Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
IN RISPOSTA A:
http://nazariopardini.blogspot.it/2015/10/vito-lolli-orfeo-il-canto-segreto.html
OMERO ED ORFEO
http://nazariopardini.blogspot.it/2015/10/vito-lolli-orfeo-il-canto-segreto.html
OMERO ED ORFEO
Caro Vito, mi ero impegnato a tornare
sull'argomento da te svolto su Leucade ("Il canto
segreto di Orfeo", 13 ottobre 2015), chiamandomi direttamente in
causa, ed eccomi a te con le mie riflessioni, nella speranza di riuscire ad
appassionare e a coinvolgere nel dibattito anche i nostri lettori. Ritengo
utile, oltre che appassionante, la presente discussione per mettere a fuoco l'habitat mentale
consono alla nascita del mito, e dunque al proliferare delle arti e della
poesia. Ti avevo anticipato che il cuore del mio ragionamento si sarebbe
aggrumato intorno ai temi della distanza del mitico cantore dagli orizzonti
dell'Armonia dei Contrari, e partirei dalla considerazione che nelle culture
native di ogni luogo e tempo non sembra sussistere quella divisione radicale
tra sogno e realtà, tra umano e divino, tra maschile e femminile, tra bene e
male, eccetera, presente invece nelle successive e disarmoniche elaborazioni
del pensiero.
Non voglio dire con questo che in quelle
culture non si conoscano le differenze, i contrasti, le divaricazioni, ma, al
contrario, che proprio la diversità è la condizione affinché possa avvenire
l'incontro, l'abbraccio, la cooperazione. Non vige, in quelle culture, l'idea
della separazione, e neanche quella della fusione,
appartenenti alle successive degenerazioni del pensiero. Tutto, in quelle
culture, è relazione, è dialogo, armonia. Sto parlando
- è evidente - del tempo delle origini, tempo sospeso tra il divenire e
l'essere, tempo degli archetipi, tempo dell'eterno atto creativo. Sto
parlando dell'eterno presente, in bilico tra passato e futuro, con
un piede nello spazio-tempo ed un altro nell'insondabile mistero. Origini,
dunque, non originarie ma originanti, da non
intendere nel senso storico o preistorico del termine, ma nel senso
archetipico, perennemente attuale.
Uscendo dalla comunione edenica, Adamo
taglia i ponti con quel tempo delle origini, per immergersi nel tempo
che scorre, sotto il dominio della dea Ragione. La separazione lo
allontana dalla vita degli archetipi, vita di relazione e di dialogo, vita di
miti sorgivi, facendogli perdere creatività e rendendolo autoreferenziale, pur
lasciandogli la libertà di riaprire i canali come e quando vuole. Un identico
strappo distoglie il Greco antico dalla sapienza atavica e dal substrato
mitopoietico delle remote culture, producendo l'avvento di quella nuova scienza
che prende il nome di filosofia. Il passaggio non è brusco, ma viene preparato
dalla decadenza stessa dei miti sorgivi, quando, smarrita la primitiva spinta mito-poietica,
si trasformano gradatamente in mito-logia, in scienza o teoria del
mito.
Come sappiamo, sono i Presocratici ad
insorgere contro la degenerazione feticistica dei miti. Il loro pensiero,
intermedio tra l'età della Sapienza e l'età della Ragione,
è ambivalente: da un lato è nemico acerrimo dell'arcaico sapere, mentre dall'altro
ne cerca, al di là della decadenza, il più autentico cuore. Per un verso i
Presocratici spianano la strada alla successiva cultura antropocentrica; per un
altro puntano i fari sul cosmocentrismo avito. Per un verso inaugurano le
filosofie della separazione dei contrari, per un altro ribadiscono
i rigorosi principi dell'armonia dei contrari.
In questa sede non è necessario
distinguere tra filosofie e credenze religiose, perché ciò che interessa è
unicamente il rapporto che le emergenti visioni del mondo stabiliscono con il tempo
delle origini, o con l'armonia dei contrari, con il Bifrontismo
tipico dei miti. Sotto tale riguardo, c'è da osservare che le scuole
orfico-pitagoriche, di pari passo con la scuola eleatico-parmenidea, spingono
nella direzione di un monismo dell'Essere teso a svalutare la realtà sensibile,
e ciò produce una scelta di campo, una separazione appunto
dalla dualità armonica delle ancestrali culture. Soltanto la scuola ionica, con
particolare riguardo ad Eraclito, si erge a paladina dell'armonia dei
contrari, opponendosi al generale indirizzo monistico delle
emergenti filosofie.
