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giovedì 17 settembre 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "IL FIUME DI ERACLITO" DI ADRIANA PEDICINI


Adriana Pedicini: Il fiume di Eraclito. Mnamon 2015.
Pgg. 94. € 10,00

Adriana Pedicini
 Il fiume di Eraclito
 Poesie
INTRODUZIONE DI NAZARIO PARDINI 



Siamo il fiume che invocasti, Eraclito.
Siamo il tempo. Il suo corso intangibile…

Jorge Luis Borges




Istantanee di vita
a fermare il tempo,
amore della vita
che lenta scivola nel rimpianto,
timore della morte
e nessun rimedio per fermarla.
Crogiuolo di mille domande
sulle ali di una farfalla.

Partire da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile, significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una plaquette che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in campo i dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di grande complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo; il pascaliano dissentire tra rien e tout.  Sì, c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade, mistero, nostos, melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come tuffo in profumi di acacie:

Dietro il lento oscillare delle acacie
sale la filigrana del ricordo
del lungo ramo
che sbatteva alla finestra
e tra i fiori acri sfiorito il volto
e immobile  lo sguardo.
Anche oggi
tra i passi lenti
di questa  primavera
solo si spande nell’aria
il profumo dolceamaro
delle acacie.
Ai cigli delle vie fuori città
sui terrapieni corrono,
nei giardini e nelle aiuole cittadine
i fiori bianchi fluttuano sgranandosi
al vento gelido di fine marzo
che ora come allora
asciugandole rapina le mie lacrime.
Di te
solo il profumo dolceamaro
delle acacie (Le acacie di marzo).

Si  nota fin dagli inizi il disagio della Nostra di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci circondano. E’ troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:
Ho pianto il mio dolore
ho pianto la gioia
l’odio ho pianto
di quest’effimera vita.
Tutto sembra inutile
e il vivere sia fatto invano
in attesa del tempo senza tempo.
Eppure più forte è il desiderio
di questa precaria vita
come di assetato
che mai estingua alla fonte
nel cammino
la bramosia di lunghi sorsi,
di conservare sulle labbra
e in ogni fibra
della fresca estasi
il brio (Vita),

ed è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili dilemmi.  C’è in ognuno di noi il desiderio di fermare la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le cose più preziose della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi o al sogno che si cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro patrimonio nel tentativo di prolungarne la storia:

A brace spenta
bruciano
le mani del sogno
caldo in cuore.
Neri rami s’elevano
sterile fumo
alla neve del cielo.
Di pioggia le nuvole
s’ammassano dense
segni fatali di sorte.
Pace o segno di
nero silenzio
questa assenza di voce (Sogno),

nel tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in un alcova di volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi che viviamo l’”amore della vita/ che lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:

Scivola ancora
di nuovo
più fitta la pioggia
lungo i muri e le pozze riempie
porta suoni lontani di voci
sopite per sempre,
la nostalgia porta di una vita
che non è quella da vivere.
Sfilza le ore
e grava l’aria di cupi ricordi.
Tutte son morte le foglie
e la vita è un desiderio
strozzato nel cuore.
All’orizzonte
il nulla di questo giorno.
Sull’impiantito della mente 
disegno il mio larario antico
e di ghirlanda adorno
il posto vuoto (Nostalgia),

una dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per verticalità meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. E’ qui il nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una versificazione stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il valore  etimo-fonico e comunicativo dei significanti. La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica e risolutiva per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della vicenda umana col tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti inconsueti, emerge, con nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato dalla morte.  “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se della ragione faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva uno dei motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che più si avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”: quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. E’ in quel mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in definitiva, sono proprio i dolori a farsi  gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a cime spirituali le più vicine all’inarrivabile “… E se la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in esso è anche il riscatto della dignità umana, oltre che l'unico veicolo possibile della conoscenza (πάθει μάθος). E, inoltre, esso predispone ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà positive energie con ricadute  notevoli nella personale vicenda esistenziale” (dalla prefazione dell’Autrice).

Quando il dolore
avrà macerato
le fibre del mio cuore
stilleranno i ricordi
in gocce di parole.


Nazario Pardini


DAL TESTO


Aprile

Nella voce tremano
i sussurri dell’alba
sulle labbra sfrigola il fruscio
del vento d’aprile
tra i rami rosati del pesco
s’impiglia il sogno
nell’ardore del mezzodì
tra i fremiti impazienti del cuore
e quieto s’attarda gorgogliando
nelle ore turchine della sera
profumate di primavera
mentre svolazzano ingorde
tra i rami le gazze ciarliere.


Tempus fugit

Rivoli di nuvole
su alberi affastellati alla foresta
doriche colonne di cielo ellenico
nel baluginante bagliore del mattino,
prati merlettati di asfodeli
tra le trine di bianche margherite
ai bordi della pietraia laddove l’erba
manto rigoglioso stende alla terra
madida della fredda acqua del torrente
che gonfio serpeggia tra le avide radici
di tronchi sbilenchi ad inseguirsi
come bimbetti arditi sulle ghiaiose rive.
Lontano un latrato sonnacchioso
e stanchi belati di ovini consunti
dal fuggevole battito del tempo.



La polena

 Cieli  ubriachi di sole a pioggia
semi di vita stilleranno
nei crateri del dolore inariditi
e sulla terra ocra nei solchi
e tra le pietre spunteranno
bianchi fiori simulacri di speranza
alla carezza sottile dell’Amore.

Si alzeranno in volo bianche
le colombe e le vedremo a stormi
danzare nel cielo non più offeso
creole danze e con voluttà ghermire
blasfeme parole di odio e di terrore
agli artigli uncinati raggrumate
sulla coltre corrugata della pace.

Al mare s’incaveranno le galee
ai colpi dei marosi in cui si smorza
il pianto della carne vile degli schiavi
e la Fede sarà polena sacra che annienterà
 il riso ingannatore delle semidee sirene
e saprà svelare spiagge da bianche aurore
assottigliate e grani impalpabili di stelle.
A esporre sogni l’anima apprenderà dalle muraglie
rapidi a guisa di destrieri quando il fiume
torbido dell’odio travolge i cuori e folgorerà
gli sguardi la misericordia dell’ulivo benedetto
e gli assassini confonderà di bene e di loro spoglie
avrà pietà, di vita a nutrimento e tra le spine
ognuno riconoscerà delle rose il rosso grido.



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