per lui da Ioannidis l'etrusco, anni prima.
Afferrò la catenella e, dato un forte strappo, la spezzò, lanciando poi, con un unico gesto, il cammeo oltre la palizzata, fuori dal campo.
Il volto di Teodora, intagliato nella madreperla, ancora tiepido per il calore di Vipsanio, affondò nella neve immacolata e sparì per sempre.
In quel momento il Buran soffiò ancora più forte e le sentinelle cercarono il riparo degli steccati, rabbrividendo.
Quando, pochi momenti dopo, videro profilarsi, tra le raffiche la figura massiccia del loro comandante, tentarono di assumere un aspetto marziale, ma invano: sembravano orsi, non soldati, tanto erano coperti di pellicce.
Vipsanio non vi badò e uscì da solo nella steppa.
L'acqua del fiume era immobile e bianca di ghiaccio e i boschetti di betulle, intorno al campo, avevano accumulato così tanta neve da apparire come grotteschi giganti dall'aspetto bizzarro.
Quel mondo freddo e pulito, così lontano dagli intrighi di corte, in cui, prima o poi, sarebbe dovuto tornare, gli piaceva molto.
Tutto sommato, stava bene lì.
Gli balenò il pensiero che, forse, sarebbe stato meglio non andarsene più: anche morire in quel posto, sarebbe stato più gradevole che tornare a Roma.
Socchiuse gli occhi, per sopportare meglio il riverbero abbagliante della superficie innevata e fu allora che li scorse.
La delegazione dei Sarmati stava arrivando: le insegne con i dragoni, dalle lunghe maniche a vento, caracollavano sulle aste, tenute nelle mani dei biondi e massicci cavalieri, dalle lunghe chiome, emanando un lungo e stridente ululato dalle aperte gole bronzee in cui l'aria poteva passare.
Quel suono era triste e straziante allo stesso tempo, sembrava evocare lemuri di ere perdute, ma Vipsanio non si lasciò impressionare; ad un suo cenno, la coorte di guardia uscì dal campo, ordinata come una figura geometrica.
Gli uomini armati si sistemarono in quadrato, posando a terra i grandi scudi rettangolari e impugnando i pila.
Le aste di bronzo con le insegne e l'aquila della legione la seguirono e si andarono a schierare alle spalle dell'Imperator.
Vipsanio incrociò le braccia sul petto e attese.


5 commenti:

  1. grazie Professore, gentilissimo, come sempre....

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  2. sono pagine di grande narrativa. Bravissimo Maurizio!
    Claudio Fiorentini

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  3. Nelle lettere di Agrippa c’è una delicatezza che io non ho mai neanche sognato di avere, una sensibilità profonda, una insondabile attenzione per l’altro, una voragine di emozioni che si apre sui sentimenti. La scrittura è travolgente, e in questo vortice di parole e silenzi ritrovo quella parte di me che viveva in questa ricerca. Non mi chiedo perché, però mi rendo conto di non essere capace di provare, o forse di non essere capace di tradurre, gli stessi sentimenti. Proprio per questo traggo dalla lettura di queste pagine un profondo arricchimento. In qualche modo torno all’età dell’oro, perché so che anche in me c’è stato quel tempo, quel momento, quell’ansia e quella ricerca. Leggendo scopro che non è perduto, torna a galla per un attimo, quanto basta per riscoprire quel vento giovane che gli anni vorrebbero portar via. E sono felice di ritrovarlo. Intendiamoci, non c’è rammarico in questo viaggio, ma lo scavo di un solco che porta in un anfratto profondo del mio essere, dove vive quello che credevo morto, e scopro che non è più fiamma, ma brace che a volte si copre di cenere, e succede che prendo coscienza di essere vivo anche lì, si realizza il miracolo della comunicazione con me stesso. Allora capisco che l’amore si trasfigura senza mai morire e parlo con il sogno, con quel sogno che oggi è ancora più solido e forte e che non ha smesso mai di parlarmi.
    Claudio Fiorentini

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