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lunedì 7 settembre 2015

VITO LOLLI: "ELEUSI: LA VISIONE SEGRETA"


Vito Lolli collaboratore di Lèucade


Eleusi: la visione segreta

La nostra storia è costellata di momenti di rottura e naufragio di qualsiasi ordine e sistema di conoscenza, di dissolvimento dello stato mentale di cui era espressione. I rivolgimenti che ne sono seguiti, compresi gli occultamenti operati dalle politiche di controllo sociale, riconsegnano le coscienze più avanzate e profonde alla nebbia del mistero, ove ciò che è, ciò che non è ancora e ciò che non è più si confondono riproponendosi come enigma. Veleggiando da un approdo all'altro il naufragio può verificarsi in ogni passaggio, così come la nebbia può nascondere alla vista una nave che non viene distrutta ma scompare. Prosegue il suo percorso ma non è più visibile. Dunque c'è e non c'è. Estranea ormai alla vista superficiale, alla dimensione del controllo e della misura, della verifica sperimentale o della dottrina di una fede, essa non esiste se non nell’enigma di una scia che, sull’acqua, si dissolve rapidamente.
Tutti voi logonauti alla volta di Lèucade, restituite ad Apollo le parole con cui ci ha creati siffatti tenendoci lontani dalla visione e ri-evocate il silenzio della visione profonda. Cambiate momentaneamente rotta, entrate in continente. Immergetevi nelle pure acque dell’Acheronte, ascoltate il silenzio del vicino Necromantio (il più antico di tutta la Grecia, quello ove Omero ambienta la discesa di Ulisse nell’Ade), poi dirigetevi verso Delfi e da lì, proseguendo la stessa via, troverete Elefsina, l’antica Eleusi. Cioè, la salvezza.                                  
Su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere” non è solo la sintesi della tensione riflessiva di Wittgenstein sul linguaggio, ma è l’epitaffio della storia del sapere fondato sulle parole e solo ri-evocando il mistero apollineo possiamo sperare in una nuova follia metainterpretativa. Apollo, che vede, ci fa parlare a partire da espressioni vocali senza senso – ed è, questo, lo stato mentale all’interno del quale la combinazione unica e irripetibile dell’assunzione del linguaggio e la sua funzione determinano il fenomeno psichico dell’identità individuale. Crudele davvero, Apollo, a farci credere di essere il tessuto di parole che struttura la nostra mente e quindi il nostro cervello. A farci credere che con la parola inizi la comunicazione, mentre invece con essa iniziano proprio l’illusione e l’incomunicabilità di false coscienze chiuse nelle proprie gabbie logiche. Eppure lo stesso dissolversi di ogni illusione di identità avviene in quel sacello interiore dove questa sembrava sorta – e forse l’identità individuale trova il suo luogo proprio nel sentire-sentirsi  fuori e al di del gioco illusorio, cioè nella follia extra e metalogica. Se non la si nomina o formalizza, l’identità è; ma se si tenta l’appropriazione in una qualsiasi forma di conoscenza , essa si dissolve apparendo irriducibile e paradossale.Ma è un mistero, questo, o la più possente manifestazione del nascondersi della verità dell’essere, cioè il non-essere ciò che essa manifesta?                                                                      
L'evento misterico di Eleusi, uno dei vertici della vita greca, è un profondo culmine conoscitivo, ma noi "moderni" non sappiamo ammetterlo - e la ragione è la solita: sarebbe tutt'al più conoscenza mistica, che non esiste. E, se esistesse, sarebbe torbida, confusa, liquidata come effetto collaterale di qualche sballo da sostanze psicotrope o epifenomeno di squilibrio psichico, comunque incompatibile con la "chiarezza", la "misura" e la “funzionalità” necessarie perché qualcosa possa essere considerato efficacemente "conoscenza".         