Ogni razionalismo è monistico, non
soltanto l'essenzialismo testé considerato. Lo sono anche quelle visioni che,
al contrario, negano l'universale, come ad esempio il Sofismo labirintico e
tragico che nega valore all'Essere, lasciando tracce indelebili, a sfondo
nichilistico, nello sviluppo della cultura occidentale. L'Orfismo, rispetto a
tutte queste correnti, conserva una posizione centrale. Esso sperimenta la
dualità della realtà e del sogno. Non nega valore né all'una né all'altro, ma
non riesce a farlo in maniera armonica e vive la dualità in maniera
conflittuale. Il mitico Orfeo non si accorge che l'Eden è qui, sepolto nelle
arcane trame di se stesso e del creato, così si pone ad inseguirlo in mondi
irreali. Egli crede che gli dei siano fuggiti dal mondo, mentre è lui stesso ad
essersene separato. Così le melodie stordite e svenevoli con cui tenta di
catturarli sono tutt'altro che quelle della cruda ed impervia condizione
originaria.
Sono nenie dell’assenza, dove si evoca,
ma non si vive il Paradiso perduto. Canti dell'esilio dalla terra, dalla donna
smarrita, dalla pienezza dell’essere, da armonie conosciute e poi abbandonate.
La sua tensione verso il sovrasensibile viene così a scontrarsi con un'acuta e
sconvolgente percezione del reale. È il senso catastrofico dell’impotenza che
fa seguito all'esaltazione di potenza del genere umano. Quando Orfeo, tornando
dall'Ade, si volta per guardare Euridice, disobbedendo ai divieti ricevuti,
mostra tutta la precarietà e l'illusorietà della sua fede. Euridice scompare e
lui precipita nella più sconsolata disperazione. La realtà vince sul sogno e
lui, da cantore dell’Essere, si fa aedo del Nulla. I suoi voli metafisici
precipitano, come quello di Icaro, in un franare rovinoso. La sua testa, recisa
dalle Menadi, continua a cantare sulle acque del Lete, ma non � più il canto della meraviglia e
dell'estasi, è l'epicedio del fallimento e della fine.
NelI’Orfismo c'è anticipata tutta intera
la vicenda della cultura occidentale, dagli esordi metafisici alle conseguenze
nichiliste del pensiero attuale. Ma a ben guardare il nichilismo era implicito
fin dai primordi negli orizzonti monistici della filosofia, che guarda caso nacque
insieme alla tragedia nel mondo classico, in parto gemellare. L'armonia dei
contrari non è monistica, non è castrante, ma è la capacità di
accettare i contrasti in quanto tali, con forza d'animo, senza manipolazione
alcuna. Gli opposti, nell'Eden, sono funzionali l'uno all'altro. Entrambi
occorrono alla costruzione della coscienza e nel loro insieme formano un'alta
tensione incandescente: quella della creatività e della vita morale. E' vero
che Caino e Abele sono inconciliabili, ma sono fratelli e non dovrebbero
diventare nemici mortali. L'uno ha bisogno dell'altro, tanto più che
rappresentano aspetti ineliminabili di ciascuno di noi, della nostra coscienza
e della nostra integrità morale.
Le armonie edeniche si fondano
sull'abbraccio e non sulla separazione del Bene dal Male. Non a caso i frutti
proibiti sono quelli che danno la possibilità di dividere i due poli
tra di loro. "L'accordo è nel disaccordo stesso", dice
Eraclito, ma Orfeo ha già separato i due poli ed è già uscito dall'Eden quando
inizia a cantare. Tutto il bene è lassù e lui muove verso l'alto le proprie
ali, cercando di cancellare le orme del mondo reale. Combatte allo stremo e ne
paga lo scotto, per questo merita tutta la nostra comprensione. Nel Simposio,
Platone lo biasima perché “fiacco nell’animo, vile nel canto, incapace di
azione”, ma ciò è ingeneroso, e direi anche un po' disumano. Quale uomo è
immune dall'illusione? Brutto è perseverare, non prendere atto del proprio
errore, ma lui si rende conto di avere lottato contro i mulini a vento. Per
questo si schianta e precipita in una delusione letale.
