Anna Maria D’Ambrosio
Attorno a un giardino
Prefazione
di Nazario Pardini
… ah, non avere questo corpo
pesante
non subire la servitù
corporale
non udire la goccia che scende
non sentire il vuoto e volare
…
E’
sparso il lamento. Un canto defunto.
… prima il tempo era buono.
Era innocente …
Una
silloge che si dipana su uno spartito di cinque momenti in progressiva e
diacronica successione poematico-parenetica: Attorno, Un giardino, Dolore e Bellezza in lotta, Ombrello capovolto, Marginali,
Attorno a un giardino È questa ultima sezione a porsi con valenza eponima. Un crescendo di proteiforme valenza
intimistica che, attraverso una scalata alle vette della vita, giunge ad una
visione melanconica di un pianeta indifferente al succedersi degli accadimenti
umani: tutto passa con la solita frequenza; tutto con la stessa invocazione
alla pietà celeste:
… E il pianeta dei Viventi…
chi lo guarda ?
Chi perennemente
lo vuole?
Il fanale sul portone
somiglia a un lumino
in fondo alla navata.
Ardenti
lo stesso freddo e oscurità,
la stessa invocazione
alla pietà celeste.
Ma
bisogna iniziare dalla prodromica citazione testuale per immergersi da subito
nella poesia feconda, plurale, e polivalente di Anna Maria D’Ambrosio. Un canto
che ci dice di vita; di tutto ciò che comporta la sua molteplice significanza:
amore, confronto col tempo, illusione, delusione, inquietudine, noia, saudade, dolore,
ingiustizie sociali, libertà. Un mélange di cospirazioni emotive che, con ardua
metaforicità, è assemblato ai confini di un giardino dagli ampi ricami simbolici
in cui siamo destinati a vivere. Attorno
a un giardino il titolo. Uno spazio vitale a cui l’uomo manca di rispetto con
la sua rapace ed incosciente indifferenza visto che ci è stato dato in eredità
da padri che ne facevano un simbolo divino, di iconica bellezza. Sì, un Eden che
significava onestà, purezza, dedizione,
rispetto, coinvolgimento panico; che conteneva quel terriccio fertile, sano e
disposto a far crescere fiori dai colori sapidi di poesia. Un giardino che
forse è rievocazione, ritorno; riaffacciarsi di antiche primavere; un giardino
che tiene e contiene tutte le nostre aspirazioni, comprese quelle di onirico
trasporto. E l’intorno è noia, abbandono di giovani, magari ad alcol per
dimenticare; quasi che il destino ci abbia vincolato a soffrire delle nostre
mancanze:
… a stare lì,
ad affidare al bar
il proprio tempo,
distolto da un lavoro
sopportato –
inerti, opache –
libere generazioni
se ne vanno. (Libero bar).
Sì, prima il tempo era buono. Era innocente… Aspirare
al volo, con azzardi di Icaro per vincere il vuoto. Questo è il messaggio della
Poetessa. Non subire la servitù corporale. Un ansia di libertà, di orizzonti
indefiniti, di luminose sponde, per svincolarsi dalle sottrazioni umane; dalla
pochezza del nostro essere terreni; dalle abitudinarie bassezze della miseria
epigrammatica. Una inquieta via crucis, questo “poema”, fatto di stazioni zeppe
di ontologica riflessione; fatto di abbrivi spirituali che tendono alla ricerca
e al rinnovamento: un climax ascensionale carico di umana consistenza che dal
particolare sa elevarsi a un’epifanica palingenesi di plurale Weltshmertz. Sì
di un dolore universale che abbraccia l’uomo in tutta la sua condizione
esistenziale; morale, materiale. Un percorso impossibile ma agognato verso una
terra che ri-avvolge il nastro dell’esistere. D’altronde è proprio dell’uomo ambire a soglie
che tocchino la porta dell’azzurro. Non si può accontentare della sua misera e
ristretta vicenda, dacché è l’unico essere a soffrire della coscienza della sua
mortalità. Misurarsi col tempo è una cosa vincolante, sconvolgente; ci si può
rifugiare nel memoriale per cercar di tradire la clessidra; per cercar di
prolungare il nostro esserc-ci riattivando volti, incontri, momenti; dare loro
nuova linfa e riportarli alla luce. Il fatto sta che la stessa memoria ci dà la
chiara cognizione del tempus fugit; del rapporto della nostra storia col
passato:
Siamo tempo.
Di sostanza
friabile e oscura
la nostra inconsistenza
gravosa,
il carico sostenuto
a fatica,
quand’è un soffio,
una piuma.