Più conventicola di tossici allucinati, quindi,  che Accademia delle Scienze. Eppure altre culture conoscevano e praticavano ritualità centrate sulla “discesa negli inferi”, in quel “sotto” che è un “prima”, come esperienza visionaria profonda degli archetipi dell’inconscio collettivo (uso Jung) e forse anche al di là di questi, in dimensioni di non-mente e di materia increata ove solo il pathos del nascosto può farsi utero di quello hieros gamos in cui i semi del tempo si manifestano nella mitopoiesi. Odisseo, Enea, Dante sono memorie letterarie dell’evento che costituisce l’approccio primario dell’esperienza del profondo psichico, dimensione nella quale soltanto è possibile cogliere l’aspetto necessariamente illusorio e ingannevole della sapienza, che si manifesta per nascondere.         
Un verso dell’”Inno a Demetra” omerico (VII sec. a.C.) dice: “Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose”. Gli interpreti, convinti che si vede solo quello che tutti possono vedere, sono anche convinti che fosse un riferimento ad oggetti sacri, ad immagini di dèi e a rappresentazioni simboliche che apparivano nel rito eleusino. Cioè idoli, visibili fuori di sé, oggetti in un luogo di culto o parole scritte in un libro.        La parola “idiozia” indica il limite del vedere immediato, un sostanziale non-vedere,  e forse era questa la garanzia dell’ inviolabile segretezza di una pratica che apriva un vedere profondo di ben altro livello. Un’indicazione di Pindaro approfondisce: “Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus”. E’ un po’ difficile pensare che una statua o l’effigie di una divinità faccia conoscere ad un iniziato il principio e la fine della vita – così come sarebbe banale risolvere tutto nella poetica gratuità di un proverbiale “volo pindarico”.                                             A quanto pare, tanti di questi interpreti non hanno visto l’uso astratto del pronome dimostrativo per indicare l’oggetto della conoscenza che, come nel linguaggio delle Upanishad, allude alla sconvolgente immediatezza di ciò che è comunque lontanissimo dai sensi. E in Grecia, tanto nell’epoca della sapienza come in quella della filosofia, è frequente chiamare l’atto della conoscenza suprema un vedere. E in India i sette sapienti (sette come in Grecia) sono Rishi, veggenti, e il corpus della Rivelazione hindu è il Vedanta, una visione. E il misterioso rito Toltech, che utilizzava un fungo allucinogeno indigeno delle montagne messicane, conduceva tutti i partecipanti alla medesima visione profonda in un dissolvimento metapsichico e unificante delle personalità individuali. Ma Dioniso riporta a Creta, e Creta all’Egitto. La radice del nome riporta a Dianus -Ianus(Giano), al Dhyani indù, che si estende al cinese Ch’an da cui il giapponese Zen.               Platone stesso, quando descrive l’esperienza conoscitiva delle idee, sembra usare una terminologia eleusina, per cui è stata suggerita l’ipotesi che la teoria delle idee, nel suo sorgere, fosse un tentativo di divulgazione letteraria dei misteri eleusini che evitava qualsiasi riferimento ai contenuti mitici dell’iniziazione.       Perfino Aristotele, tutt’altro che mistico, è esplicito nell’affermare, in un suo frammento, che la conoscenza noetica va riportata alla visione eleusina.
A parere degli studiosi sembra si debba prendere atto che in Grecia la suprema esperienza conoscitiva, dal VII al IV sec. a.C., resti qualcosa di immutabile nella sua natura, senza sviluppi o evoluzione, un nucleo profondo non esperibile nello spazio e nel tempo. Forse l’esperienza collettiva di Eleusi, comunque soggetta a rigorosissimi e iperselettivi rituali iniziatici, non fu la stessa di Parmenide, Eraclito (anche se quest’ultimo allude chiaramente a pratiche introspettive ipnotiche e fa frequente riferimento all’essenza del culto dionisiaco) e i successivi, ma il tipo di conoscenza, magari irrecuperabile per noi parolai digitalmente alienati, sembra rimanere unitario.                                                                 