Purtroppo non ce la fa a rinascere dalle
proprie ceneri. Non si ricostruisce come l'araba fenice. Non riprende animo,
come Ulisse, il leggendario ed omerico eroe. Odisseo è sempre nell'Eden.
Altalenante e mutevole, vive nell'armonia dei contrari. Non è certo
immune dalle tragedie e ben conosce i fallimenti esistenziali. Fa però tesoro
di ogni insuccesso, cibandosi delle sue stesse delusioni. Non è un eroe
decadente, come il mitico e seducente cantore, ma di certo è anche un perdente,
uno cui il fato riserva un'infinità di sventure. E tuttavia è l’indomito
nauta, il combattente umilissimo e fiero, cui, nonostante le sconfitte cocenti,
l'ardimento non viene meno. Il naufragio gli occorre per ricostruire il
vascello ed orientare meglio la prua. Non è un drago sputafuoco, un uomo
gonfio di boria: non a caso si fa chiamare Nessuno. Non vuole
dominare, ma tenta di padroneggiare se stesso, giacché è di ciò che ha bisogno
per potersi confrontare con l’ignoto.
C’è un’esperienza letteraria importante,
nel panorama e nelle vicende sostanzialmente orfiche dei tempi attuali, che in
qualche modo raggiunge l’Ulissismo e di cui è opportuno parlare. Ricordiamo i
versi dell’ Allegria ungarettiana: “E subito riprende / il
viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”?
Questo è Ulisse: il testardo nauta che torna sempre e comunque a navigare.
L’Ulisse di Ungaretti non ignora la sconfitta, e sta qui l’aspetto orfico della
sua figura. Tuttavia, dopo la disgrazia si rimette in cammino. Questo tipo di
Ulisse, coraggioso e prudente, può nascere soltanto dalle ceneri di Orfeo. E’
un eroe autocritico, allenato alla revisione costante dei propri schemi
mentali. La sua visione del mondo è agli antipodi di ogni concezione statica o
definitiva, per cui ogni fine corrisponde ad un principio, ogni nascita ad una
morte, e così via all’infinito. Ulisse propone una visione evolutiva e fluida,
non statica o schematica della psiche.
Dopo l’Odissea omerica, non c’è forse
poema più odisseico di quello dantesco. La Divina Commedia, infatti, non
ha alcunché di orfico, se con questo termine dobbiamo intendere l’esilio di Orfeo
dalla pienezza dell’Essere; o, se vogliamo, dal divino. Dante raggiunge
l’Empireo, ovvero le fonti battesimali dell’umano nel divino. E questo è
Ulissismo, non Orfismo. Poco importa che l’Ulisse descritto da Dante venga
orficamente ingoiato dalle fauci dell’ignoto. Bisogna distinguere il Dante
poeta odisseico dall’Ulisse titanico che egli pone all’Inferno, soppresso in
quanto profanatore del mistero. Il vero Ulisse non ha alcunché di arrogante o
presuntuoso. Egli è l’umile eroe di se stesso che si libera dalle proprie
ansie, dai propri blocchi, dalle proprie paure. Non sfida il divino, ma
l’umano, ed è così che riesce a rendere l’umano degno del divino. E’
l’autoanalisi in persona.
Dante, come Ulisse, è un problematico.
Non può essere contrapposto all’orfico Petrarca in quanto privo di dubbi e
tronfio di certezze boriose. Sono tutti luoghi comuni. Dante non è un fideista,
ma un uomo di macerazione interiore. I suoi tormenti sono fecondi, perché fanno
di lui un uomo di fede. Petrarca non è un problematico, in quanto i suoi dubbi
sono schematici, sono a senso unico, aprioristici e del tutto improduttivi.
Socrate, altra figura odisseica, nel suo conosci te stesso, insegna
come il dubbio e la fede si possano compenetrare. Ed io ritengo che la cultura
contemporanea, approdata da tempo agli orfici temi del Nulla, del Nonsenso e
del Vuoto, abbia un forte bisogno di questo ulissismo,
incrementando quell’umilissima fede in se stessi e quell’intraprendente
conoscenza del mistero, di cui è depositario Ulisse e che soltanto la sua
figura può propagare.