“.. Il
distintivo del genio è la memoria universale.. L’inconscio è il tempo… La
memoria rende atemporali le esperienze.. Se non esistesse l’atemporale, non ci
sarebbe alcuna intuizione del tempo..” (Weininger);
renderle atemporali è l’ambizione della Nostra; combattere col giorno; con le
sue solite monotonie; con quei confini che ci rendono precari, infinitamente
deboli; creare un ingresso al giardino segreto, con parenetiche immissioni, con
auspicanti intermezzi, che tanto sanno di romanza lirica nei loro tocchi sonori;
nei loro versi di eufonica grazia che non di rado contrastano ossimoricamente
con significati aspri e risentiti. Versi segmentati, brevi, e incisivi che
concretizzano perspicacemente momenti di abbandono o di forte pensamento che
l’Autrice vive in prima persona e che tende a oggettivare, a trasferire ad una
coscienza universale:
… Applaudite
l’asservimento,
ridete della prigionia
e negate.
Diventare grandi
è imparare a mentire. (Al circo).
Sì, un risentimento verso una
società malata, verso una società liquida di viandanti sperduti e indifferenti
alle aporie del mondo. Affermava Eliot che la poesia è connaturata all’umanità:
“Il poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a copiare”. E la Nostra la
vive appieno la vita, ne coglie gli angoli più segreti, più visivi, senza
alcuna reticenza, le storture più palesi, e sa che essa è poesia; sa che essa significa
soffrire, per motivi reali e vicissitudinali; per motivi che riguardano l’uomo
in quanto tale; un uomo dalla duplice faccia che a sera rientra e si sveste
della pirandelliana muta per ritrovarsi, per non perdere la sua identità:
… Rientro
e mi appendo.
Appendo
la tuta mimetica –
guanti, parrucca,
cappello –
il travestimento
completo. (Occhiali da sole),
intrisa
dei dubbi sul perché dell’esistere:
… C’è il tavolo.
La tazza. La piastrella.
Io ci sono. Io ??
Due lettere sibilate
attraverso la parete :
io?! (Dubbio),
in
una comunità di isolati e disperati. In una società cosiddetta civile con su i
marciapiedi reietti, scarti, esseri con anima e cervello, ridotti a larve per
incuria umana:
… Una città di macerie
la tua vita dispersa,
qualche fantasma
e il ricordo molesto,
crudele come l’inverno,
di un altro te stesso
perduto. (Barbone).
Ma
viene la notte ed il giardino si tinge di evanescenti sagome:
Anche di notte
continua a esistere
il giardino
nell’incantato sonno
delle piante.
Disfatto
il giardino di luce –
il buio crea
forme indefinite,
di colore notturno,
se non per il tocco
delle corolle chiuse.
Alberi senza nome,
fiori senza memoria,
addormentati,
uniti al Tutto
silenzioso della notte.
(Notturno)
Un
giardino che nasconde nelle immagini vaghe le aporie dei dintorni illuminate
dal giorno. Una tristezza che trova riposo in una panica effusione; in un
dilatarsi di sapori notturni dai toni melodici, nordici, protoromantici, da intermezzo da Manon Lescaut. È qui che
l’Autrice raggiunge acuti di maggior
lirismo, in questo afflato, in questa simbiotica fusione fra naturismo e anima
parlante; fra anima e alcova consolatrice: forme indefinite, corolle chiuse,
alberi senza nome, fiori senza memoria, silenzioso notturno. Un insieme di
figure surrreali che dànno vita a frammenti d’animo; a momenti esistenziali
spersi in evanescenze atemporali.
Segue
Un giardino a cui succede Dolore e bellezza in
lotta, dove la fede è:
… Luce nascosta,
che apparirà un giorno
nel suo fulgore (Fede)
dove:
Mutano le ombre.
Muta il sentimento.
Identico il tedio quotidiano.
Almeno fossi ramo
perduto al vento,
e
dove perfino gli amori, fragili, sono cosparsi di quella malinconica
traiettoria che guida la silloge; amori bisognosi di rinnovamento d’innocenza
per non morire:
…
si abituano
i nostri amori.
Sono fragili,
bisognosi di cura,
di rinnovata innocenza.
Ed
è qui che la vita appare come una zattera con vele di carta “contro i marosi
della realtà”:
Sulla mia zattera
con una vela di carta
contro i marosi della realtà.