L’esistenza storica di tale vertice contemplativo, l’evento eleusino, poggiava necessariamente su di uno sfondo religioso che lo rendesse possibile – e questo sfondo è Dioniso. Eleusi celebra Dioniso e ne manifesta la potenza. Fa funzionare ed esperire il dionisiaco. Esistono comunque, anche se non localizzabili storicamente, segni chiari nelle fonti di un intreccio tra misteri eleusini e orfismo, una confluenza favorita dalla tendenza espansiva del richiamo collettivo che esercitavano. Così come tale intreccio unitario, ove Apollo-Dioniso- Eleusi-Orfeo sono gli aspetti di un solo vissuto, fa da sfondo misterico ed iniziatico a tutti quei personaggi dell’età sapienziale (Epimenide, Ferecide ed il suo discepolo Pitagora, Abari, Aristea e gli stessi Talete, Anassimandro, Eraclito e Parmenide) che la successiva lettura aristotelica riduce ad un fisicismo che snatura e occulta la grande mistica che lo caratterizza.
La ovvia domanda delle domande: a chi toccava quella conoscenza visionaria? L’accesso alla solennità eleusina era aperto a uomini e donne, liberi e schiavi, greci di ogni provenienza, ma sempre si trattava di iniziazione, un rituale complesso che mirava ad introdurre, attraverso stadi successivi, in un esperienza eccezionale.        E l’iniziazione è sempre per forza selettiva. La fase dei “piccoli misteri” e, a distanza di sei mesi, quella dei “grandi misteri” dovevano realizzarsi attraverso una serie di condizioni necessarie: istruzioni rituali, astensione da certi cibi, purificazioni, digiuno. Forse anche prove di capacità speculativa e intuitiva. Dopo non meno di un anno dai grandi misteri, la possibilità dello stadio supremo, visionario, dei misteri, l’epopteia. C’è silenzio totale delle fonti su cosa si richiedesse a chi voleva essere ammesso all’epopteia, ma tale vertice iniziatico doveva ridurre a pochissimi individui la rosa dei prescelti.                                                                      Le pene per la violazione dell’assoluto divieto di accesso al peribolo sacro di Eleusi per i non iniziati erano gravissime. Il precetto fondamentale che avvolge l’evento eleusino era la segretezza assoluta, fatto che conferma la selezione rigorosa e il ridottissimo numero di coloro che giungevano al culmine dell’esperienza. Forse la segretezza e la riservatezza, come già suggerito, erano proprio nella rarità del successo, per cui l’iniziato non aveva nulla da dire in quanto indicibile la sua esperienza visionaria e il non iniziato non aveva nulla da dire perché privo di tale esperienza. Ne seguirebbe ovvio l’accostamento del celebre aforisma di Lao-Tzu  “Colui che sa non parla; colui che parla non sa”.
Alcuni notevoli conoscitori della civiltà greca sostengono che il rituale dei misteri eleusini fosse una rappresentazione, il dramma mistico che faceva rivivere in forma mimica la sacra storia di Demetra e di Core-Persefone come preparazione al culmine visionario, che era l’autentica esperienza della passione di Dioniso. E bisogna tenere conto della grande potenza evocativa e coinvolgente della tragedia greca. Ma Dioniso è anche Apollo, e in un frammento eracliteo è assimilato ad Ade. Come cogliere in questi scambi interattivi di identità e funzioni le fasi e gli aspetti di un’esperienza iniziatica che culmina con una visione? Come rovesciare il paradigma che gli “inferi” siano, banalmente, il “regno dei morti”? Come recuperare un simbolismo che si riferisce a stati della coscienza, in cui vivo significa sveglio, consapevole, memore, e morto significa addormentato, inconsapevole e dimentico? Non dobbiamo, noi, nella nostra storia “cristiana”, rivedere in questo senso il tema della “resurrezione dei morti” fuori dell’idiozia decadente che parcheggia cadaveri in casse di legno stagne in attesa di ricominciare a correre e saltare, e riadattare in tal senso dottrina, catechesi e liturgia, salvando dal nulla quanto ne resta? E non è soltanto un dio colui che è capace di questa operazione?