C'è un'enorme distanza tra Omero ed
Orfeo. L'aedo ionico canta gli umani e i divini in una familiarità mai
interrotta o abbandonata. Ci sono momenti di forte dissidio, perché Adamo deve
uscire dall'Eden, non può evitare questa disavventura. E tuttavia, se ne esce
deve potervi tornare, stando ai principi dell'armonia dei contrari. E vi
torna, cosa che non avviene nelle storie cantate dal tracio. Costui separa il
divino dal mondo, ma in realtà è lui stesso a separarsi dal mondo, stabilmente
abitato dal divino. Le vie segrete ed iniziatiche sono invece sconosciute ad
Omero. Il motivo è molto semplice: il suo pensiero innocente non ha mai
interrotto l'alleanza con il divino. Omero è cieco e la cecità, tra gli
antichi, ha connotazioni sacrali. Costringe infatti a spostare lo sguardo negli
abissi interiori, dove ha appunto sede il divino. Inoltre, essendo cieco, egli
deve essere accompagnato, e ciò chiama in causa lo stare insieme, il senso
corale, la vita in comune.
Secondo l'etimo, Omero significa "ostaggio".
Come mai? Al cantastorie viene riconosciuto un contatto con il divino, ed è per
questo che il popolo lo trattiene come "ostaggio", come pegno
o garanzia che il divino non può abbandonare l'umano. C'è indubbiamente un
rapporto intimo del poeta con il divino, ma al solo patto di non insuperbire,
di non cercare privilegi e di consegnare le confidenze alla vita comune. Omero
è un semplice tramite, mentre Orfeo, cantando pubblicamente le proprie storie,
cade nel narcisismo e tende ad esaltare le proprie gesta, divenendo mistico di
sé. Come detto, è una flessione spirituale comprensibile, entro i limiti dell'armonia
dei contrari e dell'equilibrio duale, ma superati quei limiti si entra
pesantemente nella presunzione e nascono i gruppi segreti, con tanto di eletti
e seguaci, di adepti e depositari della verità.
La verità tuttavia non si apprende dalle
scuole, anche se le scuole insegnano la verità. Esiste un solo Maestro, quello
interiore, ed esiste una sola scuola, una sola università: quella della strada
e della vita, oggi purtroppo dimenticata. Il mito-poieta è un tramite. Non deve
salire sul piedistallo, spinto dal desiderio di fare proseliti, e neppure deve
isolarsi dal mondo, beato di se stesso e lieto di non dare le perle ai
porci. Il vero eremita vive tra la folla e si rivolge di riflesso alla
comunità, affinché ciascuno, ascoltandolo, ascolti se stesso e mediti su quanto
rivelato facendone occasione di crescita interiore in assoluta libertà.
Purtroppo, anche raccontando miti si può divenire dottrinari. La
mitologia, non meno dell'ideologia, può prestarsi a forme di settarismo del
tutto prive di spiritualità.
Il mito si presta a due differenti
interpretazioni: una iniziatica e l'altra spirituale. Spiritualità non è
intimismo, ma universalità. Ed ecco che il mito diviene popolare. Si pensi alla
sacralità delle religioni contadine, dove il sacerdote (anch'egli un tramite)
si guadagna sul campo la propria investitura e parla il linguaggio della gente
comune, non quello dogmatico e retorico di chi vuole imporre la propria
autorità. Indubbiamente, anche le storie omeriche hanno subito una
degenerazione. Anche per esse la mitopoiesi è degenerata in mitologia,
in impianto etico-normativo, ma ne è venuto un corpus di
innocue parabole popolari, tramandate oralmente di padre in figlio, senza
precettori all'uopo istituiti. Sono fiabe depositate nell'inconscio collettivo,
destinate a riscaldare l'animo di chi le racconta e le sente raccontare,
nonostante qualche cedimento al feticismo, alla superstiziosità. Non c'è alcun
motivo di infierire contro costoro, come fanno i filosofi e i dottrinari che
hanno tagliato i ponti con la sacralità.
Franco Campegiani
Nessun commento:
Posta un commento