In Ombrello
capovolto l’Autrice è alla ricerca di un’isola per vivere da eremita; per
contemplare a distanza:
Uno spazio sospeso e raccolto:
un’isola da eremita
come un ombrello capovolto
appeso a una trave mentale.
E da lassù contemplare
amare a distanza
trattenere la vita.
Sì,
trattenere la vita dal suo volteggiare rapido e fuggitivo. Dacché Anna, pur
incespicando in risvolti che tanto sanno di amara vicissitudine, ama fino nel
profondo delle viscere questa unica e irripetibile combinazione. Ad essa è
legata, ed è ad essa che dedica la sua sentita e profonda confessione. E la sua
tristezza deriva proprio dal fatto che le sfugge; che tarda a rinnovarsi intrisa
di rancori, difese, rimorsi:
Da rancori veniamo,
da difese e rimorsi
a calmarci in silenzio.
Dai corpi accostati
trasfonde la vita
che abbiamo unito.
Confermare
un infinito amore nella ricerca di un bene familiare forse è sempre stato agognato
e mai del tutto appagato per Anna Maria D’Ambrosio:
… Come stai?
Sei stata la mia mamma
su questa terra,
tanto tempo fa.
Vengo a trovarti qui.
Vengo a trovarti a casa.
Versi
pieni di sentimento e di vicissitudine che con melodica snellezza si fanno
tatuaggio di un sentire di notevole resa lirica.
In Marginali
a farsi avanti e a dare continuità organica e compattezza ispirativa sono i
tanti perché della vita: il vuoto, la questione del tempo, il precipizio umano:
… Se il tempo fosse compatto,
lo taglierei a blocchi
ed è aria
che produce vuoto.
Per loro un’isola
tutta di parole,
dove
persino le memorie sono destinate ad essere assorbite dalla voracità
dell’oblio. E dove Donne filosofe,
Antonia, La gerla, A un ragazzo di periferia, Migranti costituiscono un’occasione
multicorde per un poetare energico; per una filosofia su thanatos ed eros; su
essere ed esistere.
Ed è con la sezione eponima che si chiude
questa silloge coinvolgente e trascinante. Sì, coinvolgente, dacché la Nostra
riesce spigliatamente a trasferire nella sua vicenda ognuno di noi; dacché
ognuno di noi riconosce una parte di sé in questa storia intrisa di pulsioni
emotive di grande valenza umana:
Attorno a un giardino
coltivo il mio essere
nel mondo.
Cos’è un giardino?
Il non - luogo del desiderio
dove tornare
con chi ho amato.
L’ariosa intimità
di un’isola mentale.
Lo guardo
quest’asilo di fiori
prossimo alla grazia
e separato
da invalicabili cancelli:
tracce di bellezza
bruciano
più di qualsiasi pena
essendo la bellezza
presente e irraggiungibile. (Attorno
a un giardino).
È
qui che mira approdare Anna Maria D’Ambrosio con tutta se stessa; ad un
giardino carico di purezza e di bellezza dove poter tornare con chi ha amato,
pur sapendo che tale orizzonte è chiuso da cancelli insormontabili; un azzardo
oltre i confini che delimitano i nostri sogni; verso l’oltre, il tutto, verso
l’inarrivabile; verso quegli approdi negati all’uomo: motivo di inquietudine e di
malum vitae.
Nazario
Pardini
Difficile aggiungere un commento all'Opera di Anna Maria D'Ambrosio dopo
RispondiEliminala disamina perfetta del nostro Nazario. Tuttavia provo ad aggiungere le sensazioni che questa Silloge intimistica - non intima- , ha suscitato in me.
Il ritorno alla mitologia che caratterizza ogni infanzia, alla figura della madre, simbolo del grembo, dal quale si riceve la vita e al quale inesorabilmente si torna, sono tematiche trattate con pathos e infinito amore, ma senza i termini inflazionati, che caratterizzano i versi dedicati a questi argomenti. E cosa dire dell'aspirazione alla bellezza, al 'giardino di’ariosa intimità, di un’isola mentale', con gli amori perduti. L'Eden che cerchiamo, é senz'altro l'isola post -terrena cui si riferisce l'Autrice, Luogo che non sappiamo esattamente come sia, ma da cristiani, abbiamo la certezza che esista. Oso aggiungere una sorta di consolazione per la D'Ambrosio: gli amori che ci hanno lasciato sappiamo che abitano il 'giardino' al quale lei allude, ma di cui non c'é dato conoscere i particolari, ma siamo certi di sapere dove restano: accanto a noi!
Ringrazio per questa presentazione arricchente e per versi di simile spessore...
Maria Rizzi