Tutta la poesia, nella sua genesi, ruota intorno al mistero di questo evento. Dall’occultamento della visione, operato dall’autosufficienza della parola e del discorso, sorge il luogo della poesia creatrice delle parole che tessono la trama di un inganno, un illusione, il canto delle sirene che ammalia e seduce, la positività del sapere e la potenza che esso dispiega sulla Terra, il Mondo. Il gioco è decisivo delle sorti del tempo a venire, finché la poesia stessa sente e affronta il travaglio della disillusione e della caduta delle certezze. Ci siamo allontanati dallo stato di grazia, quello del dialogo coi divini nella profondità interiore, e ora la poesia staziona nel lamento di tale lontananza. Forse negli inferi da rimemorare c’è il segreto delle origini del poetare, e la poesia delle origini può forse aiutare la necessaria ri-evocazione. Eleusi significa “salvezza”, e il canto poetico che ne accompagna parallelo l’esperienza si chiama Orfeo. Ascoltiamolo.

3 commenti:

  1. Quando Wittgenstein ammonisce "Ciò di cui non si può essere certi è meglio tacere", dice una mezza verità, perché, se è vero che "colui che parla non sa", è anche vero che "colui che sa non parla" (così dice Lao-Tzu). Il silenzio non è soltanto l'atteggiamento che consegue all'incertezza, ma anche quello da cui ogni certezza viene. Esso ha una doppia valenza: da un lato è annichilimento dei luoghi comuni, dall'altro è ascolto degli interni fuochi da cui sempre riparte l'avventura della cultura e della vita. Da un lato rappresenta la fine e dall'altro l'inizio della parola. Da un lato rivela la verità e dall'altro la nasconde. Anch'esso ha due facce: quella legata al mistero, da cui viene, e quella legata all'intelletto, in cui muore. C'è un linguaggio creativo, mitopoietico, che nomina per la prima volta il mondo, e c'è un linguaggio razionale, mitologico, autoreferenziale, chiuso in se stesso, che naviga nell'illusione e si bea dei miraggi del deserto. A mio parere va ribaltato il luogo comune secondo cui la chiarezza ed il buon senso appartengono al linguaggio razionale, mentre la confusione ed il caos a quello creativo che viene dal mistero. E' esattamente vero il contrario. La ragione non ha alcunché di epistemico: essa è il regno dell'opinabile, e ciò che è opinabile non ha nulla a che vedere con l'universalità. Questa è appannaggio, invece, della riflessione interiore che non ha alcunché di soggettivo essendo legata al mistero dell'Essere, a quel "dialogo coi divini" che è innanzitutto dialogo con se stessi, con la propria divinità. Sono letteralmente affascinato dalle riflessioni che Vito conduce su questi argomenti, tese a riscoprire la sapienza originaria precedente allo sviluppo di una "civiltà della ragione" che ha offuscato la chiara luce del mistero che vive dentro di noi. Mi sento di aggiungere, tuttavia, che la ricerca interiore rifugge da qualsiasi iniziazione che pone la verità nelle scuole, nei depositari, negli eletti, i quali inevitabilmente trasformano in senso dogmatico ed intellettualistico (quindi di nuovo razionalistico) delle scoperte che sono di esclusiva pertinenza dell'interiorità. Esiste un solo Maestro, quello interiore, ed esiste una sola scuola, una sola università: quella della strada e della vita, oggi purtroppo dimenticata.
    Franco Campegiani

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  2. Errata corrige (ottava riga): "Anche la parola ha due facce", al posto di "Anch'esso ha due facce".
    Franco Campegiani

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    1. Caro Franco, quello che aggiungi nella chiusura del tuo chiaro commento, oltre che indicare quanto regolarmente è accaduto e accade, definisce l'iniziazione nel modo più onesto, cioè in negativo. Il dogma, il codice, non servono ad altro che ad impedire l'accesso allo spazio interiore, quello dove la libertà può essere esperita nella sua autenticità. La celebre invettiva di Gesù di Nazareth contro il clero del tempo ha chiuso, per chi ha orecchie da intendere, le pratiche di culto alienanti istituite a fini di controllo sociale. Del vero "rito", quel "re-itus" che adombra il ritorno indietro nel tempo, l'esperienza della memoria totale celata nel profondo psichico, non vi è traccia se non, appunto, nell'interiore. Chi ha percorso tale strada ha lasciato tracce percorribili, ma queste possono essere occultate, stravolte, distrutte così come possono essere fuorviate, disprezzate o incomprese. Fa parte del gioco.

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